L’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice di merito può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza d’un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente. Non in modo automatico, però: affinchè quella incompletezza rilevi ai fini del decidere, è necessario che:
(a) l’esistenza del nesso di causa tra condotta del medico e danno del paziente non possa essere accertata proprio a causa della incompletezza della cartella;
(b) il medico abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno (così la sentenza capostipite, ovvero Sez. 3, Sentenza n. 12103 del 13/09/2000, Rv. 540146; in seguito, nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 10060 del 27/04/2010, Rv. 612606; Sez. 3, Sentenza n. 12273 del 05/07/2004, Rv.574125).
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –
Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – est. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 29908-2010 proposto da:
M.M. (OMISSIS), G.A. (OMISSIS), M.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI CASTANI 195, presso lo studio dell’avvocato GALATI BRUNO, rappresentati e difesi dall’avvocato CERASO ROSA ANGELA giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
CENTRO ODONTOIATRICO MONZESE SNC (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore Sig. D.P.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE FORNACI 43, presso lo studio dell’avvocato SCORSONE VINCENZO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO DE VITO giusta procura in calce al controricorso;
R.N. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L. BISSOLATI 76, presso lo studio dell’avvocato TOMMASO SPINELLI GIORDANO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CHIODA MASSIMO giusta procura in calce al controricorso;
AZIENDA OSPEDALIERA OSPEDALE SAN GERARDO DI MONZA, in persona del Direttore Generale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MARCO VINCENTI, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
e contro
OSPEDALE SAN GERARDO DI MONZA;
– intimato –
avverso la sentenza n. 2462/2010 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 06/09/2010; R.G.N. 643/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/2015 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;
udito l’Avvocato ENRICA FASOLA per delega;
udito l’Avvocato ANGELA C. DONATACCIO per delega;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Il 7.11.2000 M.F., G.A. e M.M. (quest’ultimo, all’epoca, minore e rappresentato ex art. 320 c.c. dai genitori M.F. e G.A.) convennero dinanzi al Tribunale di Monza la società Centro Odontoiatrico Monzese s.n.c. (d’ora innanzi, per brevità, “il COM”) e l’Azienda Ospedaliera “Ospedale San Gerardo dei Tintori” di (OMISSIS) (d’ora innanzi, per brevità, “l’Ospedale”), esponendo che:
– M.F. era il marito di G.A. ed il padre di M.M.;
– il 13.2.1999 M.F. si rivolse alle cure del COM a causa di un forte mal di denti;
– il medico ivi presente, dott. R.N., ritenne necessario eseguire un’estrazione dentaria de Il molare inferiore di destra;
– in seguito a tale estrazione il paziente contrasse una grave infezione, degenerata in fascite necrotizzante e mediastinite, a causa della quale venne ricoverato il 19.2.1999 nell’ospedale gestito dall’azienda convenuta;
– l’infezione era in seguito guarita lasciando gravissimi postumi permanenti, tra i quali la perdita della vista all’occhio sinistro e l’ipoacusia bilaterale;
– i danni alla salute patiti dal paziente andavano ascritti tanto a responsabilità del COM, quando dell’Ospedale: del primo, per non avere somministrato al paziente una adeguata terapia antibiotica prima dell’estrazione; al secondo, per non avere tempestivamente ed adeguatamente fronteggiato la patologia presentata da M. F., la quale, se trattata prima e meglio di quanto non avvenne, sarebbe guarita lasciando postumi meno gravi.
2. Tutti e due i convenuti si costituirono negando la propria responsabilità.
3. Con separato atto di citazione, il COM convenne dinanzi al Tribunale di Monza il dott. R.N., autore dell’estrazione dentaria pratica a M.F., chiedendo di essere da questi tenuto indenne in caso di accoglimento della pretesa azionata dai sigg.ri M. – G. nell’altro giudizio.
4. Riunite le cause, con sentenza 3.2.2003 n. 417 il Tribunale di Monza rigettò tutte le domande, ritenendo insussistente sia la colpa dei convenuti, sia il nesso di causa tra l’operato di questi e il danno lamentato dagli attori.
