Alcuni medici legati ad una associazione di volontariato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e addetti al servizio di guardia diurna, notturna e festiva presso il centro trasfusionale di un ospedale, avevano richiesto l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con l’Ospedale con inquadramento nel primo livello dirigenziale e con le conseguenti condanne alle differenze retributive; oppure, in via subordinata, l’accertamento dell’esistenza, nei periodi indicati, di un rapporto di lavoro subordinato con l’associazione, con diritto all’inquadramento nel livello D3 di cui al relativo C.C.N.L. e la condanna alle conseguenti differenze retributive.
La Suprema Corte ha confermato il ragionamento seguito nei precedenti gradi di giudizio ove veniva rilevato che nonostante i ricorrenti svolgessero compiti analoghi a quelli dei medici biologi dipendenti e fossero destinatari di direttive tecniche e controlli relativamente al modus operandi alla stregua di protocolli comunicati dall’Ospedale, essi erano tuttavia estranei ad un qualsivoglia assoggettamento gerarchico e nel loro rapporto di collaborazione difettava un obbligo di presenza imposto dal datore di lavoro, in quanto il loro inserimento nei turni avveniva sulla base della loro disponibilità dichiarata (che può anche poi venir meno), potendo inoltre essi decidere di non lavorare, anche per più giorni
Cassazione Civile – Sezione Lavoro; Sent. n. 21287 del 15.10.2010
Svolgimento del processo
Con distinti ricorsi ex art. 414 c.p.c., i medici biologi S. D. e F.S., legati all’AVIS di Milano da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e addetti al servizio di guardia diurna, notturna e festiva presso il centro trasfusionale dell’Ospedale N. Cà G. di Milano, avevano chiesto:
a) l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con l’Ospedale Cà G., per violazione del divieto di cui alla L. n. 1369 del 1960, art. 1, comma 2, rispettivamente dall’1.1.71 al 30.4.98 e dall’1.1.73 all’1.8.99, con inquadramento nel primo livello dirigenziale e con le conseguenti condanne relativamente alle differenze retributive; b) in via subordinata, l’accertamento dell’esistenza, nei periodi indicati, di un rapporto di lavoro subordinato con la Avis comunale di Milano, con diritto all’inquadramento nel livello D3 di cui al relativo C.C.N.L. e la condanna della Associazione alle conseguenti differenze retributive.
Con sentenza depositata in data 18 settembre 2006, notificata il 5 ottobre 2006, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma delle sentenze di primo grado, che avevano accolto le domande svolte in via subordinata dai due medici biologi, ha rigettato integralmente le domande originariamente proposte.
In particolare, la Corte territoriale ha escluso, alla stregua delle risultanze istruttorie, la natura subordinata della collaborazione resa dai medici biologi presso l’Ospedale e quindi anche la violazione del divieto legale di mera intermediazione di manodopera.
Avverso tale sentenza, S.D. e F.S. propongono un unico ricorso per cassazione, affidato a due motivi, notificato in data 4 dicembre 2006.
Resistono alle domande con separati rituali controricorsi l’Azienda Ospedaliera Ospedale N. Cà G. di Milano e l’Avis comunale della medesima città.
Motivi della decisione
1 – Col primo motivo di ricorso S.D. e F.S. deducono l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione della sentenza circa un punto decisivo.
La Corte territoriale, secondo i ricorrenti, non avrebbe tenuto in debito conto le mansioni da loro effettivamente svolte nonché il fatto che esse sarebbero state eguali a quelle espletate da biologi dipendenti dell’ospedale ed espletate sulla base di protocolli operativi e di direttive provenienti dal responsabile del servizio presso il N. , il quale avrebbe altresì esercitato il controllo circa l’osservanza di tali protocolli e direttive tecnico- organizzative.
Si tratterebbe infatti di circostanze di fatto chiaramente emerse dall’istruttoria testimoniale e documentale e che sarebbero indicative della natura subordinata del rapporto, come del resto il fatto che il responsabile del servizio ospedaliero avesse proceduto a valutare l’idoneità dei ricorrenti prima di affidare loro l’incarico in esame.
