L’omessa acquisizione del consenso informato al trattamento sanitario dà luogo ad un danno non patrimoniale risarcibile autonomamente in favore del paziente, a prescindere dal pregiudizio alla salute. Il consenso deve essere acquisito in modo da lasciare al paziente il tempo di rifiutare eventualmente il trattamento, pertanto non è sufficiente la descrizione dell’esame diagnostico, durante il suo svolgimento, finalizzata ad ottenere dal paziente la collaborazione necessaria per eseguire l’esame stesso.
Cass. civ. Sez. III, 28-06-2018, n. 17022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. D’ARRIGO Cosimo – rel. Consigliere –
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 28328-2015 proposto da:
P.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 96, presso lo studio dell’avvocato FLORA DE CARO, che la rappresenta difende unitamente all’avvocato MARIALUIGIA BELTRAME giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
AZIENDA OSPEDALIERA S MARIA DI TERNI;
– intimata –
nonchè da:
AZIENDA OSPEDALIERA S. MARIA DI TERNI in persona del Direttore Generale e legale rappresentante pro tempore Dott. C.A., domiciliata ex lege in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI ZINGARELLI giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente incidentale –
contro
P.E.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 254/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 24/04/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/2018 dal Consigliere Dott. COSIMO D’ARRIGO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI Corrado che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale p.q.r. limitatamente ai motivi 1-9 e 10, rigetto dell’incidentale;
udito l’Avvocato FLORA DE CARO;
udito l’Avvocato LUIGI ZINGARELLI.
Svolgimento del processo
P.E. ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Terni l’Azienda ospedaliera “S. Maria” per ottenere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, derivanti da un ictus cerebrale cardioembolico provocato dai sanitari dell’ospedale, esponendo che, a seguito di una sincope post-minzionale, era stata ricoverata presso la divisione di cardiologia ove veniva sottoposta, senza consenso, ad uno studio elettrofisiologico trans-esofageo (SETE); che tale esame veniva effettuato senza la necessaria terapia anticoagulante, già prescritta dalle linee guida dell’epoca per prevenire il rischio di ictus cerebrale insito nella sua esecuzione; che nel corso dell’esame si determinava, per l’appunto, un ictus cerebrale con gravi postumi psicofisici permanenti.
Il tribunale accoglieva parzialmente la domanda attorea e contro tale decisione la P. proponeva appello, lamentando il mancato riconoscimento di una serie di voci di danno delle quali aveva chiesto il risarcimento.
L’azienda ospedaliera si costituiva nel giudizio di appello proponendo appello incidentale.
La Corte d’appello di Perugia, con sentenza del 24 aprile 2015, accoglieva parzialmente l’impugnazione della P., ampliando gli obblighi risarcitori dell’Azienda ospedaliera.
Contro tale sentenza la P., la cui domanda originaria resta comunque solo parzialmente accolta, ha proposto ricorso per cassazione articolato in dieci motivi. L’azienda ospedaliera “S. Maria” di Terni ha resistito con controricorso e ha proposto ricorso incidentale, illustrato da successive memorie difensive, depositate ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1.1 Con il primo motivo del ricorso principale si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2059 cod. civ., degli artt. 13 e 32 Cost. e della L. n. 833 del 1978, art. 3, consistita nel mancato riconoscimento del diritto al risarcimento, quale autonoma voce di danno, della lesione del diritto alla autodeterminazione dei trattamenti sanitari, verificatasi in quanto l’accertamento causativo del danno (SATE) è stato eseguito senza il consenso, neanche generico, della paziente.
Il rigetto della domanda è stato motivate dal tribunale argomentando sull’inesistenza del rapporto di causalità fra l’esecuzione dell’esame diagnostico e il peggioramento delle condizioni psicofisiche della paziente.
La corte d’appello ha rigettato l’impugnazione, evidenziando che l’esame doveva essere comunque eseguito ed era stato attuato correttamente, dal momento che l’evento dannoso si era prodotto non a causa dell’esame in sè considerato, bensì per la mancata profilassi cardioembolica.
La ricorrente espone di aver indicato ai giudici di merito ben nove presunzioni semplici in base alle quali essa stessa,se informata,non avrebbe in alcun caso prestato il consenso al SATE e deduce che la procedura sanitaria senza il consenso del paziente e in sè illecita e quindi produttiva di un’autonoma voce di danno non patrimoniale, che prescinde dall’accertamento delle modalità di esecuzione, dalla necessità clinica dell’esecuzione dell’esame e dal nesso di causalità fra lo stesso e il danno alla salute.
