Confermata la sentenza con la quale era stata respinta la domanda svolta nei confronti della ASL dal medico convenzionato di medicina generale, diretta ad ottenere la dichiarazione di compatibilità della propria convenzione col rapporto di lavoro subordinato di ricercatore confermato a tempo definito, intercorrente con una facoltà di medicina in dipartimento c.d. “universitario puro” (vale dire non convenzionato col S.S.N.).

La ratio della disciplina delle incompatibilità, ha osservato la Suprema Corte, nel quadro di una sistemazione generale dei vari tipi di collaborazione medica all’interno del servizio sanitario nazionale, in funzione della valorizzazione e della migliore utilizzazione del relativo servizio, è quella di assicurare la tendenziale esclusività del rapporto di lavoro col servizio sanitario nazionale, salvo esplicite deroghe

Cassazione Civile – Sezione Lavoro, Sent., n. 15789 del 02.07.2010

omissis

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 3 febbraio 2006, la Corte d’appello di Torino ha confermato la sentenza del 21 giugno 2005, con la quale il Tribunale del lavoro della medesima città aveva respinto le domande svolte nei confronti della ASL X. di Torino dal Dott. C.C., medico convenzionato di medicina generale, dirette ad ottenere la dichiarazione di compatibilità della propria convenzione col rapporto di lavoro subordinato di ricercatore confermato a tempo definito, intercorrente con la facoltà di medicina dell’Università di X. nel dipartimento c.d. “universitario puro” (vale dire non convenzionato col S.S.N.), sostenendo, in via subordinata, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lett. a) dell’accordo collettivo 9 marzo 2000, reso esecutivo dal D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270, ove diversamente interpretato, per contrasto con gli artt. 3, 4, 32 e 35 Cost..

Avverso tale sentenza, il dr. C.C. propone ora ricorso per cassazione, affidandolo a due motivi, illustrati poi con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. Resiste alla domanda di cassazione della sentenza della Corte d’appello la A.S.L. X. di Torino, con rituale controricorso.

Motivi della decisione

1 – Col primo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 1 dell’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale sottoscritto il 9 marzo 2000 e reso esecutivo con D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270 (ora art. 17, comma 1 dell’accordo collettivo nazionale del 23 marzo 2005) e della L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 4, comma 7 nonché il vizio di motivazione.

In proposito sostiene che l’incompatibilità prevista per il medico convenzionato di medicina generale dalla prima delle norme indicate nella rubrica, col richiamo alla L. del 1991, art. 4, comma 7 indicata nella rubrica, riguarderebbe la coesistenza di incarichi di lavoro subordinato o convenzionato unicamente all’interno del servizio sanitario nazionale, cui nel caso di specie è estraneo il rapporto di ricercatore medico presso l’Università di X..

In proposito, partendo dalla considerazione che la norma applicabile è rappresentata da quella della L. n. 412 del 1991, “ai sensi” della quale l’accordo del 2000 come quello del 2005 dettavano la disciplina per i medici convenzionati di medicina generale, il ricorrente ribadisce la tesi, svolta nei precedenti gradi di merito, secondo cui dal tenore letterale e dalla ratio di tale disposizione si ricaverebbe la conclusione che le incompatibilità ivi previste operano esclusivamente all’interno del servizio sanitario nazionale.

Del resto, le norme di legge che regolano le incompatibilità dei ricercatori confermati a tempo definito consentirebbero l’espletamento dell’attività libero – professionale anche di tipo continuativo, tenuto altresì conto del fatto che l’attività universitaria a tempo definito non comporterebbe un impegno superiore ad una ora al giorno (200 all’anno) e che lui, in quanto ricercatore, aveva avuto ridotto ad un terzo dalla ASL nel passato il numero di pazienti come medico convenzionato.

2 – In via subordinata, il ricorrente ripropone l’eccezione di incostituzionalità della norma della L. n. 412 del 1991, art. 4, comma 7 in quanto richiamata negli accordi citati, per contrasto con gli artt. 32, 4 Cost., art. 35 Cost., comma 2 e art. 3 Cost..

Il ricorso conclude con la richiesta di annullamento delle sentenza impugnata, con ogni conseguenza di legge.

Il ricorso è infondato.

Secondo il D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270, art. 4, comma 1 invocato dalle parti:

1. Ai sensi della L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 4, comma 7 è incompatibile con lo svolgimento delle attività previste dal presente accordo il medico che:

a. sia titolare di qualsiasi rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato, anche precario, ad eccezione dei medici di cui al D.L. 14 giugno 1993, n. 187, art. 6, comma 1, convertito con modifiche nella L. 12 agosto 1993, n. 296.

Il richiamato L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 4, comma 7 dispone che:

“Con il servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico rapporto di lavoro. Tale rapporto è incompatibile con ogni altro rapporto di lavoro dipendente pubblico o privato, e con altri rapporti anche di natura convenzionale con il servizio sanitario nazionale… “.