5. La sentenza venne impugnata dai soccombenti.
La Corte d’appello di Milano, con sentenza 6.9.2010 n. 2462, rigettò il gravame.
Il giudice d’appello ritenne anch’egli insussistente sia la colpa dei convenuti, sia in ogni caso un valido nesso di causa tra il loro operato ed il danno patito dal paziente, osservando che:
– le condizioni cliniche del paziente al momento dell’estrazione dentaria non imponevano un trattamento antibiotico preliminare, ed anzi lo sconsigliavano, a causa della dichiarata allergia del paziente agli antibiotici;
– non vi fu colpa dei sanitari dell’Ospedale nel confermare il trattamento del paziente con Amikacina, antibiotico prescritto in prima battuta dal medico di base;
– in ogni caso non vi era prova che un diverso e più precoce trattamento antibiotico avrebbe migliorato il quadro clinico;
– la prolungata durata di somministrazione dell’Amikacina non costituì una condotta colposa: sia perchè consigliabile, sia perchè ebbe comunque effetti benefici per il paziente, sia infine perchè qualsiasi altra scelta avrebbe esposto a seri rischi la vita stessa del paziente.
6. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da M.F., G.A. e M.M., sulla base di quattro motivi. Hanno resistito con controricorso la COM, R. N. e (a seguito di rinnovazione della notifica del ricorso, disposta da questa Corte ai sensi dell’art. 331 c.p.c.) l’Ospedale.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una violazione di legge, ai sensi all’art. 360 c.p.c., n. 3, (si assumono violati gli artt. 61, 112, 113, 115, 116 e 191 c.p.c.; artt. 1176, 1218, 1223, 1226, 2236, 2043, 2049, 2056, 2059, 2727 e 2697 c.c.); sia da una nullità processuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4; sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Pur essendo il motivo formalmente unitario, nella illustrazione di esso i ricorrenti formulano varie doglianze.
1.2. Con una prima doglianza, i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente valutato la colpa dei convenuti “alla luce degli artt. 1176 e 2236 c.c., invece che alla luce delle regole della responsabilità contrattuale di agli artt. 1218 e 1228 c.c.”.
1.2.1. Tale censura è inammissibile nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 2236 c.c.; è manifestamente infondata nella parte restante: e ciò sia per l’assunto su cui poggia, sia per la lettura che da della sentenza d’appello.
Nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 2236 c.c., il motivo è inammissibile per difetto di interesse.
La Corte d’appello, infatti, ha escluso che il caso di specie costituisse una fattispecie di speciale difficoltà, e che di conseguenza i sanitari potessero invocare l’esonero da responsabilità per colpa lieve di cui all’art. 2236 c.c. L’esclusione dell’applicabilità di questa norma, abbassando la soglia della responsabilità dei sanitari, non ha potuto nuocere in alcun modo agli odierni ricorrenti: essi, dunque, non hanno alcun interesse a vedere affermata l’applicabilità, alla loro domanda, della limitazione di responsabilità di cui alla norma appena ricordata.
1.2.2. Nella parte restante, il primo profilo di censura contenuto nel primo motivo di ricorso è infondato per il presupposto giuridico su cui poggia. I ricorrenti infatti mostrano di ritenere che il nostro ordinamento disciplini da un lato la “responsabilità contrattuale”, e dall’altro “la responsabilità professionale”, di cui agli artt. 1176 e 2236 c.c..
In realtà è sin troppo noto che:
(a) la responsabilità derivante dall’inadempimento del contratto d’opera professionale è una responsabilità ovviamente contrattuale;
(b) l’art. 1176 c.c. trova applicazione tanto in tema di inadempimento di obbligazioni contrattuali, quanto in tema di fatti illeciti: esso, infatti, disciplina non già il contenuto della condotta dovuta, ma il criterio di valutazione di tale condotta, stabilendo a quali condizioni l’inadempimento in senso oggettivo possa essere ascritto a colpa del debitore (e cioè quando quest’ultimo abbia tenuto una condotta diversa da quella dell’homo eiusdem generis et condicionis).
