Al medico non e’ possibile riconoscere un diritto generale a curare. E’ quanto afferma a chiare note la Corte di Cassazione spiegando che se si prescindesse da questa considerazione “non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato, che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria coscienza”.
Al medico va solo riconosciuta “la facoltà o la potestà di curare, situazioni soggettive, queste, derivanti dall’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano, di regola, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sottoporsi”. Il caso esaminato dalla Corte (sentenza 45126/2008) riguarda un chirurgo condannato per lesioni personali colpose procurate ad un paziente ricoverato per una lombalgia. Il paziente, rileva la Corte aveva dato il ‘consenso informato’ all’intervento chirugico ma non vi era traccia nel consenso di una accettazione di eventuali rischi operatori. Dopo l’intervento al paziente sono residuati postumi invalidanti e il caso è finito in Tribunale. Condannato per lesioni colpose dalla Corte d’Appello il medico si e’ inutilmente rivolto alla Cassazione sostenendo che il paziente, “se debitamente e completamente informato, avrebbe scelto di rivolgersi ad un altro specialista, optando per un diverso metodo operatorio”. Piazza Cavour respingendo il ricorso ha ricordato che “il consenso informato ha come contenuto concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale” per questo “la mancanza del consenso del paziente o l’invalidità del consenso determinano l’arbitrarietà del trattamento medico chirurgico e , quindi, la sua rilevanza penale, in quanto compiuto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo”.
Secondo gli Ermellini è del tutto fuori luogo ipotizzare quale potrebbe essere stato il comportamento del paziente se avesse conosciuto i rischi dell’intervento, “atteso che gli è stata negata la possibilità di optare per una scelta diversa e, in concreto, quella adottata dal medico, in assenza di un consenso informato valido, gli ha procurato i postumi invalidanti”.