La Corte d’Appello, in riforma della precedente pronuncia di condanna, aveva assolto gli imputati dai delitti ascritti per aver concorso tra loro procurando intenzionalmente ad una candidata un ingiusto vantaggio consistente nel superamento al primo posto in graduatoria del concorso per l’ammissione al corso di laurea specialistica in scienze delle professioni sanitarie tecniche diagnostiche, arrecando un danno ingiusto agli altri concorrenti non vincitori.
Cassazione Penale – Sez. VI; Sent. n. 34086 del 06.08.2013
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Torino, in riforma della pronuncia di condanna di primo grado del 20.01.2010 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città, assolveva B.M. e Bi.Si.Di. dal delitto ascritto di cui agli artt. 110 e 323 cod. pen., per avere, in concorso tra loro, in X. , intenzionalmente procurato ad D.A. un ingiusto vantaggio patrimoniale, consistente nel superamento al primo posto in graduatoria del concorso per l’ammissione al corso di laurea specialistica in scienze delle professioni sanitarie tecniche diagnostiche, e arrecando altresì un danno ingiusto agli altri candidati non vincitori; in particolare il B., nella sua qualità di collaboratore sanitario esperto e coordinatore del corso di laurea in tecniche di radiologia medica, avendo ricevuto dal Bi., professore ordinario di radiologia presso la facoltà di medicina di X. e membro della commissione esaminatrice nel suddetto concorso, l’incarico di predisporre le domande di radiologia, effettuate sotto forma di quiz, aveva omesso di astenersi nonostante la partecipazione al concorso della di lui convivente D.; il Bi., nelle vesti innanzi indicate, aveva incaricato il B. della predisposizione di quelle domande, nonostante fosse a conoscenza della relazione di convivenza tra il B. e la D. e della partecipazione di quest’ultima al predetto concorso, così entrambi violando il principio di imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost..
Rilevava la Corte di appello come le emergenze processuali avessero dimostrato l’assenza degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice contestata, essendo risultato che il B. non era un pubblico ufficiale nè un incaricato di pubblico servizio, in quanto non faceva parte della menzionata commissione esaminatrice, nè era dipendente dell’università, bensì della collegata azienda ospedaliera, e, come tale, mero coadiutore “di fatto” del Bi.;
che, in relazione alla posizione del Bi., unico intraneus del reato proprio addebitato, le carte del processo non fossero idonee a provare che avesse agito intenzionalmente allo scopo di procurare alla D. un ingiusto vantaggio patrimoniale; che, in ogni caso, quest’ultima non aveva conseguito propriamente un vantaggio patrimoniale, essendo stata solo ammessa ad un corso di laurea e che il danno ingiusto cagionato agli altri partecipanti al concorso era stata più la conseguenza di un condotta “imprudente”, che il fine della iniziativa del Bi.; che il Bi. non aveva alcun obbligo di astensione, nè poteva ritenersi configurabile il reato de quo sulla base di una mera presunta violazione del principio di imparzialità sancito dall’art. 97 Cost..
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Procuratore generale presso la Corte di appello di Torino il quale, formalmente con un unico motivo, ha dedotto la violazione di legge, in relazione all’art. 323 cod. pen., denunciando l’erronea applicazione di quella norma incriminatrice con riferimento a ciascuno degli argomenti valorizzati dal Giudice di secondo grado, aspetti con riferimento ai quali l’impugnante ha implicitamente lamentato una “sbrigatività”, dunque un vizio, della motivazione del provvedimento gravato.
3. Con memoria depositata il 12/06/2013 l’avv. X. X. , difensore di B.M., ha chiesto dichiararsi la inammissibilità del ricorso per la mancata indicazione degli elementi di fatto o di diritto dell’impugnazione; per la manifesta infondatezza del motivo, con specifico riferimento alla mancanza di un ingiusto vantaggio o danno, alla irrilevanza della violazione dell’art. 97 Cost. ed all’assenza della qualità di pubblico ufficiale nell’agente; ha domandato, comunque, il rigetto del ricorso medesimo.
4. Ritiene la Corte che il ricorso sia fondato.
4.1. Del tutto erronea appare la scelta della Corte territoriale di negare che l’imputato B. avesse rivestito, in relazione all’attività oggetto di addebito, la qualifica di incaricato di pubblico servizio e, dunque, di escludere che quello contestato, in quanto reato proprio, potesse essere stato commesso direttamente dal prevenuto, anche in concorso con il coimputato Bi..