I giudici di appello avevano invece valorizzato il fatto che i ricorrenti potessero, a differenza dei biologi dipendenti, scambiare il turno o farsi sostituire, ritenendo che ciò fosse sintomatico della mancanza di un obbligo di presenza e pertanto decisivo sul piano della qualificazione del rapporto in termini di autonomia.
Sennonché la Corte territoriale non avrebbe al riguardo tenuto conto del fatto che la turnazione era soggetta ad approvazione da parte del responsabile ospedaliero, nè della disposizione scritta, in atti, impartita dall’Ospedale anche ai biologi dell’AVIS, di rispettare una sosta al termine del turno di sei ore e di non superare l’orario settimanale di trentasei ore.
Infine la Corte territoriale avrebbe errato nell’affermare che il materiale e la strumentazione utilizzata dai biologi sarebbero stati di proprietà dell’AVIS, mentre due testimoni avrebbero affermato che si trattava di materiale e strumentazione forniti dal N. .
2 – Col secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., laddove la Corte territoriale, pur avendo accertato la soggezione dei due biologi ad un potere di controllo e di direzione di natura tecnica da parte del primario ospedaliero responsabile del servizio, aveva escluso che tale dato potesse essere assunto ad indice della subordinazione, valutazione da ritenere errata, tanto più in ragione del fatto che i ricorrenti non avevano il potere di aderire o meno alle direttive del primario, di fatto uniformandosi sempre ad esse.
Il motivo conclude con la formulazione del seguente articolato quesito di diritto:
“1) accerti … la Corte, se vi sia vincolo di subordinazione e gerarchico anche solo quando l’assoggettamento sia tenue e rigoroso;
“(recte: non rigoroso);
112) … se vi sia stata violazione dell’art. 2094 c.c., da parte del giudice in appello, quando afferma che non si ravvisano indici di subordinazione nell’esercizio del primario del SIT di un potere di direttiva e di controllo di carattere tecnico nei confronti dei lavoratori S. e F. e ciò a fronte dell’adesione spontanea ed incondizionata da parte dei lavoratori medesimi”;
“3) accerti … se il rispetto di ordini e disposizioni impartiti da personale del beneficiario della prestazione integri la violazione della disciplina in tema di intermediazione di manodopera”.
Il ricorso conclude con la richiesta di cassazione della sentenza impugnata.
L’Avis, nel proprio controricorso, deduce preliminarmente l’inammissibilità dei motivi di ricorso, per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., in quanto il primo motivo non recherebbe la precisa indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria e l’esplicazione delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza di motivazione la renderebbe inidonea a giustificare la decisione, mentre il secondo motivo atterrebbe in realtà ad una censura che investe l’apprezzamento dei fatti e delle prove riservata ai giudici di merito, ad esso unicamente sovrapponendo una diversa rappresentazione dei fatti alla stregua dell’opposta valutazione delle risultanze istruttorie.
Nel merito, la società sostiene l’infondatezza del ricorso.
L’Ospedale, nel proprio controricorso, deduce la non pertinenza dei quesiti di cui al secondo motivo di ricorso, sostenendo comunque l’infondatezza delle censure svolte in ambedue i motivi.
Il ricorso è infondato.
Partendo per comodità di esposizione dall’esame del secondo motivo, appare fondata la censura di non pertinenza (del o meglio) dei quesiti di diritto formulati dai ricorrenti rispetto alle censure di violazione di legge svolte nel corpo del motivo.
Nel caso in esame era infatti applicabile la disciplina di cui all’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, con riguardo ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data del 1 marzo 2006 (cfr. art. 27, comma 2 D.Lgs. citato), alla stregua del quale “nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto”.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, per rispondere alle finalità della norma di legge, il quesito di diritto “deve essere tale da consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e correlativamente di un diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera della Corte di cassazione sia idonea a determinare una decisione di segno diverso” (cfr., per tutte, Cass. S.U. nn. 3519/08 e 2658/08 nonché Cass. sez. 1^ n. 14682/07).
In tale ottica, oltre ad essere normalmente ritenuta ammissibile la formulazione di quesiti multipli in relazione ad un unico motivo di ricorso (cfr. Cass. nn. 5471/08 e 1906/08), salva l’ipotesi in cui ciò non induca in alcun nodo il rischio di equivocità (Cass. n. 19560/07), il quesito di diritto deve inoltre essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie in giudizio (Cass. S.U. n. 36/07).
