Gli ordini professionali possono costiruirsi parte civile in un procedimento per il reato di esercizio abusivo della professione, per ottenere il risarcimento o la riparazione di un danno non soltanto morale, bensì anche patrimoniale.
Possono assumere veste di danneggiati quei soggetti che, sia pure in via mediata e di riflesso, abbiano subito a causa della violazione della norma penale in questione, un danno tipicamente di carattere patrimoniale, quale va ritenuto quel pregiudizio che è causato dalla concorrenza sleale subita in un determinato contesto territoriale dai professionisti iscritti all’associazione di categoria, danno che va ad aggiungersi a quello consistente nell’offesa all’interesse circostanziato riferibile all’associazione professionale, in tal caso legittimata a costituirsi parte civile nel procedimento penale per ottenere il risarcimento o la riparazione non già di un danno soltanto morale, bensì anche patrimoniale. ( Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net) Sez. IV sentenza del 03-06-2008, n. 22144
omissis
Svolgimento del processo
Con sentenza emessa il 17 giugno 1998 il Pretore di Pescara, sezione distaccata di San Valentino in Abruzzo Citeriore, dichiarava D. I.M. e L.R. responsabili di concorso nei reati di cui agli artt. 110 e 348 c.p. (commessi fino al (OMISSIS)) e art. 590 c.p., art. 583 c.p., comma 1, nn. 1 e 2 (commesso nel (OMISSIS)); unificati i suddetti reati ex art. 81 c.p., li condannava alla pena di L. 6.750.000 di multa per ciascuno, disponendone la interdizione per un mese dall’esercizio della professione di medico odontoiatra (ove successivamente conseguita dal L. la relativa abilitazione). Il Pretore condannava altresì i predetti imputati in solido al risarcimento dei danni ed al rimborso delle spese in favore del Consiglio dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri di Pescara nonchè in favore dell’altra parte civile costituita D.G.M., persona offesa dal delitto di lesioni colpose, danni liquidabili in separata sede al suddetto Consiglio dell’Ordine ed invece liquidati in complessive L. 34.275.000 per la D.G..
Secondo il giudicante erano stati provati i seguenti addebiti mossi ai due imputati:
- l’avere – la D. (medico chirurgo), mettendo a disposizione del L. (odontotecnico) il proprio studio medico, ed il L. sottoponendo ivi a visita i pazienti ed effettuando interventi sul cavo orale degli stessi (trapanazione di denti, estrazione ed installazione di protesi) – concorso nell’esercizio abusivo della professione di medico odontoiatra, preclusa all’odontotecnico L., abilitato al solo supporto ausiliario del sanitario, e della professione di medico (capo A della imputazione) e di medico dentista, alla quale era abilitata la sola D. (capo B);
- l’avere, il L. effettuando prestazioni mediche sine titulo e la D. consentendo tale attività abusiva, e comunque entrambi prestando cure inidonee ed inadeguate a D.G.M., causato a quest’ultima, agendo con negligenza, imprudenza ed imperizia, lesioni personali gravi che avevano comportato l’indebolimento permanente dell’organo della masticazione (paradentosi diffusa, assorbimenti ossei di media entità, infiammazioni gengivali e perdita ingiustificata di alcuni elementi dentari).
Sull’impugnazione di ambo gli imputati, la Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza emessa il 14 aprile 2000 e depositata il giorno 8 settembre 2004, riconosceva ai medesimi le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti del delitto di cui all’art. 590 c.p. e riduceva pertanto la pena complessiva a L. 2.000.000 di multa, eliminando la pena accessoria inflitta al L.; confermava nel resto l’appellata sentenza, con condanna degli appellanti in solido alla rifusione delle spese del grado sostenute dalle parti civili.