Sotto un primo punto di vista sarebbe sufficiente rilevare che il B., con la qualifica e le mansioni di collaboratore sanitario esperto, era dipendente di ruolo dell’azienda ospedaliera X. il cui personale cooperava e collaborava con quelle della collegata facoltà universitaria di medicina e chirurgia di X. : nè va sottaciuto, ad ulteriore conferma di una connessione tra le attività dei due anzidetti enti pubblici, che la Corte di merito sembra aver trascurato (pur dopo averla implicitamente richiamata a pag. 1 della sentenza gravata), che il B. rivestiva anche la qualifica di coordinatore del corso di laurea in tecniche di radiologia medica, dunque aveva un incarico che parrebbe direttamente riferibile all’organizzazione e alle funzioni pubbliche dell’università.
Seguendo una diversa e complementare impostazione, la sentenza gravata non risulta aver fatto buon governo del consolidato principio di diritto enunciato da questa Corte, per il quale, in tema di reati contro la pubblica amministrazione, la qualifica di incaricato di pubblico servizio va riconosciuta a colui che, di fatto, svolgendo attività diverse da quelle inerenti alle mansioni istituzionalmente affidategli, sia effettivamente investito di una pubblica funzione, purchè a tale esercizio di funzioni pubbliche si accompagni, quanto meno, l’acquiescenza o la tolleranza o il consenso, anche tacito, della pubblica amministrazione (così, tra le altre, Sez. 6, n. 2745/09 del 09/12/2008, P.G. in proc. De Riso, Rv. 242423).
In tale ottica rappresenta una palese violazione di legge l’aver sostenuto che il B. non fosse un incaricato di pubblico servizio in quanto non era un componente della commissione esaminatrice del concorso in esame, bensì un mero coadiutore del Bi., che di quella commissione era un membro: ed infatti, l’essere stato incaricato dal Bi. – peraltro, come risulterebbe pacifico dalla motivazione della sentenza impugnata, sulla base di una consolidata e diffusamente accettata prassi riguardante tutti i concorsi per l’ammissione ai corsi di laurea – di predisporre le domande che sarebbero state inserite nell’elenco dei quiz da sottoporre ai candidati all’ammissione al corso di laurea specialistica in argomento, comportò per il B. l’investitura per il compimento di un’attività preparatoria di carattere intellettivo funzionale ad uno specifico interesse pubblico in quanto diretta obiettivamente a concorrere, nel contesto di una più ampia attività disciplinata da norme di diritto pubblico, alla realizzazione delle finalità pubblicistiche dell’ente di riferimento.
4.2. Alla luce delle considerazioni esposte nel precedente paragrafo, appare gravemente viziata da una ulteriore applicazione erronea della norma di diritto penale oggetto di addebito, l’affermazione, pure contenuta nella motivazione della sentenza gravata, che nei confronti del B. non potesse essere mosso alcun giudizio di rimprovero dato che lo stesso non aveva la qualifica soggettiva richiesta dalla disposizione incriminatrice; e che il B. avesse astrattamente solo concorso nel reato proprio del Bi. e che, perciò, era all’atteggiamento psicologico di quest’ultimo che si dovesse far riferimento per verificare la sussistenza dei richiesti elementi oggettivo e soggettivo del reato ascritto ai due prevenuti.
L’imputazione contestata correttamente ipotizza un concorso dei due imputati, entrambi come soggetti qualificati, nella commissione del delitto di abuso di ufficio mediante la realizzazione di condotte diverse ma tra loro complementari: di talchè è censurabile l’apparato argomentativo della sentenza de qua nella parte in cui concentra l’attenzione sulla posizione del solo imputato Bi.
allo scopo di verificare l’esistenza di un accordo collusivo. Senza dire che appare il frutto di una incongrua ricostruzione della vicenda fattuale, l’aver sostenuto che il Bi. versasse, all’epoca, in precarie condizioni di salute e che, perciò, non si fosse preoccupato di affidare ad altri e non anche al B. l’incarico di predisporre le domande che sarebbero state poi sottoposte ai partecipanti al concorso; l’aver asserito che il Bi. non avesse avuto alcuna certezza della partecipazione della D. al concorso, dato che il B. gli aveva parlato di una generica possibilità che la convivente vi prendesse parte; ed ancora, l’aver trascurato tanto che la sussistenza di quella preventiva intesa illecita era stata denunciata dalla teste T., la quale aveva ricevuto le confidenze della D., quanto che una conferma logica indiretta della sussistenza del concorso di persone e dell’elemento psicologico del reato in capo ad entrambi gli imputati ben si sarebbe potuto ricavare dalla circostanza che il Bi. nulla aveva fatto quando aveva appreso che la D., convivente del suo “collaboratore” B., stava partecipando al concorso e che la stessa lo aveva vinto, arrivando prima, con una singolare capacità di rispondere esattamente a tutte le domande del quiz sottoposto ai candidati all’ammissione.
