In un caso di richiesta di risarcimento del danno avanzato nei confronti di una azienda sanitaria per una presunta ipotesi di responsabilità medica, l’ente, in via preliminare, deduceva la propria carenza di legittimazione a stare in giudizio in quanto i medici del Consultorio operavano in regime convenzionale autonomo ai sensi del DPR 500/1996, sicché doveva escludersi che l’ASL potesse rispondere della loro condotta.
Il tribunale, dopo aver ricostruito le caratteristiche del rapporto di lavoro convenzionato della specialistica ambulatoriale, ha osservato come non possa fondatamente sostenersi che il medico specialista operi in una posizione di totale autonomia, senza alcuna relazione tra l’azienda sanitaria ed il paziente; al contrario, deve concludersi che si tratta di un rapporto pienamente equiparabile a quello dei medici dipendenti, con la conseguenza che l’ASL è chiamata a rispondere della condotta dei medici operanti nelle sue strutture ai sensi dell’art. 1228 c.c., in virtù del contratto atipico di spedalità che si instaura con i pazienti, non diversamente dal caso del personale sanitario dipendente in senso stretto.
Tribunale di Novara – Sez. Civile; Sent. 984 del 22.10.2010
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con atto di citazione notificato in data 12.6.2008 i coniugi G.M.P. e I.R. convenivano in giudizio l’ASL NO e l’Azienda Ospedaliera Maggiore della Carità esponendo:
– che durante la gravidanza della sig. G.M.P. la stessa si era sottoposta a visite ostetriche presso il Consultorio di Vespolate dell’ASL NO e che aveva eseguito esami ecografici, tra cui l’ecografia morfologica, presso l’Azienda Ospedaliera Maggiore della Carità;
– che l’ecografia eseguita alla 37A settimana rivelava che il feto risultava affetto dalla patologia nota come mielomeningocele;
– che in data 18.5.1999 nasceva il piccolo C. , con taglio cesareo, e che sin dai primi giorni di vita la grave patologia da cui era affetto lo costringeva a continue cure e ad un difficile percorso riabilitativo, con pesanti conseguenze invalidanti;
– che al personale sanitario che aveva seguito la sig. G.M.P. durante la gravidanza erano imputabili imperizia e superficialità, consistenti nell’aver prescritto l’ecografia morfologica alla 19A settimana, epoca non ottimale per l’individuazione del mielomeningocele, e nel non aver controllato, in sede di esame, la misura del cervelletto e dei ventricoli nonché nel non aver eseguito lo studio della colonna vertebrale, elementi che avrebbero consentito con alta probabilità una tempestiva diagnosi della spina bifida;
– che la tardività della diagnosi aveva precluso alla sig. G.M.P. di esercitare l’interruzione volontaria della gravidanza ai sensi della legge n. 194/1978, con gravi conseguenze sia psicologiche che patrimoniali.
Per questi motivi gli attori chiedevano la condanna delle aziende sanitarie convenute al risarcimento dei danni subiti, indicati nella complessiva somma di euro 1.000.000.
Si costituivano in giudizio l’ASL NO e l’Azienda Ospedaliera Maggiore della Carità chiedendo preliminarmente la chiamata in causa delle compagnie assicuratrici rispettivamente Fondiaria SAI, Unipol, e Ina Assitalia da parte di ASL NO e Ina Assitalia, Assicurazioni Generali, Società Reale Mutua e Unipol da parte dell’Azienda Ospedaliera Maggiore della Carità, da cui chiedevano di essere in ogni caso manlevate.
Sempre in via preliminare, la ASL NO deduceva la propria carenza di legittimazione passiva in quanto i medici del Consultorio di Vespolate operavano in regime convenzionale autonomo ex DPR 500/1996, sicché doveva escludersi che l’ASL potesse rispondere della loro condotta.
