Un medico cardiologo di turno presso il reparto di cardiologia di una struttura ospedaliera è stato condannato a sei mesi di reclusione per il reato di rifiuto di atti d’ufficio per aver omesso di effettuare una consulenza su un paziente ricoverato in altro reparto. La decisione è stata sottoposta dall’imputata al vaglio della Corte di Cassazione.
Cassazione Penale – Sez. VI; Sent. N. 39745 del 08.10.2012
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza in data 5/4/2011 la Corte di Appello di X. confermava la decisione in data 3/12/2009, appellata dall’imputata, con la quale il G.I.P. in sede, a seguito di giudizio abbreviato, aveva condannato L.P.L. alla pena sospesa di mesi sei di reclusione, siccome ritenuta colpevole del reato di rifiuto di atti di ufficio ex art. 328 c.p., comma 1 – perchè quale medico di turno nel reparto cardiologia dell’Ospedale Civile di X. si era rifiutata di effettuare ingiustificatamente una consulenza cardiologia urgente sul paziente V.A., ricoverato nel reparto di chirurgia maxillo facciale della medesima struttura”.
Contro tale decisione ricorre l’imputata a mezzo del suo difensore, che a sostegno della richiesta di annullamento articola tre motivi.
Con il primo motivo eccepisce la nullità del decreto di citazione per il giudizio di appello, la cui notifica, era avvenuta ai sensi dell’art. 161 c.p.p., comma 4, presso il difensore di fiducia avv. Fausto Maria Amato, dopo che era fallita la notifica disposta presso il reparto di cardiologia dell’Ospedale di X., nonostante che la ricorrente in data 14/6/2006 avesse eletto domicilio presso lo studio del difensore di fiducia dell’epoca avv. Vincenzo Lo Re, revocando la precedente dichiarazione presso l’Ospedale Civico, riguardante peraltro il diverso procedimento penale per omicidio colposo, del quale il presente costituiva uno stralcio.
Con il secondo motivo denuncia la violazione della legge penale e processuale e il vizio di motivazione in riferimento: 1) alla sussistenza degli elementi costituivi del reato, sostenendo che la ricostruzione della condotta dell’imputata, operata dai giudici del merito non corrispondeva alla realtà, essendo state inspiegabilmente disattese le giustificazioni rese dall’imputata, la quale non ritenne di aderire all’invito di recarsi a visitare il paziente, dal momento che le condizioni di salute a lei riferite per telefono dalla collega B., medico rianimatore,non rendevano necessaria a suo giudizio la consulenza cardiologia, tenuto conto che le erano stati prospettati un semplice calo pressorio e dati anamnestici e clinici incompleti e non significativi della necessità di un intervento urgente; 2) allo scarso rigore con cui erano state valutate le testimonianze assunte ed in particolare, quella della B., le cui dichiarazioni, rese quale persona anch’essa coinvolta nel procedimento, poi archiviato, teso a verificare se il successivo decesso del V. fosse dovuto a colpa professionale, provenendo da soggetto indagato per reato collegato necessitavano di riscontri e dovevano essere valutate con estremo rigore, 3) alla sussistenza di un obbligo giuridico, gravante sull’imputata di effettuare la consulenza specialistica, richiesta da altro sanitario e della fonte normativa, dal quale esso scaturiva.
Con il terzo motivo lamenta la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche, che il giudice del gravame aveva negato senza indicare la ragione, e limitandosi a richiamare semplicemente la gravità del fatto e il contegno dell’imputata.
Il ricorso non ha fondamento e va rigettato.
Non coglie nel segno la censura di cui al primo motivo, che pone in discussione il principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte a mente della quale la notificazione del decreto di citazione in giudizio con consegna di copia al difensore di fiducia ex art. 161 c.p.p., comma 4, invece che presso il domicilio eletto o dichiarato, da luogo ad una nullità a regime intermedio, che deve ritenersi sanata, quando risulti provato che non ha impedito all’imputato di conoscere l’esistenza dell’atto, ed è comunque priva di effetti, se non dedotta tempestivamente, essendo soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184, comma 1, alle sanzioni generali di cui all’art. 183, alle regole di deducibilità di cui all’art. 182, oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 c.p.p..
Nel caso in esame all’udienza dibattimentale del giudizio di appello era presente il difensore di fiducia, che nulla ha eccepito al riguardo.
Infondate sono le censure in diritto formulate con il secondo motivo.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che il reato di rifiuto di atti di ufficio è un reato di pericolo, onde la violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice al corretto svolgimento della funzione pubblica ricorre ogniqualvolta venga denegato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze prese in considerazione e protette dall’ordinamento, prescindendosi dal concreto esito della omissione (ex plurimis Cass. Sez. 6^ 23/3- 18/4/1997 n. 3599 Rv. 207545).
Quanto all’elemento oggettivo, è stato affermato che il rifiuto si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assuma la valenza di rifiuto dell’atto medesimo, tanto che esso non è integrato solo nell’ipotesi, in cui l’atto, pur rispondendo alle ragioni indicate dalla norma incriminatrice, non riveste carattere di indifferibilità e doverosità (Cass. Sez. 6^ 13/3-22/5/200 6 n. 17570 Rv.2338 58; 11/2-5/5/1999 n.55 96 Rv. 213899).
Quanto all’elemento soggettivo, va osservato che il rifiuto di atti professionali, dovuti – come nel caso in esame – per ragioni sanitarie, deve essere verificato, avendo riguardo alla sua natura di delitto doloso, ossia alla consapevolezza del contegno omissivo, senza tracimare in violazioni sulla colpa professionale sanitaria, che esula dalla struttura psicologica del reato Cass. Sez. 6^ 6/12/95- 9/2/96 n. 1602 Rv. 204468).
Orbene nella fattispecie in esame i giudici del gravame in sintonia con gli enunciati principi hanno correttamente esaminato e valutato le emergenze processuali alla stregua dei rilievi e delle censure formulate nell’atto di appello e sono pervenuti alla conferma del giudizio di colpevolezza con puntuale e adeguato apparato argomentativo, ritenendo anzitutto estraneo al giudizio sulla condotta dell’imputata la circostanza che il paziente fosse poi deceduto in circostanze diverse da quelle per le quali era stato richiesto l’intervento specialistico dell’imputata, e valorizzando poi la cartella clinica redatta dal dott. R., la relazione di servizio della dott. F., e le concordi deposizioni del dott. F. e della dott.ssa B., che dimostravano in maniera inconfutabile che la dott.ssa L.P., pur essendo stata più volte sollecitata a visitare il paziente V.A., e anche dopo essere stata informata dal dott. F. dell’aggravarsi delle condizioni cliniche del paziente, che rendevano ancora più urgente il suo intervento, è continuò a rifiutarsi di espletare quanto le veniva richiesto. Nè a scagionare l’imputata può valere l’argomento difensivo della discrezionalità della consulenza cardiologica, dal momento che la relativa richiesta le pervenne per via telefonica e l’unico modo per decidere sulla convenienza di essa era la visita diretta del paziente. Le altre censure, nonchè la censura di cui al terzo motivo mirano solo a sollecitare un nuovo e diverso apprezzamento di merito in ordine alla credibilità dei testi escussi e al diniego della attenuanti generiche, cha la corte territoriale ha ampiamente giustificato con argomenti immuni da vizi logici o interne contraddizioni e come tali non censurabili in sede di scrutinio di legittimità.
Segue al rigetto del ricorso la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.