Ambedue le parti e i giudici di merito correttamente interpretano la disposizione dell’accordo collettivo reso esecutivo col D.P.R. citato alla luce della norma di legge da esso richiamata in apertura.

Nella interpretazione di quest’ultima, va anzitutto confermata la lettura resa dalla Corte territoriale quanto alla prima parte della stessa e del resto condivisa anche dal ricorrente, vale dire che essa afferma solennemente che col servizio sanitario nazionale può intercorrere un solo rapporto di lavoro, sia esso subordinato o autonomo o convenzionato.

Trattasi di dato emergente con chiarezza dal tenore letterale della disposizione che non distingue, come invece nella frase immediatamente successiva, a seconda del tipo di rapporto di lavoro all’interno del servizio sanitario nazionale.

Già alla stregua dell’interpretazione indicata, non appare sostenibile l’assunto difensivo del ricorrente secondo cui la seconda parte della norma con lo stabilire l’incompatibilità di “tale rapporto” si riferirebbe esclusivamente ai rapporti di lavoro dipendente, pubblico o privato, col servizio sanitario nazionale, poiché in questo caso l’intera seconda frase sarebbe del tutto inutile, essendo il relativo precetto già ricompreso integralmente nella prima.

Sembra quindi più corretto ritenere che il riferimento sia rivolto a ogni rapporto pubblico o privato svolto al di fuori del servizio sanitario nazionale, mentre la finale indicazione della incompatibilità con altri rapporti anche di natura convenzionale col S.S.N. riveste il ruolo di mera accentuazione di un concetto già espresso, qui ribadito con riferimento alla principale forma di rapporto di lavoro autonomo ipotizzabile con tale servizio.

Del resto, come rilevato anche dalla sentenza impugnata, la particella “e” tra la prima e la seconda parte della seconda frase, a differenza ad es. della “o” di cui alla frase immediatamente successiva che tratta delle varie attività in possibile concorrenza coi S.S.N., è un ulteriore indicatore di una differenziazione tra i due gruppi di ipotesi.

La ratio di tale disciplina, nel quadro di una sistemazione generale dei vari tipi di collaborazione medica all’interno del servizio sanitario nazionale, in funzione della valorizzazione e della migliore utilizzazione del relativo servizio, è quella di assicurare la tendenziale esclusività del rapporto di lavoro col servizio sanitario nazionale, salvo esplicite deroghe, quale appunto quella, richiamata dall’accordo collettivo, prevista al D.L. n. 187 del 1993, art. 6, comma 1 conv. nella L. n. 296 del 1993 o quella stabilita dal medesimo L. n. 412 del 1991, art. 4, comma 1 per i medici dipendenti dal servizio sanitario nazionale coi limiti previsti dalla legge.

Esclusività che deve ritenersi apportare per i medici del servizio sanitario nazionale deroga alla norma citata dal ricorrente che consente ai ricercatori universitari confermati lo svolgimento di attività libero – professionale.

In tale contesto normativo appaiono infine non rilevanti le considerazioni del ricorrente in ordine al fatto che nel passato proprio la situazione di coesistenza dei due rapporti avrebbe determinato la decisione di ridurgli il numero di assistiti, in difetto della specificazioni in ordine al quadro normativo vigente all’epoca in cui tale fatto si era verificato.

Deduce peraltro in via subordinata il ricorrente che, così interpretata, la norma di legge sarebbe sospetta di violare gli artt. 32 (impedendo l’arricchimento professionale del medico attraverso l’esercizio di due attività complementari, ognuna non assorbente le possibilità di impegno lavorativo del medico), 4 e 35, 2 comma (impedendo senza valida ragione una attività lavorativa) e 3 Cost. (trattando il medico convenzionato in maniera difforme rispetto al medico dipendente).

La deduzione appare manifestamente infondata.

Va infatti ricondotta alla discrezionalità del legislatore la configurazione del sistema del Servizio Sanitario Nazionale in funzione della più ampia e articolata tutela del diritto fondamentale dell’individuo alla salute, attraverso la predisposizione di imponenti mezzi e di strutture per l’assistenza sanitaria, assegnando altresì all’interno del sistema ruoli differenziati ai vari partecipi, tenendo anche contro delle risorse umane disponibili, eccedenti in alcuni settori e carenti in altre, modulando quindi i regimi giuridici di collaborazione, predisponendo incentivi unicamente laddove si tratta di attrarre risorse in settori che lamentano la carenza e tentando una sistemazione di tutte le risorse disponibili, secondo una logica complessiva e settore per settore che non appare meritare, sia pure dal punto di vista del ricorrente, del resto in parte ancorato ad una situazione di mero fatto, le critiche svolte dal ricorrente.

Il ricorso va pertanto respinto.

La novità della fattispecie esaminata consiglia l’integrale compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese di questo giudizio.