il professionista, il medico specialista in particolare, è tenuto non già a una prestazione professionale comune bensì ad una condotta specifica particolarmente qualificata, in ragione del proprio grado di abilità tecnico-scientifica nel settore di competenza.
Quando l’intervento da cui sia derivato il danno non presenti particolari difficoltà di esecuzione, l’avvenuta dimostrazione, a vantaggio del paziente danneggiato, dell’aggravamento della situazione patologica ovvero dell’insorgenza di una nuova patologia sarà idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all’inadeguata o negligente prestazione. Spetterà, quindi, al medico fornire la prova che la prestazione sia stata eseguita in maniera diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Corte d’Appello di Roma – Sez. I, Sent. del 06.04.2009
omissis
Svolgimento del processo
Con la sentenza n. 1115, depositata il 17 settembre 2003, il Tribunale di Viterbo, sulla resistenza di Pu.Vi., dell’Azienda Sanitaria Locale di Viterbo e dell’As. S.p.A. ha accolto la domanda di risarcimento dei danni subiti da Fr.Ad., Fr.Ag. e Ri.An. in proprio e quali eredi di Fr.An. in seguito alla mancata tempestiva e corretta diagnosi presso l’Ospedale Civile di Montefiascone di una forma tumorale al colon che aveva portato al decesso del congiunto, avvenuto il 23 agosto 1997.
L’Azienda Sanitaria, ritenuta esclusiva responsabile del fatto dannoso, è stata condannata al pagamento della somma di Euro 299.807,50 oltre accessori e alla rifusione delle spese di lite mentre sono stati assolti dalle avverse domande sia il medico – chirurgo Pu. che l’impresa assicuratrice di questi.
Avverso tale sentenza hanno proposto una prima impugnazione principale (N.R.G. 6489/04) gli eredi Fr., chiedendone la riforma per la mancata affermazione della concorrente responsabilità del chirurgo operante Pu. ed anche a titolo di violazione delle disposizioni in tema di consenso informato nonché per la mancata liquidazione del danno morale.
Nel costituirsi in tale giudizio sia il Pu. che l’As. S.p.A. si sono, viceversa, opposti alle avverse pretese, chiedendone il rigetto, sostenendo la correttezza dell’impugnata decisione.
Con autonoma impugnazione principale (N.R.G. 6743/04) l’Azienda Sanitaria Locale di Viterbo ha, a sua volta, contestato la decisione di prime cure sostenendo l’insussistenza dell’accertata responsabilità del nosocomio, l’impossibilità di liquidare il danno da invalidità permanente e, in ogni caso, l’eccessività del danno effettivamente liquidato.
Nel costituirsi in tale giudizio, gli eredi Fr. si sono opposti all’avversa impugnazione anche se, in via di appello incidentale, hanno riproposto le medesime doglianze di cui al precedente appello principale.
Si è, altresì, costituito anche in tale procedimento Pu.Vi. aderendo all’impugnazione principale.
Nel giudizio è, inoltre, intervenuta ad adiuvandum dell’impugnante principale la società assicuratrice dell’Azienda Sanitaria Locale di Viterbo e cioè la Fo.Sa. S.p.A. peraltro non costituita nel pregresso giudizio.
Riunite le due impugnazioni, ai sensi dell’articolo 335 del codice di rito e precisate le conclusioni, come da verbale in atti, le cause riunite sono state, infine, trattenute in decisione all’udienza collegiale dell’8 ottobre 2008, con i termini di legge.
Motivi della decisione
In via preliminare e di rito, deve dichiararsi l’inammissibilità dell’intervento nel presente giudizio della Fo.Sa. s.p.a..
In punto di diritto, invero, deve premettersi come l’intervento in appello sia ammissibile soltanto allorquando l’interventore sia legittimato a proporre opposizione di terzo, ai sensi dell’articolo 404 c.p.c., ovvero nel caso in cui rivendichi, nei confronti di tutte le altre parti, la titolarità di un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione accertata o costituita dalla sentenza di primo grado e non anche quando l’intervento stesso sia qualificabile come adesivo, perché volto a sostenere l’impugnazione di una delle parti per porsi al riparo da un pregiudizio mediato dipendente da un rapporto che lega il diritto dell’interventore a quello di una delle parti (v. di recente Cass. 23 maggio 2006 n. 12114).
Nel caso di specie, questa volta in punto di fatto, non può dubitarsi della natura di intervento adesivo dell’impresa assicuratrice dell’Azienda Sanitaria Locale di Viterbo.