4.3. Meritevole di positiva considerazione è, altresì, la doglianza del P.G. ricorrente in ordine alle finalità che avevano animato le iniziative degli odierni due imputati.
Sul punto va osservato che se parrebbe corretta la esclusione del requisito dell’ingiusto vantaggio patrimoniale (dato che questa Corte ha escluso la ricorrenza dell’abuso di ufficio laddove non sia riconoscibile un effettivo e concreto incremento economico del patrimonio del beneficiato quale conseguenza diretta della condotta abusiva: così, con riferimento ad un caso analogo a quello di questo processo, Sez. 6, n. 24663 del 05/02/2008, P.M. in proc. Ceglie e altro, Rv. 240522), appare espressione di una ulteriore violazione di legge l’avere escluso, nel caso di specie, il carattere della patrimonialità del vantaggio conseguito dalla D. per effetto della ammissione ad un corso universitario “a numero chiuso”, alla cui conclusione ella avrebbe ragionevolmente subito ottenuto un posto di lavoro corrispondente alla qualifica acquisita; nonchè l’aver sminuito la presenza del contestato evento del danno ingiusto cagionato agli altri candidati non vincitori di quel concorso, non potendosi escludere che, sulla base degli elementi di prova sintomatici offerti dalle carte del processo, ben si sarebbe potuto configurare un dolo intenzionale teso a danneggiare i concorrenti della D., concorrente con quello finalizzato a favorire la prevenuta.
4.4. Frutto di un’erronea interpretazione dell’art. 323 cod. pen. è, da ultimo, l’affermazione contenuta nella motivazione della sentenza gravata in ordine ad un’asserita impossibilità che la fattispecie delittuosa de qua possa essere integrata anche da una violazione del precetto dell’art. 97 della Carta Fondamentale.
E’ vero che, per effetto delle modifiche introdotte dalla L. 16 luglio 1997, n. 234, art. 1, la disposizione de qua è stata formulata in termini di maggiore tassatività, sì da limitare i rischi di letture esegetiche arbitrarie. Ma è anche vero che, per un verso, il legislatore della novella non ha inteso limitare la portata applicativa dell’art. 323 c.p. ai casi di violazione di legge in senso stretto, avendo voluto far rientrare anche le altre situazioni che integrano un vizio dell’atto amministrativo: dunque, anche le ipotesi di eccesso di potere, configurabili laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere, riconoscibili se il potere pubblico è stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione (in questo senso Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi, Rv. 251498). E che, per altro verso, il legislatore della riforma ha voluto, comunque, garantire un’adeguata tutela dell’interesse giuridico protetto in relazione a tutte quelle condotte che si pongono in contrasto con disposizioni di legge o di regolamento a contenuto precettivo, con esclusione, perciò, delle sole disposizioni che si limitano ad enunciare principi o valori.
In tale ottica, secondo l’orientamento oramai maggioritario di questa Corte il requisito della violazione di norme di legge ben può essere integrato anche solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione, per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione. Anche nell’art. 97 Cost., “che pur detta principi di natura programmatica, è individuabile un residuale significato precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa e, quindi, un parametro di riferimento per il reato di abuso d’ufficio. L’imparzialità a cui fa riferimento l’art. 97 Cost. consiste, infatti, nel divieto di favoritismi, nell’obbligo cioè per la Pubblica Amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelati alla stessa maniera, conformando logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizioni soggettive. In sostanza, il principio d’imparzialità, se riferito all’aspetto organizzativo della Pubblica Amministrazione, ha certamente una portata programmatica e non rileva ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, in quanto detto principio generale deve necessariamente essere mediato dalla legge di attuazione; lo stesso principio, invece, se riferito | all’attività concreta della Pubblica Amministrazione, che ha l’obbligo di non porre in essere favoritismi e di non privilegiare situazioni personali che confliggono con l’interesse generale della collettività, assume i caratteri e i contenuti precettivi richiestidall’art. 323 c.p., in quanto impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione” (così, tra le molte, Sez. 6, n. 25180 del 12/06/2012, D’Emma, Rv. 253118; Sez. 6, n. 27453 del 17/02/2011, Acquistucci, Rv. 250422; Sez. 2, n. 35048 de. 10/06/2008, Masucci, Rv. 243183; Sez. 6, n. 25162 del 12/2/2008, Sassara, Rv.
239892).
5 All’accoglimento del ricorso consegue la declaratoria di annullamento della nel nuovo giudizio, si uniformerà ai principi di diritto innanzi esposti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza Corte di appello di Torino.
Così deciso in Roma, il 26 giugno 2013.
Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2013