1.2 Il motivo è fondato e deve essere accolto.
Questa Corte ha oramai definitivamente chiarito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi “previsti dalla legge”, e cioè, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ.: (a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorchè privo di rilevanza costituzionale; (b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni); (c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti o interessi della persona oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali situazioni soggettive, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605491).
Il diritto all’autodeterminazione del paziente rientra in questa terza ipotesi. Infatti, si tratta di un diritto inviolabile della persona di rango costituzionale, giacchè l’art. 32 Cost. dispone che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge, e l’art. 13 Cost., sancendo l’inviolabilità della libertà personale, ben ricomprende nel proprio ambito applicativo anche la libertà di decidere in ordine alla propria salute e al proprio corpo.
Pertanto, in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, è stato ripetutamente affermato il principio secondo cui l’acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, di talchè l’errata esecuzione di quest’ultimo dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell’obbligo di informazione, anche in ragione della diversità dei diritti rispettivamente, all’autodeterminazione delle scelte terapeutiche ed all’integrità psicofisica – pregiudicati nelle due differenti ipotesi (Sez. 3, Sentenza n. 2854 del 13/02/2015, Rv. 634415; Sez. 3, Sentenza n. 14642 del 14/07/2015, Rv. 636428). In sostanza, la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti;
nonchè un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale diverso dalla lesione del diritto alla salute (Sez. 3, Sentenza n. 11950 del 16/05/2013, Rv. 626347).
1.3 La corte di merito ha dunque errato nel non riconoscere alla P. la lesione della libertà di autodeterminazione quale autonoma voce di danno risarcibile.
L’argomento secondo cui l’omessa acquisizione del preventivo consenso del paziente non sarebbe stata causativa di un danno effettivo, in quanto l’intervento era comunque necessario ed è stato eseguito a regola d’arte (essendo il danno alla salute derivato non dall’intervento in sè, bensì dall’omissione della profilassi cardioembolica), si scontra con l’autonomo rilievo costituzionale della libertà di autodeterminazione in tema di trattamenti sanitari. Libertà che, come s’è già detto, è lesa per il fatto in sè di aver sottoposto il paziente ad un intervento rispetto al quale non era stato acquisito il suo previo consenso, a prescindere dalle eventuali conseguenze del trattamento sanitario non acconsentito sul piano della salute e dell’integrità fisica.
1.4 Va quindi affermato, in continuità il citato orientamento, il seguente principio di diritto:
“In tema di trattamenti sanitari vige il principio di libera determinazione del paziente quale diritto inviolabile della persona, che trova tutela nell’art. 32 Cost., a mente del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge, e nell’art. 13 Cost., che, sancendo l’inviolabilità della libertà personale, ben ricomprende nel proprio ambito applicativo anche la libertà di decidere in ordine alla propria salute e al proprio corpo. Pertanto, l’omessa acquisizione del consenso preventivo al trattamento sanitario – fuori dai casi in cui lo stesso debba essere praticato in via d’urgenza e il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà – determina la lesione in sè di un valore costituzionalmente protetto, a prescindere dalla presenza o meno di conseguenze negative sul piano della salute, e dà luogo ad un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, ai sensi dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ.”.
In applicazione di tale principio, la sentenza impugnata deve essere cassata nella parte in cui ha negato l’autonoma rilevanza, quale voce di danno risarcibile, alla lesione della libertà di autodeterminazione della paziente. Competerà al giudice del rinvio apprezzare la gravità della lesione e la conseguente sussistenza dei presupposti di fatto, in termini di danno-conseguenza (la cui dimostrazione grava sul danneggiato), per accordare la liquidazione del danno richiesta dall’attrice, alla luce dei principi recentemente affermati da questa stessa Corte regolatrice (Sez. 3, Ordinanza del 23/03/2018, n. 7249).
2.1 Con il secondo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 329 cod. proc. civ. in relazione alla scelta del parametro di liquidazione del danno patrimoniale.
In particolare, il Tribunale di Terni aveva individuato, quale parametro per la liquidazione del danno patrimoniale, il triplo della pensione sociale. La Corte d’appello di Perugia, in assenza di censure da parte dell’appellante principale o di quello incidentale, ha sostituito ex officio al criterio scelto dal tribunale quello del reddito della collaboratrice domestica.
La ricorrente, dunque, lamenta, da un lato, che sul punto si sarebbe formato un giudicato interno che escludeva la devoluzione della questione al giudice d’appello e, dall’altro, che nessuna delle parti aveva contestato il criterio scelto dal tribunale, cosicchè il giudice d’appello doveva ritenersi vincolato, in ossequio, del principio dispositivo, a quella decisione.