Nel merito, le aziende sanitarie allegavano che nessuna negligenza o imperizia era imputabile al personale sanitario che aveva seguito la sig. G.M.P., in quanto era stato rispettato il protocollo di programmazione ecografica; contestavano inoltre la ricorrenza delle condizioni fissate dagli artt. 6 e 7 della legge 194/1978 per poter procedere all’interruzione della gravidanza. Chiedevano pertanto il rigetto della domanda.
Si costituivano in giudizio anche le terze chiamate; Ina Assitalia deduceva la propria carenza di legittimazione passiva per avere ceduto il proprio portafoglio assicurativo ad Assicurazioni Generali s.p.a.; quest’ultima, così come anche le coassicurazioni Fondiaria SAI e Unipol, eccepivano l’intervenuta prescrizione del diritto all’indennità assicurativa ai sensi dell’art. 2952 comma III c.c. nella formulazione pro tempore vigente. Società Reale Mutua non sollevava eccezioni di inoperatività della polizza e si associava alle difese di merito delle parti convenute.
Il Giudice Istruttore, con ordinanza riservata in data 11.5.2010, decideva di non dare corso ad attività istruttoria per essere la causa già matura per la decisione e all’udienza del 31.5.2010, sulle conclusioni sopra trascritte, tratteneva la causa a sentenza.
2. Deve preliminarmente esaminasi la questione dell’assenza di legittimazione passiva agitata dall’ASL NO.
L’eccezione è infondata. Innanzitutto, la sentenza della Cassazione Penale n. 36502/2008 richiamata dall’ASL NO in comparsa conclusionale non è in termini: infatti, il citato pronunciamento si riferisce al caso del medico generico convenzionato (ed. medico di base o di famiglia) rispetto al quale effettivamente può essere individuata una posizione di sostanziale autonomia su cui la ASL non ha possibilità di interferire, con la conseguenza che quest’ultima non può essere chiamata a rispondere dei danni cagionati dal medico nell’espletamento della sua attività (cfr. anche Cass. Penale Sez. IV n. 34460 del 16.4.2003).
Diverso invece il caso del regime convenzionale disciplinato dal DPR n. 500/1996: questa normativa, infatti, si riferisce al “rapporto di lavoro convenzionale autonomo, coordinato e continuativo instaurato nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale tra le Aziende e i medici specialisti, per la erogazione in forma diretta delle prestazioni specialistiche (…)” (cfr. art. 1 DPR 500/1996).
Dunque la stessa definizione sopra riportata chiarisce come si tratta di un rapporto di lavoro vero e proprio, coordinato e continuativo per l’erogazione di prestazioni specialistiche da parte del SSN, in cui all’autonomia professionale del medico si contrappone l’inserimento dello stesso nell’organizzazione e nelle strutture del SSN, cui consegue la sottoposizione dello specialista a tutta una serie di direttive e prescrizioni dettate dall’ASI in materia di osservanza dell’orario di lavoro, responsabilità disciplinare, rispetto di predeterminati protocolli di comportamento e dei criteri di organizzazione del lavoro (in ciò sta il “coordinamento”, cfr. art. 15 DPR intitolato “Doveri e compiti dello specialista”, nonché art. 16, rubricato “Organizzazione del lavoro”).
Così delineate le caratteristiche del rapporto di lavoro convenzionato disciplinato dal DPR n. 500/1996 non può fondatamente sostenersi che il medico specialista operi in una posizione di totale autonomia, senza alcuna relazione tra l’azienda sanitaria ed il paziente; al contrario, deve concludersi che si tratta di un rapporto pienamente equiparabile a quello dei medici dipendenti, con la conseguenza che l’ASL è chiamata a rispondere della condotta dei medici operanti nelle sue strutture ai sensi dell’art. 1228 c.c., in virtù del contratto atipico di spedalità che si instaura con i pazienti, non diversamente dal caso del personale sanitario dipendente in senso stretto.
Del resto, l’art. 1228 c.c. non richiede ai fini dell’estensione della responsabilità al soggetto contrattualmente obbligato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato in senso stretto, facendo invece riferimento al “debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi”.