Depongono in tal senso, da un lato, le stesse asserzioni dell’interveniente, che si qualifica espressamente come “interveniente adesivo” e, d’altra parte, l’esame della posizione sostanziale evidenziata (v. conclusioni rassegnate nella comparsa d’intervento).
Quanto al merito effettivo, poi, l’impugnata sentenza resiste senza dubbio alcuno alle diverse e varie impugnazioni.
In punto di diritto può osservarsi, sulla scorta della più recente giurisprudenza (v. in particolare la completa ed esaustiva Cass. 13 aprile 2007 n. 8826, proprio in tema di colpa professionale medica) come:
a) il professionista, il medico specialista in particolare, sia tenuto non già a una prestazione professionale comune bensì ad una condotta specifica particolarmente qualificata, in ragione del proprio grado di abilità tecnico-scientifica nel settore di competenza;
b) in tema di ripartizione dell’onere probatorio, una volta provati dal paziente la sussistenza ed il contenuto del contratto di cura sanitaria, allorquando la prestazione dell’attività non consegua il risultato normalmente ottenibile in relazione alle circostanze concrete del caso incomba al medico, soprattutto nell’ipotesi d’intervento semplice o routinario, dare la prova del verificarsi di un evento imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza che lo stesso ha impedito di ottenere; laddove tale prova non venisse fornita, secondo la generale regola di cui agli articoli 1218 e 2697 c.c. il sanitario risulterebbe soccombente;
c) quando l’intervento da cui sia derivato il danno non presenti particolari difficoltà di esecuzione l’avvenuta dimostrazione, a vantaggio del paziente danneggiato, dell’aggravamento della situazione patologica ovvero dell’insorgenza di una nuova patologia sarà idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all’inadeguata o negligente prestazione spettando, quindi, al medico fornire la prova che la prestazione sia stata eseguita in maniera diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.
Passando all’esame, questa volta in punto di fatto, della fattispecie sottoposta all’esame della Corte si nota che:
a) il de cuius degli odierni appellanti Fr. venne ricoverato all’Ospedale Civile di Montefiascone il 13 luglio 1997 a seguito di una diagnosi di carcinoma allo stomaco rilevata dall’esame istologico effettuato su di un prelievo bioptico nel corso di una esofagogastroduodenoscopia del precedente 13 giugno;
b) nel corso del previsto intervento operatorio del successivo 18 luglio venne, però, riscontrata dal chirurgo, da una parte l’assenza di lesioni neoplastiche gastriche e, d’altro canto, la presenza di una forma di carcinoma al colon che venne asportato;
c) lo stesso paziente veniva, quindi, sottoposto ad ulteriori due operazioni, rese necessarie da complicazioni intestinali (infarto intestinale da trombosi dell’arteria mesenterica superiore) fino all’avvenuto decesso in data 23 agosto.
Tale essendo l’incontroverso quadro clinico di partenza gli appellanti Fr. si dolgono della mancata affermazione della responsabilità nella causazione dell’evento letale del loro congiunto anche del chirurgo Pu. con particolare riferimento:
a) ad un errore terapeutico, nascente dall’allungamento del tempo operatorio;
b) alla mancanza di consenso informato per l’operazione al colon.
Quanto a tale ultima doglianza ritiene la Corte, con assorbente considerazione, come in primo grado gli odierni appellanti si siano doluti di tale circostanza soltanto in comparsa conclusionale (v. pagine 11 – 17) e nella memoria di replica (v. paragrafo n.
2) e, quindi, tardivamente rispetto al thema decidendum così come cristallizzato dalla domanda introduttiva.
Gli stessi Giudici di legittimità hanno, anche di recente (v. Cass. 3 settembre 2007 n. 18513), affermato come si realizzi una vera e propria indebita mutatio libelli a seguito dell’evidenziazione, ai fini dell’accoglimento di una domanda risarcitoria, della mancanza di consenso informato a fronte dell’originaria domanda di accertamento di una responsabilità per colpa professionale.
Del pari, quanto alla presunta colpa professionale del chirurgo le conclusioni dei consulenti d’ufficio, sorrette da congrua motivazione ed ispirate ai principi tecnici della materia che non depongono quindi per la necessità di una nuova consulenza, propendono:
a) per la correttezza dell’effettuato intervento chirurgico e delle tecniche operatorie utilizzate in concreto (v. pagine 29 – 30 della relazione peritale);
b) per la mancanza di nesso causale tra le complicanze postoperatorie che portarono al decesso del paziente e l’opera del chirurgo stesso (v. pagine 30 – 31 della relazione peritale).