La censura, infine, come accennato muove da una distorta lettura della sentenza appellata, la quale non ha affatto escluso l’applicabilità, nel caso di specie, delle regole sulla responsabilità contrattuale: ha, più semplicemente, ritenuto assolto da parte dei convenuti l’onere di provare la propria condotta diligente. E questo, ovviamente, è un accertamento di fatto, non certo una erronea applicazione di norme di diritto.
1.3. Con una seconda doglianza, i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello avrebbe errato nel disporre “ingiustamente” (sic) una consulenza tecnica d’ufficio, in tal modo sollevando i convenuti dall’onere della prova liberatoria su essi gravante (e cioè dimostrare di avere tenuto una condotta diligente).
La doglianza è manifestamente infondata, posto che:
(a) disporre una consulenza rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito;
(b) la consulenza può legittimamente assurgere a fonte di prova quando la dimostrazione del fatto costitutivo della pretesa o dell’eccezione, con i mezzi ordinari, sia impossibile o estremamente difficoltosa: e provare per testimoni o per presunzioni quale debba essere la corretta gestione clinica d’un paziente secondo le leges artis è estremamente arduo, quando non impossibile.
1.4. Con una terza doglianza, anch’essa inscritta nell’illustrazione del primo motivo di ricorso, i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello avrebbe malamente interpretato le consulenze tecniche d’ufficio (eseguite in primo ed in secondo grado), dalla cui attenta lettura non emergeva affatto la prova d’una condotta diligente da parte dei convenuti.
Sostengono, al riguardo, che:
(-) per andare esente da responsabilità, al medico non basta provare la mera assenza di condotte negligenti, ma deve provare di avere tenuto una condotta diligente e conforme alle regole dell’arte;
(-) le due consulenze eseguite nei gradi di merito, e condivise dalla Corte d’appello, si erano limitate a rilevare l’assenza di condotte censurabili da parte dei sanitari che curarono M.F., ma non avevano affatto accertato che la condotta dei sanitari fu perita, prudente e diligente;
(-) la consulenza tecnica d’appello, in particolare, era gravemente erronea perchè:
(a) non aveva risposto ai quesiti della Corte d’appello;
(b) non aveva considerato i dati risultanti dalla cartella clinica del paziente.
1.4.1. La doglianza appena riassunta è in parte inammissibile, ed in parte infondata.
Nella parte in cui lamenta il vizio di nullità di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, la doglianza è inammissibile per totale mancanza di illustrazione del fondamento di tale presunto vizio della sentenza o del procedimento.
1.4.2. Nella parte in cui lamenta il vizio di violazione di legge, la doglianza è manifestamente infondata. La Corte d’appello non ha mai affermato in iure quel che i ricorrenti pretendono di farle dire, e cioè che la domanda di risarcimento del danno possa essere rigettata anche in assenza della prova d’una condotta diligente da parte dei medici convenuti.
La Corte d’appello, al contrario, ha semplicemente qualificato come “corretto” l’operato dei sanitari: e questo è un accertamento di fatto, sindacabile in questa sede solo sotto il profilo del vizio di motivazione (secondo il testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 applicabile ratione temporis).
Quanto, poi, alla allegazione secondo cui la Corte d’appello avrebbe rigettato la domanda attorea pur in mancanza della prova d’una condotta diligente dei sanitari, è evidente come il ricorso giochi con le parole della sentenza d’appello, mostrando di non coglierne l’inequivoca ratio decidendi.
Il giudice di merito, chiamato a valutare la correttezza dell’operato di qualsiasi professionista, deve stabilire se essa sia stata conforme a quella che, nelle stesse circostanze, avrebbe tenuto il professionista “medio”, ovvero l’homo eiusdem generis et condicionis di cui all’art. 1176 c.c., comma 2.