3. Passando all’esame del merito, gli attori hanno agito per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla preclusione della facoltà di scegliere l’interruzione della gravidanza, preclusione determinata dalla mancata tempestiva diagnosi da parte del personale sanitario che aveva seguito la sig. G.M.P. nel corso della gestazione.
Nell’atto di citazione la difesa attorea fa generico riferimento alla legge 194/1978; nella prima memoria ex art. 183 comma VI c.p.c, tale riferimento viene specificato con richiamo all’art. 4 della legge citata.
Le richieste di parte attrice si fondano sulle conclusioni della relazione di parte prodotta come doc. 85 a firma dott. C.M.N., ed in particolare sulla considerazione che le linee guida della SIEOG attestano che un adeguato studio ecografico della colonna vertebrale permette di identificare la patologia in essere tra la 20 e 28 settimana di gestazione” e la riflessione finale del perito di parte per cui “Con ragionevole certezza possiamo ritenere che la mancata tempestiva diagnosi di mielomeningocele sia attribuibile alla superficialità nella programmazione dell’ecografia I morfologica fetale e nella imprudente esecuzione dell’esame medesimo”.
Dunque, secondo le allegazioni attoree, la patologia da cui il piccolo C. purtroppo è risultato affetto poteva essere diagnosticata con un apprezzabile probabilità di successo a partire dalla ventesima settimana, e l’errore dei sanitari sarebbe stato duplice: quello di aver prescritto l’ecografia morfologica alla 19A settimana piuttosto che alla 20A; e quello di aver eseguito tale importante ecografia con imperizia, omettendo di rilevare le misurazioni di cervelletto e ventricoli, e di adeguatamente analizzare la colonna vertebrale.
La mancata, adeguata informazione della donna viene quindi riferita temporalmente al secondo trimestre di gravidanza, epoca in cui il mielomeningocele può essere diagnosticato.
Tale osservazione conduce quindi a ritenere che il diritto a scegliere l’interruzione della gravidanza, di cui gli attori lamentano la vanificazione per intempestività della diagnosi, avrebbe potuto semmai essere esercitato dopo i primi novanta giorni, con conseguente inquadramento della fattispecie in esame nell’ambito di applicazione dell’art. 6 della legge 194/21978.
Come è noto, tale norma consente l’interruzione della gravidanza dopo i primi 90 giorni di gravidanza al ricorrere di precise condizioni: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna ovvero b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna; inoltre c), quando sussiste possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.
A prescindere dal mancato, specifico richiamo di parte attrice all’art. 6 (si è detto di come sia stato fatto esplicito richiamo all’art. 4 della legge 194/1978), deve in ogni caso rilevarsi, negli scritti attorei, la carenza di puntuali allegazioni sia sotto il profilo della “possibilità di vita autonoma del feto” sia in relazione al “grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” quali condizioni che avrebbero potuto legittimare la scelta ai sensi della legge 194.
È stato di recente affermato nella giurisprudenza di legittimità che “Il sanitario curante che accerti l’esistenza, a carico della gestante, di una patologia tale da poter determinare l’insorgenza di gravi malformazioni a carico del nascituro, è tenuto ad informare la donna di tale situazione e della possibilità di svolgere indagini prenatali, benché rischiose per la sopravvivenza del feto, onde consentire l’esercizio della facoltà di procedere all’interruzione della gravidanza; ove, peraltro, siano decorsi più di novanta giorni dall’inizio della gravidanza, per ottenere il risarcimento del danno conseguente alla violazione di tale diritto, la donna è tenuta a dimostrare – con riguardo alla sua concreta situazione e secondo la regola causale del “più probabile che non” – che l’accertamento dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica” (Cass. Sez. III n. 2354 del 02/02/2010).
L’arresto merita piena adesione ove si rifletta sulla constatazione che la legge ha voluto, per l’ipotesi di interruzione della gravidanza dopo i primi 90 giorni, condizionare la possibilità di scelta della donna alla ricorrenza di determinati presupposti.