2.2 Il motivo è fondato.
In effetti le censure proposte, in via principale o incidentale, con gli atti d’appello non concernono il criterio di liquidazione del quantum debeatur.
L’individuazione di un criterio per la liquidazione del danno patrimoniale è affidata all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito e dà luogo ad un capo autonomo della sentenza, poichè implica un’apposita attività decisoria autonomamente enucleabile.
Consegue che la statuizione pronunciata dal tribunale non poteva essere modificata dalla corte d’appello in assenza di una specifica impugnazione sul punto.
La corte d’appello ha quindi violato il principio devolutivo nella parte in cui ha modificato un capo della sentenza di primo grado sul quale si era oramai formato il giudicato interno.
3. Con il terzo motivo, in caso di mancata accoglimento del secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 10, 33, 34, 35 e 36 del CCNL dei lavoratori domestici, in vigore dal 1 luglio 2013, in quanto la Corte d’appello, nel riferirsi al reddito mensile di una collaboratrice domestica, avrebbe dovuto attenersi alla retribuzione di una collaboratrice di prima categoria e includere la 13a mensilità.
Questo motivo è assorbito dall’accoglimento del secondo, rispetto al quale è espressamente proposto in via subordinata.
4.1 Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione o falsa applicazione del valore minimo di liquidazione giornaliera del danno non patrimoniale da invalidità biologica temporanea previsto dalle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano per l’anno 2014.
Osserva la ricorrente che la corte d’appello ha liquidato l’invalidità biologica temporanea assumendo, quale valore d’indennità giornaliero, l’importo di Euro 90, laddove la forbice stabilita dalle menzionate tabelle milanesi variava da un minimo di Euro 96 ad un massimo di Euro 145, personalizzabile con un aumento fino al 50%. Di conseguenza, la liquidazione dell’invalidità biologica temporanea totale risulterebbe inferiore ai minimi tabellari.
4.2 Il motivo è fondato.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che il danno alla salute, temporaneo o permanente, in assenza di criteri legali va liquidato in base alle cosiddette “tabelle” diffuse del Tribunale di Milano, le quali costituiscono parametro di conformità della valutazione equitativa prevista dall’art. 1226 cod. civ.. Pertanto, il giudice che intende discostarsene ha l’onere di rilevare, accertare ed esporre in motivazione le specificità del caso concreto, tali da consigliare o imporre lo scostamento dai valori standard (da ultimo, Sez. 3, Sentenza n. 9950 del 20/04/2017, Rv. 643854). Altrimenti, l’omessa o erronea applicazione delle menzionate tabelle può essere fatta valere, in sede di legittimità, come violazione dell’art. 1226 cod. civ. (fra le più recenti: Sez. 3, Sentenza n. 27562 del 21/11/2017, Rv. 646644; Sez. 3, Sentenza n. 12397 del 16/06/2016, Rv. 640331).
Nel caso in esame, la corte d’appello ha proceduto ad una liquidazione del danno in misura inferiore a quella che sarebbe risultata dall’applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano, senza tuttavia indicare la presenza di circostanze specifiche che giustificassero tale scostamento.
Pertanto, la decisione impugnata deve essere cassata sul punto della liquidazione dell’indennità giornaliera del danno non patrimoniale da invalidità biologica temporanea. Il giudice del rinvio dovrà conformarsi ai principi sopra enucleati, facendo corretta applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano ovvero esplicitando le ragioni per le quali ritiene di discostarsi dalle stesse.
5. Con il quinto motivo si deduce la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., consistita nell’omessa pronuncia sulla domanda di autonomo risarcimento del danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica temporanea, sia totale che parziale.
La corte d’appello, dopo aver liquidato in danno patrimoniale per riduzione della capacità lavorativa in Euro 60.000 (importo, però, che dovrà essere rivisto nel giudizio di rinvio, perchè oggetto della cassazione disposta in accoglimento del secondo motivo), aggiunge che “vanno respinte le ulteriori domande di parte appellante, perchè dirette alla duplicazione di voci di danno già liquidate in dispositivo”.
Sostiene la ricorrente che l’inabilità temporanea è una voce di danno patrimoniale diversa, pure se complementare, rispetto all’inabilità permanente. Pertanto la sua liquidazione non avrebbe dato luogo ad alcuna duplicazione.
Il motivo è infondato.
Infatti, la corte d’appello ha chiaramente inteso liquidare unitariamente il danno da riduzione della capacità lavorativa – sul quale si sofferma a pag. 11 e 12 – senza distinguere fra inabilità permanente e inabilità temporanea.
