L’erronea classificazione delle condizioni del paziente in codice verde è stato frutto della condotta omissiva-imperita e negligente- tenuta dall’infermiera , che trascurava del tutto di apprezzare le condizioni del paziente, sia all’arrivo in pronto soccorso sia successivamente nella doverosa rivalutazione che si imponeva, in ragione della sintomatologia lamentata rapportata all’età.

Considerato che : il paziente si trovava già in pronto soccorso e, quindi, l’intervento specialistico cardiologico era garantito con assoluta tempestività; l’ospedale era attrezzato con metodiche di emodinamica all’avanguardia, sicché sarebbero state immediatamente eseguibili le indagini invasive, quali la coronarografia, e non invasive, quali l’ecocardiografia, nonché l’intervento di angioplastica; l’esame della documentazione medica e delle risultanze delle consulenze in atti dava prova che l’intervento cardiologico praticato al paziente, una volta conclamata l’urgenza, era stato rapidissimo e corretto.

Quindi, ove assicurato un tempestivo intervento, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo con minore intensità lesiva; in tal modo  si è implicitamente ritenuto che, ove correttamente apprezzate le reali condizioni del paziente presente in pronto soccorso da parte dell’imputata, tale condotta avrebbe avuto, con alta probabilità logica, un ruolo salvifico.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE , SENTENZA 30 maggio 2017, n.26922
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 26.2.2016, la Corte di appello di Milano, pronunciando in sede di giudizio di rinvio a seguito della sentenza di annullamento di questa Suprema Corte n. 11601/2015, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Milano in data 6.7.2011, con la quale R.F.M.B. era stata dichiarata responsabile del reato di cui all’art. 589 commesso in danno di M.V. (perché quale infermiera addetta al “triage” presso la clinica (omissis) , per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, assegnava a M.V. un errato codice di accettazione al triage e, in particolare, un codice verde anziché giallo, nonostante lo stesso lamentasse un dolore toracico atipico, non registrando e quindi non rilevando la sudorazione, il pallore e la dispnea e omettendo di monitorare le variazioni delle condizioni del paziente ogni 30-60 minuti, come richiesto dai protocolli di triage applicati dalla clinica e nonostante le pressanti richieste dei parenti, e in ogni caso nel non aver chiesto l’intervento o la consulenza del medico di supporto, nonché nell’aver omesso nel passaggio di consegne di menzionare alla infermiera addetta al triage montante nelle ore successive la presenza di paziente con dolore toracico in sala di attesa) e condannata, in solido al responsabile civile, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputata in ordine al reato contestategli per essere lo stesso estinto per prescrizione e confermava le statuizioni civili di cui alla sentenza impugnata.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione, limitatamente ai soli interessi ed effetti civili, il responsabile civile Istituto Clinico Città Studi s.p.a., a mezzo di difensore munito di procura speciale, articolando due motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen..
Con il primo motivo deduce violazione di legge e correlato vizio di motivazione in relazione agli art. 238 bis e 627 cod.proc.pen..
Argomenta che la sentenza di annullamento di questa Corte di legittimità ha riguardato la sola posizione della R.F. (e del responsabile civile) e, quindi, si è formato il giudicato sull’assoluzione dell’altra coimputata N.H. ; l’assoluzione del coimputato, con la formula perché il fatto non sussiste, secondo la prospettazione del ricorrente, dovrebbe riverberarsi anche sulla posizione della R.F. in base al disposto dell’art. 238 bis cod.proc.pen. e condurre ad analogo esito assolutorio nel merito anche dell’infermiera R.F. .
Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione e violazione di legge in relazione al nesso di causalità.
Espone che con la sentenza di annullamento questa Suprema Corte aveva demandato al giudice del rinvio una rivalutazione della sussistenza del nesso causale con riguardo alla posizione della R.F. ed argomenta che sul punto la motivazione della sentenza impugnata sarebbe apodittica ed illogica nonché omessa in relazione alla considerazione del comportamento alternativo lecito che si assume essere stato omesso dall’imputata; in particolare la Corte di appello avrebbe omesso di valutare se l’omesso monitoraggio delle condizioni del paziente avrebbe evitato (o significativamente ritardato) con alto grado di probabilità logica il decesso del paziente; inoltre, la motivazione sarebbe illogica nella parte in cui si affermava una colposa omessa rivalutazione del paziente con riguardo all’infermiera che per prima aveva preso in carico il paziente mentre era stato assolto il collega subentrato ed al quale il paziente era rimasto affidato molto più a lungo.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza limitatamente ai soli interessi ed effetti civili nella parte in cui sono state confermate le statuizioni civili della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Milano il 6.7.2011.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per genericità.