L’operato del medico è dunque “diligente”, e va esente da colpa, quando qualunque altro medico, nelle medesime circostanze concrete, avrebbe tenuto una condotta analoga.
La Corte d’appello, nel caso di specie, ha giustappunto ritenuto che tanto l’operato di R.N. (medico operante nel CONI), quanto l’operato dei sanitari dell’Ospedale “San Gerardo” è stato conforme alle leges artis: tanto si afferma alle pp. 5-7 della sentenza impugnata, ove si legge che:
– R.N. non è in colpa per non avere somministrato antibiotici prima dell’estrazione dentaria, perchè alcuna linea guida la prescriveva e perchè il paziente era allergico ad essi (pp. 5-6);
– R.N. non è in colpa per avere eseguito l’estrazione senza prima individuare un antibiotico tollerato dal paziente, perchè una infiammazione dentaria esige per prima cosa la rimozione dell’infezione, e quindi l’avulsione (p. 6);
– i sanitari dell’Ospedale San Gerardo non sono in colpa per avere somministrato Amikacina al paziente, non hanno tardivamente eseguito il drenaggio, non hanno violato alcuna lex artis nel non eseguire il monitoraggio otovestibolare.
E’ dunque evidente che la Corte d’appello ha giustapposto da un lato le regole della diligenza esigibili in astratto ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, dai sanitari, e dall’altro la condotta concreta di questi ultimi: ed avendo ritenuto le une coincidenti con l’altra, ha ritenuto vinta la presunzione posta dall’art. 1218 c.c. a carico dei convenuti.
1.4.3. Nella parte, infine, in cui lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha condiviso la consulenza tecnica d’ufficio, il motivo è manifestamente inammissibile.
Affinchè possa essere sindacata in questa sede la motivazione con cui il giudice di merito ha condiviso il responso d’un consulente tecnico, sarebbe necessario che il ricorrente indicasse o un errore logico della consulenza, mutuato dalla sentenza, ovvero l’omessa considerazione di elementi decisivi ritualmente acquisiti nel corso dell’istruttoria.
Nel caso di specie, invece, i ricorrenti hanno proceduto in questo modo:
(a) hanno fotocopiato nel ricorso l’intera consulenza d’ufficio eseguita in grado di appello;
(b) hanno fotocopiato nel ricorso i quesiti integrali posti dalla Corte d’appello ai consulenti;
(b) hanno quindi dedotto che la consulenza:
– si è limitata a replicare alle memorie dei consulenti di parte;
– “è infarcita di macroscopici errori ed omissioni”;
– ha omesso di valutare i profili di inadempimento dedotti dagli attori;
– non ha dato risposta ai quesiti posti dalla Corte d’appello.
Si tratta dunque di doglianze generiche, e genericamente riferite all’intera consulenza, senza che i ricorrenti abbiano indicato quali punti, quali aspetti, quali valutazioni, quali citazioni bibliografiche compiute dai consulenti e recepite dalla Corte d’appello costituirebbero i “macroscopici errori” di cui si dolgono.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Anche col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una violazione di legge, ai sensi all’art. 360 c.p.c., n. 3, (si assumono violati gli artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c.; artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2049, 2056, 2059, 2727 e 2697 c.c.); sia da una nullità processuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4; sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Espongono al riguardo, di avere impugnato la sentenza di primo grado dolendosi, tra l’altro, dell’omessa considerazione da parte del giudice di primo grado della difettosa tenuta della cartella clinica da parte dell’Ospedale San Gerardo; e che la Corte d’appello non prese in considerazione questo motivo di gravame. Soggiungono che la difettosa tenuta della cartella clinica costituirebbe di per sè prova della mancanza di diligenza del medico.