Nel caso in esame, a parte la molteplicità dei quesiti, comunque attinenti sostanzialmente e chiaramente alla pretesa violazione dell’art. 2094 c.c., si rileva che la sentenza impugnata aveva in sostanza affermato, sul piano dei principi, che il fatto di essere oggetto di direttive di carattere tecnico (inerenti a protocolli operativi elaborati a livello nazionale e internazionale a tutela della salute) nonché del controllo quanto al relativo rispetto, non può essere ritenuto, in considerazione della specifica natura delle prestazioni richieste all’operatore, indice decisivo di subordinazione, quando tali direttive e controlli non vengano associate, in caso di inosservanza, all’esercizio di un potere disciplinare ed in presenza, nella prestazione resa, di connotati che escludono l’obbligo di conformazione a modalità temporali imposte dal datore di lavoro.
Mentre quest’ultima affermazione della Corte viene censurata unicamente in fatto nel primo motivo, nel quesito di diritto, come del resto nel corpo, del secondo motivo essa viene stralciata dalla considerazione dei ricorrenti, nonostante la sua rilevanza anche sul piano della qualificazione giuridica, in ragione del fatto che investe uno dei principali elementi in cui si specifica, secondo l’insegnamento di questa Corte, la nozione legale di subordinazione – quale soggezione del prestatore all’esercizio del potere direttivo organizzativo e disciplinare di datore di lavoro – specialmente nei casi in cui, per le peculiarità della prestazione, tale elemento essenziale non sia immediatamente e direttamente apprezzabile (cfr., sull’argomento, per tutte, recentemente Cass. 19 aprile 2010 n. 9252).
Quanto ora rilevato sbilancia il quesito, nella sua seconda e terza articolazione (ma anche lo stesso motivo), rendendolo monco rispetto al complesso argomentativo della sentenza, che investe unicamente in una delle sue parti, isolata dal contesto in cui è inserita e quindi risulta in qualche modo non pertinente rispetto alla fattispecie in giudizio.
A ciò si aggiunga che l’ulteriore tema proposto con la prima parte del quesito – l’intensità del vincolo di subordinazione, in ipotesi, variabile in relazione alle particolarità della prestazione – è estraneo alle ragioni che radicano la decisione della Corte territoriale e non trova inoltre specifica illustrazione nello stesso motivo di ricorso.
Deriva da ciò l’inammissibilità del secondo motivo.
Quanto al primo, esso è infine manifestamente infondato.
La Corte territoriale ha infatti rilevato, alla stregua dell’esame delle risultanze istruttorie, come nonostante che i ricorrenti svolgano compiti analoghi a quelli svolti dai medici biologi dipendenti e siano destinatari di direttive tecniche e controlli relativamente al modus operandi alla stregua di protocolli comunicati dall’Ospedale, essi sono tuttavia estranei ad un qualsivoglia “assoggettamento gerarchico” e nel loro rapporto di collaborazione “difetta … un obbligo di presenza imposto dal datore di lavoro”, in quanto il loro inserimento nei turni avviene sulla base della loro disponibilità dichiarata (che può anche poi venir meno), potendo inoltre essi decidere di non lavorare, anche per più giorni.
A fronte di tale accertamento in fatto, i ricorrenti lamentano la mancata considerazione di una serie di circostanze di fatto, alcune delle quali sono state viceversa esplicitamente menzionate dalla Corte d’appello (come l’analogia di compiti rispetto ai medici dipendenti) mentre altre dovrebbero desumersi da documenti in atti e da deposizioni di alcuni testimoni, il cui contenuto peraltro non viene riprodotto in ricorso per consentire alla Corte di apprezzarne la rilevanza e decisività; e ciò in violazione della regola della necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione (su cui cfr., anche recentemente, Cass. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09), ora solennemente ribadito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.
In assenza di tali specificazioni, il motivo si risolve in una diversa opinione dei ricorrenti in ordine alla ricostruzione logico- giuridica della vicenda rappresentata in giudizio, come tale priva di supporti che attingono a specifici vizi motivazionali aventi carattere decisivo.
In base alle considerazioni svolte, il ricorso va respinto.
L’alternanza di decisioni nelle fasi di merito, consiglia la integrale compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese di questo giudizio.