La Corte territoriale disattendeva, in primis, il motivo di appello con il quale il L. aveva eccepito la nullità e la inammissibilità della costituzione delle parti civili in quanto la sottoscrizione della procura speciale rilasciata dalla D. G. non era autenticata da pubblico ufficiale ed in quanto il Consiglio dell’Ordine dei Medici non era legittimato a costituirsi parte civile non essendo soggetto passivo del reato di esercizio abusivo dell’arte medica (parte offesa dovendo considerarsi soltanto la Pubblica Amministrazione), e comunque l’atto di costituzione recava la firma, per autentica, del solo difensore. Nel merito, la Corte territoriale rigettava il motivo, di impugnazione, comune ad ambo gli appellanti, volto a censurare la ritenuta attendibilità della persona offesa D.G. affermando che correttamente il primo giudice aveva riconosciuto credibilità al deposto della suddetta persona offesa, sia per la precisione, costanza ed univocità delle relative dichiarazioni sulle cure praticatele dal solo L. negli ambulatori della dottoressa D., sia per la presenza di precisi (quantunque non indispensabili) riscontri – di natura testimoniale e documentale nonchè costituiti dalle risultanze dell’espletata perizia di ufficio – a quanto dichiarato dalla suddetta teste, mentre non erano attendibili le dichiarazioni rese dal teste a discarico E. (altro odontotecnico che lavorava per la D. ed era peraltro, significativamente, retribuito dal L.), interessato e caduto in contraddizione con la stessa D., nonchè autore di dichiarazioni vaghe e di natura meramente presuntiva, frutto di un suo affermato "guardicchiare" attraverso la porta semiaperta mentre era in sala d’attesa. Correttamente, pertanto, il primo giudice aveva affermato la responsabilità di ambo gli imputati, concorrenti nei reati de quibus. Hanno proposto, uno actu, ricorso per cassazione i due imputati, deducendo i motivi che vengono qui indicati in ordine logico:
- Vizio di motivazione in ordine alla ritenuta attendibilità della persona offesa, per non avere i secondi giudici, nel formulare un giudizio di attendibilità del deposto della persona offesa dal delitto di lesioni colpose, considerato in senso negativo la circostanza che la paziente D.G. aveva sporto denuncia solo al momento di pagare il saldo, nonchè travisamento del fatto laddove si è affermato che il teste, fidanzato di costei, avrebbe deposto di avere "visto le molestie";
- Violazione di legge in riferimento agli artt. 129 e 192 c.p.p., in quanto, in presenza di una causa estintiva del reato, il proscioglimento s’impone non soltanto quando sia acquisita la prova di innocenza, ma anche quando manca del tutto quella di colpevolezza, tale secondo caso essendo, secondo i ricorrenti, presente nel caso in esame;
- Violazione di legge in ordine alla ritenuta ammissibilità della costituzione di parte civile della D.G., non avendo costei conferito al proprio difensore procura speciale per la costituzione di parte civile bensì un semplice mandato difensivo, e del Consiglio dell’Ordine degli odontotecnici in ordine al reato di esercizio abusivo della professione, di cui all’art. 348 c.p.p..
Riguardo alla costituzione di parte civile del suddetto Consiglio dell’Ordine i ricorrenti hanno affermato, in primo luogo, il difetto di legittimazione attiva – perchè il reato concerne soltanto marginalmente la professione medica e gli interessi professionali, tutelando esso l’interesse della collettività a che determinate professioni siano esercitate unicamente dai soggetti abilitati, sicchè gli ordini professionali, in quanto non portatori di tale interesse, non sono legittimati a costituirsi parte civile in un procedimento per il reato di esercizio abusivo della professione se da tale reato non è derivata lesione alla categoria sotto il profilo morale – ed hanno dedotto ulteriori violazioni di legge, consistenti nell’avvenuta sottoscrizione da parte del solo difensore dell’atto di costituzione di parte civile e nella circostanza che non risultava essere stato prestato dal Ministro della Salute (la persona offesa è rappresentata dallo Stato e per esso dal suddetto Ministro) il consenso previsto dall’art. 93 c.p.p..
Motivi della decisione
I ricorsi, proposti uno actu e con i medesimi motivi dagli imputati, sono inammissibili.