In sostanza, ciò che rileva ai fini della decisione non è l’astratta possibilità di differenziare fra due voci, sottolineata dalla ricorrente, bensì la scelta dei giudici di merito di procedere ad una liquidazione omnicomprensiva; opzione quest’ultima certamente legittima e non preclusa dalla possibilità di tenere concettualmente distinte le due voci di danno.
6.1 Con il sesto motivo di ricorso si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 329 cod. proc. civ., comma 2, nonchè subordinatamente la nullità della sentenza, a causa della errata scelta della percentuale di invalidità biologica permanente da tenere in conto ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale.
La P., nel proporre appello, non ha impugnato il capo della sentenza di primo grado che stabiliva nella misura del 35% la percentuale d’invalidità biologica permanente, asseritamente allo scopo di non indurre controparte ad appellare in via incidentale sul punto. Tuttavia, nel corso del giudizio d’appello è stata disposta una nuova consulenza tecnica d’ufficio e in esito alla stessa la percentuale d’invalidità permanente è stata quantificata nella misura del 45%.
A questo punto, con il motivo in esame la ricorrente pone la questione se la quiescenza prestata al capo della sentenza di primo grado relativo alla misura percentuale dell’invalidità permanente abbia perso efficacia in seguito alla proposizione dell’appello incidentale tardivo di controparte.
Nell’ambito del medesimo motivo, la ricorrente prospetta la illegittimità costituzionale dell’art. 329 cod. proc. civ., nella parte in cui non stabilisce l’inefficacia della quiescenza dell’appellante principale su una parte della sentenza impugnata dall’appellante incidentale, sostenendo che tale previsione si pone in contrasto con i principi del giusto processo perchè favorirebbe il contenzioso temerario.
6.2 Va esaminata anzitutto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 329 cod. proc. civ., che risulta manifestamente infondata.
L’unico principio costituzionale con il quale, a parere della ricorrente, la norma procedurale si porrebbe in contrasto è quello posto dall’art. 111 Cost., in tema di giusto processo. Ciò in quanto la norma, così com’è scritta, favorirebbe la proposizione di impugnazioni pretestuose.
In altri termini, ciò che la P. sembra voler dire è che, se l’appellante parzialmente soccombente in primo grado sapesse che, impugnando la sentenza nelle parti a lui sfavorevole, rimette in gioco l’intera decisione, anche nelle parti a lui favorevoli, sarebbe indotto a una più prudente condotta processuale, confacente – per l’appunto – ai princìpi del giusto processo.
Questa ricostruzione è evidentemente erronea in punto di diritto, in quanto l’art. 334 cod. proc. civ. già consente le impugnazioni incidentali tardive e la giurisprudenza di legittimità afferma il principio secondo cui l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile, a tutela della reale utilità della parte, ove l’impugnazione principale metta in discussione l’assetto d’interessi derivante dalla sentenza cui la parte non impugnante aveva prestato acquiescenza,atteso che l’interesse ad impugnare sorge dall’eventualità che l’accoglimento dell’impugnazione principale modifichi tale assetto giuridico (Sez. 2, Ordinanza n. 1879 del 25/01/2018, Rv. 647086).
Posta nei termini innanzi descritti, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 329 cod. proc. civ. manifestamente infondata.
In realtà, la ricorrente sembra adombrare anche un altro problema, ossia se all’appellante principale che abbia impugnato solamente alcuni capi della sentenza sia consentito, a seguito della proposizione di un appello incidentale, appellare in via incidentale tardiva altri capi della sentenza diversi da quelli appellati dallo stesso in via principale. Ciò in quanto, ove ciò non fosse consentito si avrebbe la lesione dei principi costituzionali del giusto processo e della parità nell’esercizio del diritto di difesa dell’appellante e dell’appellato.
Ma una simile questione di legittimità costituzionale, che peraltro concernerebbe anche l’art. 334 cod. proc. civ. e non solo l’art. 329 cod. proc. civ., è irrilevante, nel presente giudizio, in quanto la P. appellante principale – non ha proposto alcun appello incidentale tardivo conseguente all’appello incidentale proposto dalla Azienda Ospedaliera, rispetto al quale possa porsi un problema di ammissibilità.
6.3 Quest’ultima considerazione conduce altresì al rigetto del motivo. Infatti, è pacifico che la P. non ha mai impugnato – neppure tardivamente – il capo della sentenza di primo grado che fissava nella misura del 35% la misura dell’invalidità permanente. Pertanto, ha correttamente operato la corte d’appello che, pur in presenza di una consulenza d’ufficio che accertava una misura percentuale più alta di ben dieci punti, non ha rivisto la statuizione contenuta nella sentenza di primo grado e non appellata.