2.2. Il motivo è inammissibile per un verso, e infondato sotto altro aspetto. In primo luogo il motivo è inammissibile per la sua totale ambiguità. I ricorrenti esordiscono dolendosi di una omessa pronuncia (p. 44 del ricorso); ma nella illustrazione che segue spiegano come l’errore della sentenza d’appello sarebbe consistito non già nel non avere esaminato il motivo di gravame, ma nell’avere rigettato la loro domanda nonostante l’incompletezza della cartella clinica. E’ dunque impossibile stabilire se col motivo in esame i ricorrenti abbiano inteso far valere il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, ovvero quello di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3. In ogni caso, quale che sia la censura che i ricorrenti avessero inteso formulare col motivo in esame, esso è infondato perchè fraintende la giurisprudenza di questa Corte sulla questione delle conseguenze di una difettosa tenuta della cartella clinica.
L’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice di merito può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza d’un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente. Non in modo automatico, però: affinchè quella incompletezza rilevi ai fini del decidere, è necessario che:
(a) l’esistenza del nesso di causa tra condotta del medico e danno del paziente non possa essere accertata proprio a causa della incompletezza della cartella;
(b) il medico abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno (così la sentenza capostipite, ovvero Sez. 3, Sentenza n. 12103 del 13/09/2000, Rv.
540146; in seguito, nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 10060 del 27/04/2010, Rv. 612606; Sez. 3, Sentenza n. 12273 del 05/07/2004, Rv.
574125).
Nel caso di specie, la Corte d’appello – con accertamento insindacabile in questa sede – ha ritenuto insussistenti ambedue questi presupposti. Da un lato, infatti, ha qualificato “chiara e completa” l’indagine compiuta nel corso dell’istruttoria (p. 7), e dunque mancava il requisito della incertezza indotta dalla difettosa tenuta della cartella clinica. Dall’altro ha escluso che una condotta alternativa dei sanitari avrebbe potuto evitare il danno patito da M.F., ed ha di conseguenza escluso anche la “astratta idoneità” della loro condotta concreta a causare il danno. Ne consegue che:
– ove i ricorrenti abbiano inteso denunciare col motivo in esame un’omessa pronuncia, questa non vi fu, perchè il complesso della motivazione della sentenza impugnata rende palese che la Corte ha implicitamente rigettato la relativa doglianza;
– ove i ricorrenti abbiano inteso denunciare la violazione di legge, nemmeno essa vi fu, perchè la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui l’incompletezza della cartella clinica non rileva di per sè, ma solo nei casi di semipiena probatio e sempre che la condotta dei sanitari sia stata astrattamente idonea a causare l’evento di danno.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Anche col terzo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una violazione di legge, ai sensi all’art. 360 c.p.c., n. 3, (si assumono violati gli artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c.; artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2049, 2056, 2059, 2727 e 2697 c.c.); sia da una nullità processuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4; sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Espongono, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe totalmente omesso di esaminare la condotta dell’ospedale, sotto il profilo della mancata diagnosi e della omessa cura della ulcera corneale che provocò al paziente la perdita totale del visus all’occhio sinistro.
Tale ulcera, spiegano i ricorrenti, fu causata dal progredire dell’infezione, ed i sanitari non seppero nè prevenirla, nè curarla.
3.2. Il motivo è infondato.
Si è già detto come la Corte d’appello, con accertamento di fatto adeguatamente motivato, ha ritenuto la condotta dei sanitari conforme alle leges artis della buona pratica clinica.
Una volta accertata la correttezza di tale condotta, la Corte d’appello non aveva alcun onere di prendere in esame le singole conseguenze dannose in tesi derivanti dall’operato dei sanitari, in quanto l’esclusione di profili di colpa nella condotta di questi ne escludeva la responsabilità rispetto a tutti i pregiudizi derivati dall’infezione.
Di conseguenza:
(a) alcun vizio di nullità del procedimento è ravvisabile;
(b) il vizio di violazione di legge non sussiste, perchè la doglianza concerne un accertamento di fatto;
(c) il vizio di motivazione non sussiste, perchè la Corte ha adeguatamente spiegato le ragioni per le quali dovesse escludersi la colpa dei sanitari.