Il motivo prospetta deduzioni del tutto generiche, che non si confrontano specificamente con le argomentazioni svolte (pag.5) nella sentenza impugnata (confronto doveroso per l’ammissibilità dell’impugnazione, ex art. 581 c.p.p., perché la sua funzione tipica è quella della critica argomentata avverso il provvedimento oggetto di ricorso: Sez. 6, sent. 20377 dell’11.3 – 14.5.2009 e Sez.6, sent. 22445 dell’8 – 28.5.2009).
Trova dunque applicazione il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di inammissibilità del ricorso per cassazione, i motivi devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013 – dep. 26/06/2013, Sammarco, Rv. 255568).
La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. c), all’inammissibilità (Sez. 4, 29/03/2000, n. 5191, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, 03/07/2007, n. 34270, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Tasca, Rv. 237596).
2. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
2.1. Va premesso che, nel caso in esame, l’annullamento della sentenza del giudice di secondo grado è intervenuto per difetto di motivazione e, in particolare, per quanto qui rileva, per il ritenuto deficit motivazionale in merito alla valutazione di sussistenza del nesso di causalità con riferimento alla posizione dell’imputata R.F. .
Va, quindi, ricordato che costituisce insegnamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, che i poteri del giudice di rinvio sono diversi a seconda che l’annullamento sia stato pronunciato per violazione o erronea applicazione della legge penale oppure per mancanza o manifesta illogicità della motivazione.
Invero, nel primo caso, il giudice di rinvio ha sempre l’obbligo di uniformarsi alla decisione sui punti di diritto indicati dal giudice di legittimità e su tali punti nessuna delle parti ha facoltà di ulteriori impugnazioni, pur in presenza di una modifica dell’interpretazione delle norme che devono essere applicate da parte della giurisprudenza di legittimità.
Nel caso, invece, di annullamento per vizio di motivazione – come nella specie- il giudice di rinvio conserva la libertà di decisione mediante autonoma valutazione delle risultanze probatorie relative al punto annullato anche se è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento.
In tale ipotesi, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (ex multis, Sez.4, 21 giugno 2005, Poggi, rv 232019), il giudice di rinvio è vincolato dal divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Corte di cassazione, ma resta libero di pervenire, sulla scorta di argomentazioni diverse da quelle censurate in sede di legittimità ovvero integrando e completando quelle già svolte, allo stesso risultato decisorio della pronuncia annullata. Ciò in quanto spetta esclusivamente al giudice di merito il compito di ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di apprezzare il significato e il valore delle relative fonti di prova, senza essere condizionato da valutazioni in fatto eventualmente sfuggite al giudice di legittimità nelle proprie argomentazioni, essendo diversi i piani su cui operano le rispettive valutazioni e non essendo compito della Corte di cassazione di sovrapporre il proprio convincimento a quello del giudice di merito in ordine a tali aspetti.
Del resto, ove la Suprema Corte soffermi eventualmente la sua attenzione su alcuni particolari aspetti da cui emerga la carenza o la contraddittorietà della motivazione, ciò non comporta che il giudice di rinvio sia investito del nuovo giudizio sui soli punti specificati, poiché egli conserva gli stessi poteri che gli competevano originariamente quale giudice di merito relativamente all’individuazione ed alla valutazione dei dati processuali. Ed invero, eventuali elementi di fatto e valutazioni contenuti nella pronuncia di annullamento non sono vincolanti per il giudice di rinvio, ma rilevano esclusivamente come punti di riferimento al fine della individuazione del vizio o dei vizi segnalati e, non, quindi come dati che si impongono per la decisione a lui demandata (Sez.4, n.20044 del 17/03/2015, Rv. 263864; Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, Rv. 251660; Sez. 5, n. 6004 del 11/11/1998, dep. 16/02/1999, Rv. 213072; Sez. 3, n. 9454 del 10/07/1995, Rv. 202879).