Quanto al motivo sopra indicato sub 1), va rilevato che la Corte territoriale – dopo avere affermato che la persona offesa o danneggiata dal reato assume, anche quando invochi in sede penale l’accertamento del fatto costitutivo del diritto al risarcimento od alle restituzioni, la qualità di testimone e che alle dichiarazioni testimoniali da questa rese non si applicano le regole di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che postulano la necessità di riscontri esterni, ma è necessario, atteso l’interesse di cui detta persona è portatrice, un vaglio dell’attendibilità maggiormente rigoroso di quello al quale vanno sottoposte le dichiarazioni rese da testi "non interessati", sì che appare opportuna l’indagine sul riscontro in altri elementi probatori (affermazione corretta alla luce di consolidata giurisprudenza di legittimità: vedasi, ex plurimis, Cass. sez. 3^, 27-4-2006, n. 34110, Valdo Iosi) – ha condiviso, in ragione della sua precisione, concordanza ed insuscettibilità di diverse interpretazioni, il giudizio di attendibilità formulato dal primo giudice in ordine alla deposizione dibattimentale resa da D.G.M., persona offesa dal reato di lesioni colpose, sul fatto che ella era stata sempre visitata e curata dal L. negli ambulatori della Dott.ssa D., quest’ultima mai intervenuta nelle cure suddette, neppure quando era presente.
I secondi giudici hanno aggiunto che la deposizione suddetta aveva trovato conferma nella testimonianza di C.R. (ex fidanzato della persona offesa, non più tale, cioè, al momento di rendere la testimonianza) il quale aveva affermato:
- di avere più volte accompagnato la D.G. nello studio della D. essendo a conoscenza del fatto che costei veniva visitata e curata da un dentista, e precisamente dal "Dott. L.", come gli aveva sempre detto la D.G.;
- di avere, in una occasione, visto la D. conversare con i propri clienti nella sala d’attesa mentre l’allora sua fidanzata si trovava all’interno del laboratorio, evidentemente curata dal L.;
- di avere egli in una occasione – entrato nello studio – visto il L. controllare la bocca di quest’ultima. Un secondo riscontro era quello costituito dall’assegno di L. 2.000.000 dato dalla D.G. a titolo di acconto al L., il quale lo aveva, del tutto significativamente, intestato al proprio nome e posto all’incasso.
Infine sussisteva il riscontro costituito dalla perizia disposta d’ufficio, dalla quale erano risultate provate le cure improprie ed errate (costituite da interventi – otturazioni incongrue, terapie canalari incomplete – talmente maldestri da non essere assolutamente rapportabili a moderni principi do odontoiatria) lamentate dalla persona offesa, eseguite con ogni evidenza da un abilitato all’esercizio della odontoiatria.
Osserva questa Corte che tale motivazione (integrata da quelle ragioni di inattendibilità del teste della difesa E.N. che sono state sopra riportate nella parte narrativa della presente sentenza) sfugge agevolmente alle censure di illogicità manifesta e di travisamento del fatto mosse dai ricorrenti, atteso che con detto motivo si afferma del tutto apoditticamente l’assenza di prove inequivocabili di responsabilità senza minimamente considerare l’iter logico attraverso il quale i giudici di merito sono pervenuti invece all’affermazione della prova di responsabilità degli imputati per i reati loro ascritti, sicchè la doglianza è affetta anche da mancanza di specificità, costituente causa di inammissibilità della impugnazione ai sensi del combinato disposto dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 581 c.p.p., lett. c).
Quanto, poi, al dedotto "travisamento del fatto – che, per essere deducibile a sostegno di ricorso per cassazione sub specie di vizio di manifesta illogicità della motivazione, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) (come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 entrata in vigore ad anni di distanza dalla data di proposizione del ricorso de quo) si dovrebbe risolvere in un "travisamento della prova" (vizio che si configura nel caso in cui il giudice abbia indicato il contenuto della prova stessa in modo difforme da quello reale, e la difformità risulti decisiva ed incontestabile: Cass. sez. 2^ 17-10-2007, n. 38915, Donno ed altri), basti pensare che i ricorrenti rimproverano, deducendo detta censura, ai giudici di merito di avere operato "la ricostruzione degli eventi basandosi solo sulle impressioni di un testimone sito posteriormente al prevenuto sull’autobus, lo avrebbe comunque visto arrecare le molestie di cui al capo di imputazione". E’ evidente che il motivo così articolato attiene a vicenda, protagonisti e reato che nulla hanno a che fare con il procedimento penale nei confronti di D.I.M. e L.E..