7. Con il settimo motivo, strettamente connesso a quello precedente, si deduce la violazione o falsa applicazione del principio di acquisizione della prova (art. 245 cod. proc. civ., comma 2) e di non contestazione (art. 115 cod. proc. civ.) e la nullità della sentenza in relazione alla violazione di tali norme processuali. Ciò in quanto la sentenza impugnata assume a base di calcolo del danno non patrimoniale la percentuale di invalidità biologica permanente del 35% accertata dal consulente d’ufficio del primo grado, anzichè quella del 45% ritenuta in esito alla consulenza tecnica d’ufficio collegiale disposta in appello, nonostante controparte non avesse sollevato obiezioni in sede di consulenza nè al momento della formulazione dei quesiti (tra i quali era compreso quello relativo alla verifica della percentuale di invalidità permanente).
Il motivo è manifestamente infondato, quale conseguenza dell’infondatezza del motivo precedente. Poichè il capo della sentenza di primo grado che stabiliva nella misura del 35% l’invalidità permanente non è stato impugnato, lo stesso non poteva essere rimesso in discussione in grado d’appello, restando del tutto irrilevante la mancanza di obiezioni della controparte all’operato c.t.u..
8. Con l’ottavo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 1226 cod. civ., e la violazione o falsa applicazione delle norme citate, consistente nella omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno emergente costituito dalle spese di assistenza, cura e riabilitazione non documentate.
Il tribunale ha rigettato la domanda di risarcimento di spese non documentate e la P. ha specificatamente appellato questo capo della sentenza. La corte d’appello, pronunciando sul danno patrimoniale, con la formula di chiusura già innanzi menzionata, ha respinto tutte le ulteriori domande perchè dirette alla duplicazione di danni già liquidati in dispositivo.
La ricorrente osserva che il danno emergente per spese mediche riabilitative non è assimilabile ad alcuna delle altre voci di danno liquidate in sentenza, sicchè la decisione impugnata deve essere cassata per omessa pronuncia ovvero per carenza assoluta di motivazione.
Il motivo è manifestamente infondato.
La corte d’appello senz’altro ha respinto la domanda, liquidando il danno patrimoniale nei limiti di cui si è detto.
A fronte di tale rigetto, poco conta il fatto ode il danno emergente per cure mediche debba essere tenuto distinto da quello per perdita di capacità reddituale. Al più, la decisione impugnata si sarebbe potuta esporre al rilievo di contenere una motivazione meramente apparente, nei ristretti limiti in cui è oggi possibile – a seguito della riforma dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5 – dedurre il vizio di motivazione. Ma la ricorrente formula una censura di tutt’altro tenore, che non è idonea a scalfire il rigetto della sua domanda.
In altri termini, ciò che rileva ai fini della decisione non è differenza che intercorre fra il danno (patrimoniale) per perdita di capacità retributiva e quello emergente per le cure mediche, bensì il fatto che comunque sia – quest’ultima domanda, non documentata, è stata rigettata. Nel limitato accoglimento del danno patrimoniale, c’è il rigetto implicito delle spese mediche non documentate.
9. Con il nono motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. e la violazione o falsa applicazione delle norme citate. La questione concerne la liquidazione delle spese processuali, con particolare riferimento alla decisione di compensare parzialmente le spese legali, porre a carico dell’Azienda ospedaliera “S. Maria” di Terni le spese della consulenza tecnica d’ufficio e lasciare a carico di ciascuna delle parti le spese dei rispettivi peritì. La ricorrente sostiene che il giudice non avrebbe potuto applicare contemporaneamente, in relazione alle distinte voci, il criterio della soccombenza totale (per i costi di consulenza di parte rimasti a carico dell’appellante), quello della soccombenza reciproca con conseguente compensazione (per le spese processuali) e quello della vittoria totale (per le spese della consulenza d’ufficio). Si sostiene, al contrario, che la liquidazione di tutte le voci delle spese processuali debba attenersi ad un criterio logico unitario.
Il motivo è manifestamente fondato.
Infatti, nel regolare le spese processuali fra le parti il giudice deve scegliere, nell’ambito dei poteri conferitigli dagli artt. 91 cod. proc. civ. e ss., un criterio unico, tanto che sia quello della vittoria e della soccombenza,quanto quello della compensazione per soccombenza reciproca.
Nè era possibile lasciare le spese sostenute per la consulenza tecnica di parte a carico di chi le aveva sostenute, giacchè la consulenza di parte ha natura di allegazione difensiva tecnica e quindi rientra tra quelle il cui costo la parte vittoriosa ha diritto di vedersi rimborsato, a meno che il giudice non si avvalga, ai sensi dell’art. 92 cod. proc. civ., comma 1, della facoltà di escluderle dalla ripetizione, ritenendole eccessive o superflue (Sez. 2, Sentenza n. 84 del 03/01/2013, Rv. 624396).