Rispondendo, inoltre, alle osservazioni dei consulenti di parte gli stessi consulenti d’ufficio hanno chiarito come la rimozione del carcinoma effettivamente esistente fosse si differibile ma avrebbe a breve comportato, a cagione del suo avanzato stato (“stenosante l’intero lume intestinale”), l’occlusione del viscere con necessità di intervento d’urgenza ed a grave rischio del paziente (v. pagina 8 del supplemento della consulenza d’ufficio); come la complicanza che portò al decesso non fosse stata di tipo settico bensì vascolare (v. pagina 10 del medesimo supplemento) e che l’infarto intestinale da cui derivò il decesso del paziente non fosse la risultante di una pretesa manovra non corretta (involontaria legatura dell’arteria mesenterica superiore v. pagine 10 – 11 supplemento consulenza).
Alla luce di quanto dianzi esposto le conclusioni cui è pervenuto il primo Giudice devono essere quindi pienamente condivise.
In altri termini ed in conclusione, non essendo stati, da un lato, evidenziati dagli appellanti Fr. ulteriori elementi di pretesa colpa in capo al chirurgo che si occupò dell’intervento chirurgico e, d’altra parte, neppure essendovi la certezza ovvero una grande probabilità che le diverse indicazioni formulate dai consulenti di parte e fatte proprie dagli stessi appellanti avrebbero determinato un diverso esito terapeutico ecco che deve disattendersi l’impugnazione principale.
A ciò può aggiungersi che quanto accertato in senso tecnico nel pregresso grado di giudizio risulta corroborato da quanto affermato da altri periti, nel corso del precedente giudizio penale, secondo i quali la complicanza (infarto intestinale) nascente dall’intervento chirurgico non era da ricondurre a profili colposi dei sanitari che effettuarono l’intervento (v. perizia dell’1 marzo 2001 e supplemento del 25 settembre 2001 prodotti in prime cure).
Quanto alla doglianza relativa alla mancata liquidazione in favore degli appellanti Fr. anche del danno morale essa appare, senza dubbio, infondata non tanto per le motivazioni espresse dal Tribunale, posto che ormai i Giudici legittimità ammettono anche la risarcibilità del danno non patrimoniale pur in assenza di fatto costituente reato e pur nell’ambito di responsabilità contrattuale (v. Cass. Sez. Un. 11 novembre 2008 n. 26972).
L’infondatezza deriva dall’aver il primo Giudice liquidato agli odierni appellanti il danno biologico dagli stessi subito e non per le mere sofferenze transeunti nascenti dal decesso del congiunto bensì per un danno c.d. “esistenziale”, incidente sulla generica capacità di vita del soggetto (v. sul punto Cass. 28 novembre 2008 n. 28423).
Passando all’esame dell’impugnazione proposta dall’Azienda Sanitaria Locale di Viterbo deve, in primo luogo, disattendersi la doglianza relativa alla non ascrivibilità alla struttura sanitaria del prolungamento dell’intervento operatorio.
In realtà il primo Giudice ha affermato la responsabilità della struttura ospedaliera sulla base dell’accertato inadempimento contrattuale scaturente dall’errore iniziale della diagnosi piuttosto che del prolungamento dei tempi dell’intervento operatorio stesso.
Testualmente si afferma nella sentenza impugnata (v. pagina 7 della motivazione) che: “la struttura sanitaria convenuta (quale ente da cui dipendeva la struttura diagnostica che procedette in data 13.6.1997 al prelievo di tessuto al paziente Fr.An.) debba ritenersi responsabile di inadempimento per l’indiscutibile errore accertato dai CTU (qualificabile come inesatto adempimento)”.
Errore che i CTU fanno verosimilmente risalire ad uno scambio di frammenti istologici commesso presso il reparto di endoscopia o quello di anatomia ed istologia patologica (v. pagina 26 della relazione peritale).
Da tale iniziale e fondamentale errore, non legato sotto il profilo squisitamente clinico ad una diretta correlazione con il decesso del paziente, sono poi derivati tutti gli ulteriori eventi che portarono all’exitus.