Così come è evidente, per le ragioni sopra illustrate, la inammissibilità del primo profilo dei suddetti profili di censura della motivazione, dovendosi precisare che per costante giurisprudenza di legittimità (vedasi, tra le più recenti, Cass. sez. 3^, 12-10-2007, n. 40542, Marrazzo e altro), nell’ipotesi di ricorso per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, il sindacato in sede di legittimità è limitato alla sola verifica della sussistenza dell’esposizione dei fatti probatori e dei criteri adottati al fine di apprezzarne la rilevanza giuridica nonchè della congruità logica del ragionamento sviluppato nel testo del provvedimento impugnato rispetto alle decisioni conclusive, sicchè resta esclusa la possibilità di sindacare le scelte compiute dal giudice in ordine alla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova, a meno che le stesse non siano il frutto di affermazioni apodittiche o illogiche, ipotesi, questa, che è, per le ragioni sopra illustrate, assente nel caso di specie.
Affetto da manifesta infondatezza è, poi, il motivo sub 2), il quale è costituito dal mero richiamo al principio di diritto secondo il quale (come da richiamate decisioni di questa Corte), il proscioglimento nel merito, a norma dell’art. 129 cpv. c.p.p. si impone non solo quando, in presenza di una causa estintiva del reato,sia già acquisita la prova d’innocenza dell’imputato, ma anche qualora manchi del tutto la prova della colpevolezza, principio male invocato nella specie, per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo perchè la mancanza di prova della colpevolezza costituisce di un mero apodittico assunto dei ricorrenti a fronte della sopra illustrata motivazione della sentenza gravata di ricorso nella quale sono state indicate, viceversa, le prove della responsabilità dei due imputati per i reati loro ascritti.
In secondo luogo perchè la doglianza, così come formulata, avrebbe senso ove la Corte territoriale avesse dichiarato, pur in presenza di una delle cause di non punibilità previste nel secondo comma dell’art. 129 c.p.p., (ma erano comunque assenti, come già si è rilevato, i presupposti per il proscioglimento degli imputati ai sensi della norma appena citata) la estinzione dei reati ascritti, ma nella specie i secondi giudici non hanno dichiarato estinti i reati medesimi i secondi giudici non hanno affatto (considerato che, alla data della pronuncia gravata di ricorso non era maturato il termine della prescrizione ai sensi degli artt. 157, 158 e 160 c.p.p., tenuti presenti gli atti interruttivi del decorso del suddetto termine nonchè le sospensioni ex lege del medesimo verificatesi in primo grado nella fase del giudizio, per complessivi anni 1, mesi 5 e giorni 14) dichiarato non doversi procedere per essere estinti i reati contestati ma hanno, in parziale riforma della sentenza resa in primo grado, riconosciuto ad entrambi gli imputati le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza e rideterminato c
nseguentemente le pene, eliminando la pena accessoria inflitta al L., con conferma nel resto dell’appellata sentenza.
Va qui anche osservato che i ricorrenti non hanno comunque dedotto uno specifico motivo per sostenere l’avvenuta prescrizione, e che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta a cause "originarie" preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., l’estinzione del reato per prescrizione, tanto nel caso in cui la suddetta causa estintiva siasi verificata successivamente alla data di pronuncia della sentenza di appello quanto in quello in cui la stessa sia maturata in data anteriore a tale pronuncia, ma non sia stata dedotta nè rilevata da quel giudice ((Cass. S.U. 22-3-2005, n. 23428, Bracale).
Manifestamente infondate sono, infine, le doglianze che concernono la ritenuta ammissibilità della costituzione di parte civile della persona offesa D.G.M. per il reato di lesioni colpose e del Consiglio dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri della Provincia di Pescara.
Quanto alla prima, dall’esame degli atti del procedimento – ai quali il giudice di legittimità ha accesso essendo stato dedotto un error in procedendo ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. c), (Cass. S.U. 31- 10-2001, n. 42792, Policastro ed altri) – risulta che D. G.M. si costituì parte civile con atto depositato in data 1 luglio 1995, da lei sottoscritto con autentica da parte del difensore, contestualmente nominato con conferimento di "ogni facoltà di legge".