2.2. Con riferimento all’accertamento del rapporto di causalità, va, poi, osservato che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (cfr. Sez. U, n.30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138).
È stato affermato che deve considerarsi utopistico un modello di indagine causale, fondato solo su strumenti di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, affidato esclusivamente alla forza esplicativa di leggi universali. Ciò in quanto, nell’ambito dei ragionamenti esplicativi, si formulano giudizi sulla base di generalizzazioni causali, congiunte con l’analisi di contingenze fattuali. In tale prospettiva, si è chiarito che il coefficiente probabilistico della generalizzazione scientifica non è solitamente molto importante; e che è invece importante che la generalizzazione esprima effettivamente una dimostrata, certa relazione causale tra una categoria di condizioni ed una categoria di eventi Nella verifica dell’imputazione causale dell’evento, cioè, occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta. Con particolare riferimento alla casualità omissiva – che pure viene in rilievo nel caso di specie – si osserva poi che la giurisprudenza di legittimità ha enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva, indicando il seguente itinerario probatorio: il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi ex post sulla base di tutte le emergenze disponibili, e culmina nel giudizio di elevata “probabilità logica” (Sez. U, n. 30328 del 10.7.2002, cit.).
Si è precisato, inoltre, che le incertezze alimentate dalle generalizzazioni probabilistiche possono essere in qualche caso superate nel crogiuolo del giudizio focalizzato sulle particolarità del caso concreto quando l’apprezzamento conclusivo può essere espresso in termini di elevata probabilità logica (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, dep. 13/12/2010, Cozzini, Rv. 248943).
Ai fini dell’imputazione causale dell’evento, pertanto, il giudice di merito deve sviluppare un ragionamento esplicativo che si confronti adeguatamente con le particolarità della fattispecie concreta, chiarendo che cosa sarebbe accaduto se fosse stato posto in essere il comportamento richiesto all’imputato dall’ordinamento (cfr. Sez. U, n. 38343 del 24.04.2014, dep. 18.09.2014, Rv. 261103).
Nel reato colposo omissivo improprio, quindi, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto (Sez. 4, n. 49707 del 04/11/2014, Rv. 263284; Sez. 4, n. 26491 del 11/05/2016, Rv. 267734).
2.3. Nella specie, la Corte territoriale, ha osservato che l’erronea classificazione delle condizioni del paziente in codice verde era frutto della condotta omissiva-imperita e negligente- tenuta dall’infermiera R. , che trascurava del tutto di apprezzare le condizioni del paziente, sia all’arrivo in pronto soccorso sia successivamente nella doverosa rivalutazione che si imponeva, in ragione della sintomatologia lamentata rapportata all’età.
Nel ritenere comprovato il nesso causale, poi, non ha dato valore esclusivo al dato statistico, che esprimeva percentuali di sopravvivenza del paziente in caso di tempestivo intervento rilevanti e sicuramente non trascurabili, ma ha valorizzato anche tutte le peculiarità del caso concreto; in particolare ha rilevato che: il paziente si trovava già in pronto soccorso e, quindi, l’intervento specialistico cardiologico era garantito con assoluta tempestività; l’ospedale era attrezzato con metodiche di emodinamica all’avanguardia, sicché sarebbero state immediatamente eseguibili le indagini invasive, quali la coronarografia, e non invasive, quali l’ecocardiografia, nonché l’intervento di angioplastica; l’esame della documentazione medica e delle risultanze delle consulenze in atti dava prova che l’intervento cardiologico praticato al paziente, una volta conclamata l’urgenza, era stato rapidissimo e corretto.
Ha, quindi, conclusivamente valutato che, ove assicurato un tempestivo intervento al paziente, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo con minore intensità lesiva; in tal modo ha implicitamente ritenuto che, ove correttamente apprezzate le reali condizioni del paziente presente in pronto soccorso da parte dell’imputata, tale condotta avrebbe avuto, con alta probabilità logica, un ruolo salvifico.
Tali valutazioni risultano adeguatamente argomentate, immuni dalle dedotte aporie di ordine logico e del tutto congruenti in relazione al compendio probatorio acquisito; esse, inoltre, sono in linea con i suesposti principi di diritto affermati in subiecta materia da questa Suprema Corte.
3. Il ricorso, pertanto, va rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali in base al disposto dell’art. 616 cod.proc.pen..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.