In punto di diritto però, giova precisare come la più recente giurisprudenza di legittimità in subiecta materia (v. a partire da Cass. 18 aprile 2005 n. 7997 e più di recente 17 gennaio 2008 n. 867) abbia precisato che esiste una lampante necessità di evitare la confusione o la sovrapposizione tra l’indagine sul nesso causale e quella sull’elemento soggettivo, cioè la colpa del professionista, poiché quest’ultima è la misura dell’avvedutezza dell’agente nel porre in essere il comportamento ritenuto illecito, in quanto pur sempre valutazione di una azione od omissione, mentre il nesso causale, al di là e prima di qualsiasi analisi di prevedibilità o evitabilità soggettiva è, puramente e semplicemente, la relazione esterna intercorrente tra comportamento ed evento, svincolata da giudizi di soggettiva prevedibilità: in altri termini e conclusivamente la colpa funge da limite all’oggettiva affermazione della responsabilità, una volta accertata la relazione causale tra la condotta e l’evento.
Quanto al nesso causale si precisa ulteriormente che:
a) il nesso di causalità è elemento strutturale dell’illecito, dato dalla relazione tra un comportamento astrattamente considerato e l’evento dannoso;
b) per individuare tale relazione si prescinde, in prima istanza, da ogni valutazione di prevedibilità, in quanto la previsione è elemento qualificativo dell’elemento soggettivo della colpa;
c) il nesso di causalità materiale è solo quello per cui ogni comportamento antecedente, che abbia quantomeno contribuito a generare tale oggettiva relazione con il fatto, deve considerarsi causa dell’evento;
d) il nesso di causalità giuridica, questa volta, è solo quello per cui i fatti sopravvenuti, idonei di per sé soli a determinare l’evento, interrompono il nesso con il fatto di tutti gli antecedenti causali;
e) la valutazione del nesso di causalità giuridica si compie attraverso un criterio di probabilità scientifica, se sufficiente o, ancora, un criterio logico, con l’ulteriore precisazione che nell’illecito omissivo l’incidenza del comportamento omesso è in relazione probabilistica inversa con l’evento stesso, che si sarebbe probabilmente avverato anche se il comportamento fosse stato attuato ed a prescindere da ogni forma di colpa;
f) il positivo accertamento del nesso di causalità, che deve fornire oggetto di prova da parte del danneggiato, consente il successivo passaggio alla valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito.
Tutto ciò premesso questa Corte ritiene, questa volta in punto di fatto, come correttamente il primo Giudice abbia fatto dipendere l’accertato inadempimento della struttura ospedaliera dal dianzi evidenziato errore diagnostico piuttosto che all’inadempimento di un ben individuato sanitario.
Il prolungamento dell’originario intervento operatorio in tanto avrebbe potuto avere il significato che l’Azienda appellante intenderebbe dare (dipendenza dall’esecuzione dell’emicolectomia in sé in quanto circostanza del tutto imprevedibile rispetto all’originaria programmazione di un intervento di tal fatta.
Ma, al contrario, i consulenti d’ufficio hanno chiarito come il tempo operatorio dedicato all’esplorazione dello stomaco fu assai limitato (v. pagina 12 del supplemento di consulenza) per cui deve obbligatoriamente ritornarsi all’originario errore diagnostico quale causa efficiente dell’inadempimento contrattuale del nosocomio.
Il danno è stato, inoltre, correttamente liquidato in prime cure, facendo buon uso dei principi elaborati dai Giudici di legittimità (v. Cass. 17 gennaio 2008 n. 870), con particolare riferimento al danno biologico, risarcibile in capo al danneggiato e trasferibile agli eredi allorquando, tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte causata dalle stesse, sia intercorso, come nel caso di specie, un apprezzabile lasso di tempo (18 luglio – 23 agosto 1997).
Del tutto generica è, ancora, la contestazione che l’impresa assicuratrice muove alla quantificazione concreta del danno (v. punto n. 4 dell’atto di citazione in appello) per cui, in difetto di concrete indicazioni circa le voci di danno non dovute o quantificate in eccesso (in quanto l’età avanzata del deceduto ed il suo pregresso stato di salute erano già state valutate dal Tribunale) deve disattendersi ogni lagnanza in proposito.
Sussistono, infine, gli estremi di fatto e di diritto, costituiti dal rigetto di tutte le impugnazioni, per dichiarare le spese del presente grado tra tutte le parti interamente compensate.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Roma, Sezione Prima Civile, definitivamente pronunziando sugli appelli come in atti proposti così provvede:
a) rigetta l’appello principale e quello incidentale proposto da Fr.Ad., Fr.Ag. e Ri.An., l’appello principale proposto dalla Azienda Sanitaria Locale di Viterbo e dichiara inammissibile l’intervento volontario proposto dalla Fo.Sa. s.p.a.;
b) dichiara interamente compensate le spese del presente grado di giudizio tra tutte le parti.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 4 marzo 2009.
Depositata in Cancelleria il 6 aprile 2009.