I ricorrenti sostengono che tale atto di costituzione sarebbe invalido perchè carente della sottoscrizione del difensore prevista dall’art. 78 c.p.p., comma 1, lett. e), ma questa Corte rileva che correttamente la relativa eccezione è stata disattesa dai giudici di merito, in quanto la suddetta sottoscrizione, sia pure accompagnata dalla dizione "per autentica", va ritenuta non mancante, atteso che la giurisprudenza di legittimità è da tempo orientata (vedansi, tra le altre, Cass sez. 5^ 24-11-2005, n. 845, Mandare ed altri, sez. 5^ 18-5-2004, Viscardi, e sez. 5^, 1^, 20-3-2002, n. 24018, Carloni ed altri) nel senso di ritenere che la sottoscrizione del difensore, in calce o a margine dell’atto di costituzione di parte civile, assolve congiuntamente alla funzione di cui alla norma sopra citata ed a quella di autenticazione della firma del danneggiato sulla procura speciale, quando a questa si faccia riferimento nell’atto di costituzione ed entrambi gli atti siano poi depositati nella medesima data (così come si è verificato nel caso di specie).
Va aggiunto che nei casi in cui è prescritto che la parte stia in giudizio col ministero di un difensore munito di procura speciale (art. 100 c.p.p., comma 1) – la quale può essere conferita anche con scrittura privata autenticata dal difensore o da altra persona abilitata – il mandato, in virtù del generale principio di conservazione degli atti, deve considerarsi valido anche quando la volontà del mandante non sia trasfusa in rigorose formule sacramentali, ovvero sia espressa in forma incompleta, potendo il tenore dei termini usati nella redazione della procura speciale e la sua collocazione topografica escludere ogni incertezza in ordine all’effettiva portata della volontà della parte (Cass. sez. 4^ 3-2- 2004, n. 14863, Micucci).
Nella fattispecie in esame devesi dunque ritenere valida la formula di conferimento di procura speciale, in considerazione sia della espressione usata, sia, soprattutto, della sua apposizione unitamente all’atto di costituzione di parte civile, così come è stato ritenuto dal primo giudice nell’ordinanza resa nella udienza del 23 ottobre 1996.
Restano da esaminare le censure che concernono l’avvenuta costituzione di parte civile, in riferimento al reato di cui all’art. 348 c.p.p., del Consiglio dell’Ordine interessato.
I ricorrenti hanno, in primo luogo, eccepito che l’atto di costituzione reca la sola firma del difensore e non anche quella del presidente del Consiglio dell’Ordine.
Detta eccezione è manifestamente infondata in quanto l’art. 78 c.p.p., comma 1, lett. e), richiede a pena di inammissibilità la sottoscrizione del solo difensore, e nella specie l’atto è stato sottoscritto dall’Avvocato Potatura Walter, al quale era stata conferita "Procura speciale per la costituzione di parte civile" nel giudizio de quo del Consiglio dell’Ordine dei medici e dei chirurghi degli odontoiatri di Pescara. E se è vero – così come ulteriormente affermato in ricorso, questa volta a sostegno dell’assunto della mancanza di legitimatio ad causam del predetto Consiglio dell’Ordine – che in tema di esercizio arbitrario della professione il bene tutelato dall’art. 348 c.p. in via primaria è costituito dall’interesse generale a che determinate professioni, richiedenti, tra l’altro, particolari competenze tecniche, vengano esercitate soltanto da soggetti che abbiano conseguito una speciale abilitazione amministrativa, sicchè deve ritenersi che l’eventuale lesione del bene anzidetto riguardi in via diretta ed immediata la pubblica amministrazione, con la conseguenza che gli ordini professionali non sono abilitati a costituirsi parte civile all’unico fine di tutelare gli interessi morali della categoria quando all’ordine stesso non sia derivato un danno (vedasi, ex multis, Cass. sez. 2^, 12-10-2000, n. 11078, Zagami), ciò non toglie, tuttavia, che (Cass. sez. 5^, 18-11-2004, n. 3996, Gaglianò ed altri) possano assumere veste di danneggiati quei soggetti che, sia pure in via mediata e di riflesso, abbiano subito a causa della violazione della norma penale in questione, un danno tipicamente di carattere patrimoniale, quale va ritenuto quel pregiudizio che è causato dalla concorrenza sleale subita in un determinato contesto territoriale dai professionisti iscritti all’associazione di categoria, danno che va ad aggiungersi a quello consistente nell’offesa all’interesse circostanziato riferibile all’associazione professionale, in tal caso legittimata a costituirsi parte civile nel procedimento penale per ottenere il risarcimento o la riparazione non già di un danno soltanto morale, bensì anche patrimoniale (vedansi Cass. sez. 6^ 30-11-1998, n. 795, Marazzi ed altro; sez. 6^ 1-6-1989, n. 59, Monticelli).