Nella specie, la decisione della corte d’appello non si regge su alcuna valutazione di eccessività o superfluità. Il capo della sentenza che non ha applicato alle spese per la consulenza di parte il criterio della soccombenza o della compensazione parziale, lascandole a carico di chi le ha sostenute, deve essere quindi cassato con rinvio.
10. Con il decimo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, contenente le norme in materia di liquidazione degli onorari degli avvocati, in quanto il giudice d’appello ha liquidato, a titolo di compensi professionali, l’importo di Euro 9.106, laddove i compensi previsti dal decreto ministeriale sono pari, nel minimo, ad Euro 14.175 (considerando che, dopo la precisazione delle conclusioni, la causa era stata rimessa sul ruolo per la rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio, con conseguente nuova precisazione delle conclusioni ed ulteriore deposito di memorie finali; senza considerare la seconda fase decisionale, in ogni caso il minimo di legge sarebbe pari ad Euro 10.700).
Il motivo è fondato.
La ricorrente ha correttamente indicato il valore della controversia rilevante ai fini dello scaglione tariffario applicabile, mentre la corte d’appello ha liquidato le spese legali sotto il minimo, peraltro senza dare alcuna contezza dei criteri di calcolo adottati o delle ragioni per le quali è pervenuta a tale liquidazione.
11.1 Prima di esaminare il ricorso incidentale proposto dall’Azienda ospedaliera “S. Maria” di Terni, occorre affrontare preliminarmente le eccezioni di inammissibilità formulate in pubblica udienza dalla difesa della P..
11.2 La ricorrente deduce, anzitutto, che il controricorso con ricorso incidentale non contiene l’indicazione dell’anno e del numero di ruolo della causa, in violazione di quanto disposto, a pena di nullità, dalla L. 21 gennaio 1994, n. 53, artt. 3-bis e 11.
In effetti, il citato art. 3-bis, in tema di notifiche telematiche, dispone che “per le notificazioni effettuate in corso di procedimento deve, inoltre, essere indicato l’ufficio giudiziario, la sezione, il numero e l’anno di ruolo”; e il successivo art. 11 prevede la nullità delle notificazioni che manchino dei requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla stessa legge o se non sono osservate le disposizioni ivi contenute.
Tuttavia, anche i vizi di validità previsti dalla L. n. 53 del 1994, art. 11 sono soggetti al principio generale di sanatoria per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ., comma 3. Poichè lo scopo dell’indicazione degli estremi dell’iscrizione a ruolo serve a ricondurre con certezza l’atto notificato per via telematica ad un preciso giudizio pendente, l’inserimento nell’atto medesimo, in alternativa al numero di ruolo, di elementi altrettanto certi di identificazione del giudizio, quali- nel caso del controricorso o del ricorso incidentale per cassazione – gli estremi della sentenza impugnata, assolve alla medesima funzione e consente di affermare l’avvenuto raggiungimento dello scopo.
Va quindi affermato il seguente principio di diritto:
“L’onere di indicare nell’atto notificato per via telematica in corso di procedimento l’ufficio giudiziario, la sezione, il numero e l’anno di ruolo della causa, previsto a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio, dalla L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 3-bis, comma 6, e art. 11, assolve al fine di consentire l’univoca individuazione del processo al quale si riferisce la notificazione. Consegue che, ove l’atto contenga elementi altrettanto univoci, quali – nel caso del controricorso o del ricorso incidentale per cassazione – gli estremi della sentenza impugnata, la notificazione non potrà essere dichiarata nulla, ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ., comma 3, , avendo comunque raggiunto il suo scopo”.
In applicazione di tale principio, l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale deve essere rigettata.
11.3 La P. deduce, inoltre, che nell’attestazione di conformità contenuta in atto separato (relata di notifica) manca l’indicazione della “impronta” digitale, richiesta dall’art. 4, comma 3, del D.P.C.M. 13 novembre 2014, nella versione applicabile ratione temporis.
Anche tale eccezione è infondata.
In disparte la questione dell’ammissibilità di prescrizioni a pena di nullità contenute, anzichè nella legge, in normative di rango secondario, risulta assorbente la circostanza che – per costante giurisprudenza di questa Corte – gli unici vizi di sottoscrizione rilevanti sono quelli che concernono la copia originale del ricorso o del controricorso per cassazione depositati in cancelleria, restando invece irrilevanti quelli attinenti le copie notificate alle controparti. Poichè, da un lato, la questione della c.d. “impronta” attiene l’autenticità della sottoscrizione digitale e della provenienza dell’atto notificato per via telematica, mentre nel giudizio per cassazione l’originale che deve essere depositato in cancelleria è in formato cartaceo (o analogico), eventuali vizi nella sottoscrizione digitale della copia del controricorso notificata al ricorrente a mezzo PEC non determinano la nullità dell’atto.