Dopo i primi 90 giorni, dunque, la scelta abortiva non è libera ed incondizionata, ma circoscritta e delimitata da taluni requisiti legislativamente fissati.
Incombe quindi su chi agisce allegare e dimostrare la sussistenza nel caso di specie di quelle condizioni che avrebbero fatto sorgere quella facoltà di scelta di cui si lamenta la compromissione.
Nel presente giudizio, gli attori hanno allegato il verificarsi, successivamente alla diagnosi nefasta ed alla nascita di C., di “gravissime conseguenze sia psicologiche che patrimoniali, ed un “fortissimo perturbamento psicofisico dei genitori (pag. 6 atto di citazione), conseguenze assolutamente comprensibili e che incontrano vicinanza morale e solidarietà umana da parte di questo Giudice, ma che tuttavia non possono ritenersi allegazioni sufficienti ai fini della normativa di cui si sta facendo applicazione.
Come insegna la Suprema Corte, per stabilire se i danni richiesti sono conseguenza dell’inadempimento all’obbligo della completa informazione da parte del sanitario, è necessario che il giudice di merito accerti, ex ante, se la conoscibilità delle rilevanti anomalie e malformazioni del feto – secondo la diagnostica a disposizione all’epoca in relazione alla possibilità di riscontrarle – avrebbe determinato, con un giudizio di prognosi postuma, un grave pericolo della lesione del diritto alla salute della madre, avuto riguardo alle condizioni fisopsichiche patologiche della stessa e secondo la scienza medica di allora in base alla regola causale del “più probabile che non”, così da determinare i presupposti per attuare la tutela di tale interesse – ritenuto prevalente su quello alla nascita del concepito gravemente malformato, purché non giunto ad uno stadio di formazione e di maturità che ne rende possibile la sua vita autonoma (cfr. Cass. Sez. III n. 2354/2010).
Gli attori, come si è detto, non hanno fatto alcuna allegazione sul requisito della “possibilità di vita autonoma del feto”, che è stato del tutto omesso nella trattazione oltre che nelle offerte di prova.
Tale carenza assume particolare rilievo ove si consideri che la stessa relazione di parte, come si è visto, fissa nel lasso temporale compreso tra la 20A e la 28A il periodo più favorevole per una diagnosi precoce della spina bifida, e che secondo i dati scientifici più attuali la possibilità di vita autonoma del feto si colloca tra la 22A e la 23A settimana di gestazione: era quindi essenziale ai fini di un possibile accoglimento della domanda che gli attori indicassero il grado di probabilità di diagnosi precoce prima della 22A settimana, quando, per la possibilità di vita autonoma del feto, il diritto all’interruzione della gravidanza si restringe ulteriormente, potendo essere esercitato solo in caso di grave pericolo per la vita della donna.
In ogni caso, anche ove fosse stata esclusa la cd. “vitalità fetale” nel periodo in cui una diagnosi precoce era possibile con un adeguato coefficiente di probabilità, si deve ribadire come parte attrice non abbia adeguatamente sviluppato nemmeno le condizioni per effettuare l’interruzione della gravidanza nel caso di cui alla lettera b), ovvero quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Nessun riferimento, infatti, si legge nelle difese attoree a quel grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna che avrebbe legittimato l’interruzione della gravidanza, sicché le prove testimoniali richieste, volte a dimostrare lo stato di depressione della sig. G.M.P., oltre che inammissibili in quanto riferite a fatti non prospettati nell’atto di citazione e nella prima memoria ex art. 183 comma VI c.p.c. in cui non era stata dedotta la sussistenza di una vera e propria patologia psichiatrica nella sig. G.M.P., devono giudicarsi altresì irrilevanti nella misura in cui si riferiscono a conseguenze postume e non consentono quindi al Giudicante di effettuare quel giudizio ex ante di prognosi postuma a cui prima si è fatto cenno, infine, in un quadro di allegazioni deficitarie come quello appena descritto, la CTU richiesta, finalizzata ad individuare l’errore medico e la sussistenza di un grave pericolo per la salute psichica della madre, non può che giudicarsi insanabilmente esplorativa.