4. Il quarto motivo di ricorso.
4.1. Col quarto ed ultimo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una violazione di legge, ai sensi all’art. 360 c.p.c., n. 3, (si assumono violati gli artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c.; artt. 1218, 1223, 1226, 2043, 2049, 2056, 2059, 2727 e 2697 c.c.); sia da una nullità processuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4; sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Espongono, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe errato nel condividere la consulenza tecnica d’ufficio eseguita in grado di appello, e senza dare conto delle analitiche censure mosse ad essa dai consulenti di parte degli appellanti.
Spiegano che i consulenti d’ufficio avrebbero errato:
– nel ritenere che non fosse necessario somministrare al paziente un antibiotico prima dell’estrazione dentaria;
– nel non considerare che al momento della presentazione presso il COM, il paziente presentava un evidente edema, indice di infezione e quindi bisognevole di terapia antibiotica;
– nel non considerare che le condizioni di salute dell’intero cavo orale del paziente, al momento di presentazione presso il COM, imponevano la profilassi antibiotica;
– nel non considerare che l’intolleranza agli antibiotici, nel caso di specie, non costituiva un ragionevole motivo per non somministrarli al paziente, a fronte del suo quadro clinico;
– nel citare riferimenti bibliografici non pertinenti;
– nel non considerare colposa la condotta dei sanitari del pronto soccorso dell’ospedale San Gerardo, i quali non ricoverarono immediatamente il paziente;
– nel non ravvisare profili di colpa nella scelta dei sanitari di non sospendere l’Amikacina dopo 48 re dall’inizio della somministrazione:
– nel non avere rilevato profili di colpa nell’operato dei medici dell’ospedale, i quali avrebbero dovuto tempestivamente eseguire un antibiogramma, una TAC ed un intervento chirurgico di asportazione delle parti di tessuto infette.
4.2. Il motivo è manifestamente inammissibile.
Nella parte in cui lamenta la nullità processuale (art. 360 c.p.c., n. 4), è inammissibile perchè nemmeno spiega in cosa sarebbe consistita la suddetta nullità.
Nella parte in cui lamenta la violazione di legge, il motivo è inammissibile perchè prospetta nella sostanza non già un error iuris, ma l’erroneità nell’accertamento d’un fatto, e cioè la colpa dei convenuti. Nella parte, infine, in cui lamenta il vizio di motivazione, il motivo è inammissibile perchè tutte le censure con esso prospettate, e riassunte al precedente, hanno oggetto solo questioni squisitamente di fatto. Deve a tal riguardo ricordarsi come il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.
E’ altresì noto che il giudice di merito al fine di adempiere all’obbligo della motivazione non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali e a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti, ma è invece sufficiente che, dopo avere vagliato le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.
E’, infine, noto che la Corte di Cassazione non ha il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice del merito.
Da questi principi pacifici discende che non può chiedersi al giudice di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella adottata dal giudice di merito. Il sindacato della Corte è limitato a valutare se la motivazione adottata dal giudice di merito sia esistente, coerente e consequenziale: accertati tali requisiti, nulla rileva che le prove raccolte si sarebbero potute teoricamente valutare in altro modo. Nel caso di specie la Corte d’appello ha effettivamente compiuto la valutazione della colpa dei sanitari; l’ha sorretta con una motivazione adeguata e non contraddittoria; ha adottato argomenti incompatibili con le censure mosse dagli odierni ricorrenti e non formalmente esaminati, che perciò debbono ritenersi rigettate per implicito.
Stabilire, poi, se la decisione impugnata sia anche corretta nel merito è questione sottratta al perimetro dei poteri di questa Corte.
5. Le spese.
La oggettiva complessità delle questioni tecniche dibattute nei due gradi di merito; e la circostanza che siano state reputate necessarie due consulenze per accertare i fatti posti a fondamento della domanda, costituiscono giusto motivo per la compensazione integrale delle spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
la Corte di cassazione, visto l’art. 380 c.p.c.:
-) rigetta il ricorso;
-) compensa integralmente tra tutte le parti le spese del presente grado di giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 24 febbraio 2015.
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2015