12. E’ possibile ora procedere all’esame del ricorso incidentale.
Con il primo motivo l’Azienda ospedaliera deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.; ciò in quanto la corte d’appello avrebbe omesso di esaminare il terzo motivo di impugnazione incidentale, concernente l’individuazione delle conseguenze dell’errore imputato alla Azienda, cioè le sue conseguenze in termini quantitativi e percentuali.
Il motivo è infondato.
Infatti, al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente incidentale, la corte di merito ha correttamente individuato gli specifici profili di responsabilità addebitabili ai sanitari – e, di conseguenza, all’Azienda ospedaliera – sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio. In particolar modo, è stata rimarcata la mancata attuazione della profilassi cardioembolica quale precisa causa eziologica del danno alla salute concretamente verificatosi, sottolineandosi altresì come tale profilassi fosse già prevista dai protocolli terapeutici dell’epoca.
13. Con il secondo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2049 cod. civ. Osserva l’Azienda ricorrente incidentale che tanto la consulenza tecnica d’ufficio, quanto la sentenza impugnata danno atto della circostanza che l’ictus subito dalla P. non era una conseguenza necessaria della mancata somministrazione dei farmaci anticoagulanti, ma un evento che si sarebbe potuto comunque verificare, sicchè la responsabilità dell’ospedale sarebbe stata non di aver cagionato l’evento, bensì di non averne diminuito le probabilità di verificazione. In relazione a un nesso causale caratterizzato da un dato statistico di possibilità o probabilità dell’evento, l’azienda ospedaliera sostiene che la quantificazione del danno dovesse essere operata sulla base della percentuale statistica (analogamente a come avviene per il danno da perdita di chance), sicchè il criterio di quantificazione del risarcimento dovuto dovrebbe essere riformato.
Il motivo, al di là della sua infondatezza nel merito, è inammissibile per carenza dei requisiti di cui all’art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 6. Non risulta, infatti, che la questione sia stata sottoposta al giudice d’appello, il quale non ne fa alcuna menzione in sentenza. Pertanto, l’Azienda ospedaliera avrebbe dovuto, semmai, assicurare l’autosufficienza del ricorso mediante l’indicazione del motivo di appello con cui la questione veniva prospettata in secondo grado; dopodichè censurare la sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per difetto di corrispondenza fra chiesto e pronunciato.
14.1 Con il terzo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043, 2049 e 2697 cod. civ. perchè la corte d’appello, liquidando separatamente le limitazioni che si accompagnano alle conseguenze di un ictus, avrebbe duplicato una voce del risarcimento, poichè tali limitazioni sono le stesse che hanno consentito di attribuire alla danneggiata un’inabilità permanente del 35%. Qualora invece per “gravi ripercussioni sulla vita di relazione nelle attività quotidiane” la corte d’appello avesse inteso far riferimento a ricadute nella vita della P. speciali e diverse da quelle che chiunque, in quella stessa situazione, avrebbe subito, la sentenza andrebbe censurata per violazione dell’onere della prova, essendo pacifico che l’attrice non abbia fornito alcuna prova sul punto.
14.2 I1 motivo è infondato.
La corte d’appello ha, in realtà, espressamente escluso l’autonoma risarcibilità del danno morale e del danno esistenziale, ritenendo tali voci comprese nella liquidazione unitaria del danno non patrimoniale e, segnatamente, che esse rientrino “nell’ambito del criterio della personalizzazione del danno biologico” (pag. 11 della sentenza impugnata). Il danno biologico è stato personalizzato riconoscendo alla P. una maggiorazione del 25% rispetto alle risultanze delle tabelle del Tribunale di Milano, “in considerazione delle gravi ripercussioni nella vita di relazione e nelle occupazioni quotidiane che la grave menomazione ha avuto” (pag. 10).
Pertanto, la corte di merito si è correttamente attenuta ai principi della liquidazione omnicomprensiva del danno non patrimoniale, personalizzandolo in considerazione della particolare incidenza del danno alla salute sulle occupazioni quotidiane e sulla vita di relazione, senza operare alcuna duplicazione delle voci di danno. La misura di tale personalizzazione è riservata all’apprezzamento del giudice di merito e non è censurabile in questa sede. In ogni caso, la censura proposta è di diverso tenore.