Per questi motivi la domanda deve essere rigettata.
4. Venendo alla regolazione delle spese di lite, deve considerarsi che il rigetto della domanda è stato determinato, in sintesi, dalla mancata dimostrazione da parte degli attori di essersi trovati nelle condizioni previste dalla legge per effettuare l’interruzione della gravidanza oltre i primi 90 giorni.
La decisione, pertanto, è stata adottata senza scendere all’esame della fondatezza dell’errore diagnostico lamentato, trattandosi di un posterius logico rispetto all’esame delle condizioni legittimanti ex art. 6 legge 194/1978.
Sebbene non sia stata svolta CTU medico legale per evidenti ragioni di economia processuale, è incontroverso che la malformazione fetale sia stata rilevata solo alla 37A settimana di gestazione, a pochi giorni dal parto così come appare un dato oggettivo documentale che nel corso dell’ecografia morfologica non vennero precisate le misure del cervelletto e dei ventricoli; le aziende convenute, inoltre, non hanno contestato che nel referto ecografico manchino immagini attestanti l’avvenuto studio della colonna vertebrale del feto con scansioni trasversali e sagittali, così come risulta non contestato che il mielomeningocele potesse essere diagnosticato con elevato grado di probabilità (88%) nel periodo compreso tra la 20A e la 28A settimana di gestazione.
Tali considerazioni inducono a ritenere che l’iniziativa giudiziaria degli attori sia giustificata da adeguato fumus dell’errore professionale, e quindi non del tutto arbitraria.
Per questa ragione, ed altresì in considerazione della delicatezza degli interessi coinvolti, sussistono giusti motivi per una integrale compensazione delle spese di lite tra gli attori e le parti convenute.
Quanto alle spese di lite tra parti convenute e terze chiamate, occorre valutare in termini “virtuali”, ai soli fini della regolazione delle spese, le eccezioni sollevate dalle compagnie di assicurazioni finalizzate a paralizzare la domanda di manleva proposta dalle aziende convenute. Cominciando con l’eccezione di prescrizione, ritiene questo Giudice che la stessa sia infondata, in quanto la denunzia di sinistro di cui al doc. 86 di parte attrice contiene una generica richiesta di risarcimento, carente dell’indicazione di elementi necessari ad attivare la garanzia assicurativa, come ad esempio la specificazione del quantum e delle ragioni fondanti la richiesta risarcitoria (non viene nemmeno fatta menzione della preclusa possibilità di scegliere l’interruzione della gravidanza, né si distingue la posizione dell’ASL NO da quella dell’Azienda Ospedaliera Maggiore della Carità).
Deve in proposito ricordarsi che la Corte di Cassazione ha statuito che “In tema di assicurazione contro i danni, la prescrizione annuale – prevista dall’art. 2952, comma secondo, cod. civ. – del diritto dell’assicurato all’indennizzo decorre dalla data in cui il diritto medesimo può essere esercitato e cioè dal momento del verificarsi del fatto cui esso si ricollega, occorrendo al riguardo, ai fini della idonea interruzione del termine, che venga formulata una richiesta del danneggiato all’assicuratore con un contenuto unitario, non garantendo la scissione dell'”an” dal “quantum” una effettiva tutela dei diritti dello stesso assicurato.” (cfr. Cass. Sez. III n. 24733 del 28/11/2007).
Il termine iniziale di decorrenza della prescrizione deve quindi individuarsi nella notifica dell’atto di citazione.
Quanto all’eccezione di carenza di legittimazione passiva di Ina Assitalia, deve condividersi la tesi delle aziende convenute per cui la cessione di ramo d’azienda da Ina Assitalia ad Assicurazioni Generali non può riguardare le polizze azionate nel presente giudizio, in quanto tutte già scadute all’epoca della cessione aziendale (6.12.2006).