Nella specie i ricorrenti enunciano le ragioni di diritto per le quali gli ordini professionali e le associazioni di categoria non sono legittimati a costituirsi parte civile in un procedimento penale per il reato di esercizio abusivo della professione ove la costituzione trovi fondamento solo nella necessità di difendere gli interessi morali della categoria, ma non esplicitano che detta costituzione sia stata effettuata soltanto a tale fine nel caso concreto.
Infine, va rilevato che la non censurabilmente affermata legittimazione del Consiglio dell’Ordine de quo a costituirsi parte civile per richiedere il risarcimento di un danno da dallo stesso subito assorbe e, nel contempo destituisce di ogni fondamento, l’ulteriore profilo di censura che i ricorrenti hanno articolato testualmente come segue: "A prescindere poi dall’inosservanza delle norme procedurali stabilite dagli artt. 93, 94 e 95 c.p.p. va rilevato che nel caso di specie la persona offesa è rappresentata dallo Stato e per essa dal Ministro della Salute, che non risulta aver prestato il consenso previsto dall’art. 93 c.p.p. cui è espressamente (sic: leggasi: "subordinato") l’esercizio delle facoltà spettanti agli enti ed alle associazioni". Invero, una volta ritenuta la legittimazione del Consiglio dell’Ordine a costituirsi parte civile onde ottenere la riparazione di un danno "proprio" di natura (anche) patrimoniale, le norme di cui all’art. 91 c.p.p. (in tema di diritti e facoltà degli enti e delle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, i quali possono esercitare "i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato"), art. 92 c.p.p. (ai sensi dei quali l’esercizio di tali diritti e facoltà "è subordinato al consenso della persona offesa") e art. 93 c.p.p. (il quale prevede che per il suddetto esercizio l’ente o l’associazione presenti all’autorità un atto di intervento ed, unitamente al medesimo, la dichiarazione di consenso della persona offesa) nulla hanno a che vedere con il caso in oggetto, nel quale il Consiglio dell’Ordine ha, diversamente, agito costituendosi parte civile per la riparazione di un danno ad esso direttamente riferibile in relazione all’interesse di categoria protetto dall’ordine professionale.
Le citate norme procedurali, a partire dall’art. 91 c.p.p. operano su di un piano del tutto diverso da quello dell’azione risarcitoria, con le stesse avendo il vigente codice di rito riconosciuto agli enti collettivi in questione la titolarità degli stessi poteri di impulso e di sollecitazione riconosciuti alla persona offesa conferendo loro la facoltà di intervenire nel processo penale in una veste accusatoria senza assurgere al ruolo di parti, ed una conferma della collocazione degli enti collettivi in un’area estranea alla pretesa risarcitoria la si ricava dall’art. 212 disp. att. c.p.p., per effetto del quale "quando leggi o decreti consentono la costituzione di parte civile o l’intervento nel processo penale al di fuori delle ipotesi indicate nell’art. 74 c.p.p., è consentito solo l’intervento nei limiti ed alle condizioni previsti dagli artt. 91, 92, 93 e 94 c.p.p.".
La ritualmente avvenuta costituzione di parte civile dell’ordine professionale de quo, a tanto legittimato ai sensi dell’art. 74 c.p.p., in quanto danneggiato (attinto, cioè, da un danno, che presenta aspetti anche materiali e consiste nell’offesa all’interesse circostanziato alla cui tutela esso è preposto) dalla commissione del reato di esercizio abusivo della professione toglie, dunque, ogni rilevanza alle censure dei ricorrenti che concernono il diverso istituto dell’intervento, disciplinato dagli artt. 93 e 94 c.p.p. e rende inutile che questa Corte esamini il merito del motivo con il quale viene dedotta la inosservanza delle disposizioni codicistiche in tema di intervento.
Per le sin qui esposte ragioni i ricorsi in esame vanno dichiarati inammissibili, con conseguente condanna – visto l’art. 616 c.p.p. e tenuta presente la sentenza della Corte costituzionale 13 giugno 2000, n. 186 – dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità e, ciascuno, a favore della cassa delle ammende, di una somma che va congruamente determinata in Euro 1000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2008.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2008