15.1 Con il quarto motivo di ricorso incidentale si deduce, infine, censura riguarda l’omesso esame di un fatto decisivo. La l’affermazione, contenuta nella sentenza d’appello, relativa all’opportunità e possibilità di acquisire il consenso informato della paziente prima di eseguire l’esame diagnostico. A tale conclusione, parere dell’Azienda ospedaliera, la corte d’appello sarebbe giunta senza esaminare, anzi totalmente ignorando, che il collegio dei consulenti tecnici d’ufficio aveva concluso che l’esecuzione della SATE ha bisogno della collaborazione del paziente, sicchè non era possibile che l’effettuazione dell’esame non fosse stata preceduta dalla descrizione dello stesso.
15.2 Va premesso che l’interesse al motivo in esame sorge dall’accoglimento del primo motivo del ricorso principale. Infatti, la corte d’appello non aveva fatto discendere alcuna conseguenza negativa per l’Azienda ospedaliera dalla mancata acquisizione del consenso informato della paziente. Sicchè, se la sentenza impugnata non fosse stata cassata sul punto (v. par. l), l’Azienda non avrebbe avuto alcun interesse a coltivare il motivo.
15.3 Tanto chiarito, anche questa censura è infondata.
Infatti, la descrizione dell’esame in occasione della sua esecuzione e al solo fine di richiedere, nell’espletamento del trattamento sanitario, la necessaria collaborazione nel paziente non equivale all’acquisizione del suo consenso informato. Questo è finalizzato a tutelare il diritto all’autodeterminazione nei trattamenti sanitari e quindi, per essere valido, deve essere acquisito con modalità tali da lasciare al paziente il tempo e il modo di rifiutare la prestazione medica. In atti non risulta che il consenso della paziente sia stato acquisito nelle forme corrette; al contrario, i giudici di merito, con accertamento a loro riservato, hanno escluso che alla P. fosse mai stato richiesto il consenso al trattamento sanitario.
Tale accertamento sarebbe stato sindacabile in sede di legittimità solo ove fosse stato dimostrato l’omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5. Ma il dato evidenziato dall’Azienda ospedaliera non ha queste caratteristiche, difettando anzitutto il carattere della decisività, proprio perchè la collaborazione richiesta alla paziente in sede di effettuazione dell’esame diagnostico non necessariamente equivale alla previa acquisizione del preventivo consenso libero ed informato della stessa.
16. In conclusione, il ricorso principale deve essere accolto, limitatamente al primo, al secondo, al quarto, al nono e al decimo motivo. Il terzo motivo deve ritenersi assorbito nel secondo. Gli altri vanno rigettati.
La sentenza deve essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di appello di Perugia, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
17. Il ricorso incidentale deve essere integralmente rigettato. Sulle spese anche del ricorso incidentale provvederà il giudice del rinvio.
Ricorrendone i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, l’Azienda ospedaliera “S. Maria” di Terni deve essere condannata al versamento di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione da lei proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).
18. Deve rilevarsi, inoltre, che la motivazione della sentenza impugnata è erronea, in punto di diritto, nella parte in cui estende il principio di omnicomprensività del danno non patrimoniale – affermato da Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605495 -anche al danno morale. Questa Corte, infatti, ha invece ripetutamente affermato che, al di fuori dell’ambito applicativo delle lesioni c.d. micro permanenti di cui al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 139, il danno morale costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico (i.e., dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali), con la conseguenza che esso va risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria (Sez. 3, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303; Sez. 3, Sentenza n. 901 del 17/01/2018, Rv. 647125; Sez. 3, Sentenza n. 11851 del 09/06/2015, Rv. 635701; Sez. 3, Sentenza n. 7766 del 20/04/2016, Rv. 639582; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16041 del 26/06/2013, Rv. 626845).
Pertanto, in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, se costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno c.d. esistenziale o da relazione, deve essere invece autonomamente valutata la sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute (c.d. danno morale), come confermato dalla nuova formulazione del D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 138, comma 2, lett. e), nel testo modificato dalla L. n. 124 del 2017 (Sez. 3, Sentenza n. 901 del 17/01/2018, Rv. 647125).
In concreto, tuttavia, il capo della sentenza non è stato impugnato e quindi, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, occorre procedere alla sola correzione della motivazione nei termini sopra indicati.
P.Q.M.
accoglie il primo, il secondo (assorbito il terzo), il quarto, il nono e il decimo motivo del ricorso principale, che rigetta nel resto. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi aggiunti e rinvia alla Corte di appello di Perugia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Dichiara manifestamente infondata e irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 329 cod. proc. civ..
Rigetta il ricorso incidentale.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2018