In particolare, la polizza prodotta da ASL NO è la n. 704229889-12 con decorrenza dal 31.12.1996 al 31.12.1999; le polizze prodotte dall’Azienda Ospedaliera sono le seguenti: n. 368715 con validità dal 30.6.98 al 30.11.98; n. 372867 con validità dal 30.11.98 al 28.2.1999; n. 376200 con validità dal 28.2.1999 al 10.7.2000 giusta disdetta preventiva da parte della compagnia di assicurazione, cfr. doc. 4 Azienda Ospedaliera; n. 327000 con validità decennale dal 1.1.1991 al 1.1.2001.
Ora, secondo i principi generali in materia di cessione d’azienda, il subentro del cessionario nei contratti stipulati dal cedente non può che riferirsi ai contratti in corso all’epoca dell’alienazione (art. 2258 c.c).
Trattandosi di polizze già scadute, le stesse devono ritenersi escluse dagli effetti della cessione del ramo d’azienda, con conseguente giudizio di infondatezza dell’eccezione di carenza di legittimazione passiva di Ina Assitalia.
Infine, Generali Assicurazioni, Ina Assitalia e Società Reale Mutua hanno sollevato per la prima volta in comparsa conclusionale alcune questioni di inoperatività della polizza.
Secondo Assicurazioni Generali (conclusionale Avv. Stratta) il danno lamentato dagli attori non rientrerebbe nel rischio assicurato.
La tesi della terza chiamata non è condivisibile in quanto la semplice lettura delle condizioni di assicurazione riportate a pag. 8 della comparsa conclusionale porta ad affermare la piena copertura assicurativa, in considerazione dell’ampia formula contrattuale per cui “La società si obbliga a tenere indenne l’assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare quale civilmente responsabile ai sensi di legge a titolo di risarcimento (capitale, interesse e spese) dei danni involontariamente causati a terzi’; il fatto che nella clausola contrattuale non sia fatta esplicita menzione dei danni derivanti da diagnosi intempestiva non vuol dire evidentemente che tale ipotesi non debba ritenersi ricompresa nel rischio assicurato.
Al contrario, il tenore della formula sopra riportata induce certamente a comprendere nel rischio assicurato anche i danni di cui gli attori hanno chiesto il risarcimento.
Reale Mutua Assicurazioni, Ina Assitalia ed Assicurazioni Generali hanno invece dedotto (conclusionali Avv. Allegra) l’inoperatività della polizza stipulata con l’Azienda Ospedaliera sotto il profilo temporale, evidenziando come la polizza n. 56/60/368715 ha validità dal 30.6.1998 al 30.11.1998 e che la polizza n. 327000 risulta sottoscritta con la vecchia USL.
L’eccezione è infondata. Infatti, l’Azienda Ospedaliera ha prodotto sub doc. 2 anche le polizze n. 372867 e 376200 dalla stessa sottoscritte aventi scadenza rispettivamente in data 28.2.1999 e 10.7.2000 senza soluzione di continuità; in tali polizze sia la Società Reale Mutua che Ina Assitalia figurano come coassicuratrici; nella prima figura come coassicuratrice anche la Generali.
Ebbene l’errore diagnostico lamentato dagli attori si riferisce all’epoca dell’ecografia morfologica, eseguita in data 14.1.1999, sicché deve concludersi per la copertura assicurativa sotto il profilo temporale.
Al termine della disamina delle eccezioni di inoperatività delle polizze dedotte in giudizio dalle convenute deve concludersi che la chiamata in cause delle compagnie di assicurazione è risultata giustificata dalla presenza di adeguata copertura assicurativa in relazione ai danni lamentati dagli attori.
Per questi motivi, non essendo stati rilevati profili di inoperatività delle polizze azionate, le spese resteranno compensate anche tra parti convenute e parti terze chiamate.
P.Q.M.
Il Tribunale di Novara in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, rigetta la domanda; compensa integralmente tra tutte le parti le spese di lite.
Così deciso in Novara, il 22 ottobre 2010.