L’istante, dopo aver valorizzato la centralità del consenso dell’interessato in relazione alla somministrazione dei trattamenti sanitari, chiedeva che l’incarico all’amministratore di sostegno fosse destinato ad operare con la perdita della propria capacità determinativa, nel caso il richiedente venisse a risultare affetto da una “da malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile gravemente invalidante o malattia che costringa a trattamenti invasivi e permanenti con macchina o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione”.

Quanto al contenuto dell’incarico, veniva indicato nei seguenti termini (e sempre che l’interessato non abbia manifestato una volontà contraria, revocando le disposizioni “con qualsivoglia modalità e rendendone edotto l’amministratore di sostegno”): a) negazione del consenso ai sanitari coinvolti a praticare rianimazione cardiopolmonare, dialisi, ventilazione e alimentazione forzata e artificiale; b) richiesta ai sanitari di apprestare con la maggiore tempestività possibile e con le anticipazioni consentite le cure palliative più efficaci al fine di annullare ogni sofferenza, compreso l’uso di farmaci oppiacei, anche se questi dovessero anticipare la fine della vita del beneficiario.

Il Tribunale, rigettando il ricorso, ha affermato che , una forzatura esegetica della disciplina che giungesse a ritenere possibile anticipare l’emanazione del decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, i cui effetti tuttavia si produrrebbero successivamente, nel caso di sopravvenuta incapacità di autodeterminazione del beneficiario, potrebbe giustificarsi soltanto in presenza di un’esigenza di protezione insuscettibile di qualunque dilazione.

In concreto, la manifestazione di una volontà espressa potrà rendere più agevole la ricostruzione degli intendimenti dell’incapace, ma in ogni caso la scelta dovrà passare attraverso la decisione del rappresentante legale e soprattutto attraverso il controllo di legittimità di tale scelta da parte del giudice .

Un  siffatto controllo – che pure non può prescindere dalla volontà espressa dalla persona prima di perdere la propria capacità di autodeterminarsi – non può che essere riferito all’attualità.

Se così è, l’incarico assegnato all’amministratore di sostegno prima del sopravvenire dell’incapacità, comunque non eliminerebbe la necessità del controllo giurisdizionale nel momento in cui l’incapacità dovesse sopravvenire. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net

Tribunale di Pistoia, Sent. del 08.06.2009

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

L’istante, dopo aver valorizzato la centralità del consenso dell’interessato in relazione alla somministrazione dei trattamenti sanitari, ha, in particolare, richiesto che l’incarico sia destinato ad operare con la perdita della propria capacità determinativa, nel caso ella dovesse risultare affetta “da malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile gravemente invalidante o malattia che costringa a trattamenti invasivi e permanenti con macchina o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione”.

Quanto al contenuto dell’incarico, esso è stato indicato nei seguenti termini (e sempre che l’interessato non abbia manifestato una volontà contraria, revocando le disposizioni “con qualsivoglia modalità e rendendone edotto l’amministratore di sostegno”): a) negazione del consenso ai sanitari coinvolti a praticare rianimazione cardiopolmonare, dialisi, ventilazione e alimentazione forzata e artificiale; b) richiesta ai sanitari di apprestare con la maggiore tempestività possibile e con le anticipazioni consentite le cure palliative più efficaci al fine di annullare ogni sofferenza, compreso l’uso di farmaci oppiacei, anche se questi dovessero anticipare la fine della vita del beneficiario.

Ad avviso del giudicante, la richiesta non può trovare accoglimento e ciò sia alla stregua di considerazioni sistematiche tratte dalla disciplina dell’amministrazione di sostegno, sia in relazione alle caratteristiche del diritto che viene invocato.

Dal primo punto di vista, deve considerarsi che, ai sensi dell’art. 404 c.c., la persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio.

La norma richiede dunque l’attualità del requisito rappresentato dall’impossibilità del beneficiario di provvedere ai propri interessi.

Si potrebbe obiettare che è configurabile una scissione tra l’emanazione del provvedimento e la sua efficacia, come dimostrano le ipotesi di cui all’art. 405, commi 2 e 3.

Ma l’obiezione non coglie nel segno, poiché tali previsioni non attengono a casi di futura incapacità, ma mirano, quando il beneficiario sia un minore, un interdetto o un inabilitato, ossia quando operino attualmente istituti protettivi dello stesso, sul presupposto della sua incapacità di autodeterminarsi, a precostituire un diverso strumento di protezione destinato a produrre i suoi effetti senza soluzione di continuità rispetto al venire meno degli istituti stessi (per effetto del raggiungimento della maggiore età o a seguito della pubblicazione della sentenza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione).

Conferma di tale ricostruzione del quadro normativo si trae dal fatto che, per il caso di eventuale futura incapacità, l’art. 408, comma 2 c.c. prevede il diverso rimedio della designazione di un amministratore di sostegno, che il giudice tutelare prenderà in considerazione nel momento in cui si realizzeranno i presupposti di cui all’art. 404 c.c. e non prima.

In senso contrario, non può valorizzarsi l’art. 406, comma 1 c.c., a mente del quale il ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno può essere proposto dallo stesso soggetto beneficiario, anche se minore, interdetto o inabilitato.

L’istituto dell’amministrazione di sostegno, infatti, è destinato a proteggere la persona che si trovi nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi per effetto di qualunque infermità o menomazione fisica o psichica. Ne discende che l’esigenza di tutela può anche non scaturire dalle infermità mentali che rendono il soggetto in tutto o in parte incapace di intendere e di volere. In questo senso, il ricorso può essere presentato dallo stesso interessato, il quale, pur essendo capace di intendere e volere, desideri, in relazione alla propria attuale infermità fisica (si pensi alla cecità) assicurarsi una forma di protezione posta sotto la vigilanza dell’autorità giudiziaria.

La norma quindi amplia la platea dei legittimati, estendendola anche ai soggetti privi in tutto o in parte della capacità d’agire (appunto, i minori, gli interdetti e gli inabilitati), senza incrinare l’esigenza dell’attualità del bisogno protettivo.

In tale contesto normativo, una forzatura esegetica della disciplina che giungesse a ritenere possibile anticipare l’emanazione del decreto di nomina, i cui effetti tuttavia si produrrebbero successivamente, nel caso di sopravvenuta incapacità di autodeterminazione del beneficiario, potrebbe giustificarsi soltanto in presenza di un’esigenza di protezione insuscettibile di qualunque dilazione.

A fronte di valori costituzionalmente protetti e potenzialmente esposti ad un pregiudizio irreparabile, l’interprete ha infatti il dovere di scandagliare tutte le possibilità applicative della disciplina, al fine di trarne un’interpretazione coerente con tali valori.

Ora, pur muovendo dalla condivisibile ricostruzione operata dalla S.C. in relazione alla natura di trattamento sanitario dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale e, in generale, alla necessità del consenso della persona al fine della sua sottoposizione a qualunque trattamento sanitario (Cass. 21748/2007), deve rilevarsi che la nomina anticipata dell’amministrazione di sostegno è tutt’altro che idonea a realizzare lo scopo prefigurato.

Va ribadito, al riguardo, che non è qui in discussione il principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sè, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive (Cass. 21748/2007 cit.). Così come non è in discussione l’ulteriore conclusione raggiunta dalla Cass. appena citata, secondo cui il rifiuto delle terapie medicochirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale.

Piuttosto, si tratta di considerare che, anche in relazione alla persona capace, sussiste il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale.

In relazione alle persone incapaci nel momento in cui si pone il problema della sottoposizione al trattamento sanitario, Cass. 21748/2007 sembra contrapporre, nel punto 7 della motivazione, il caso dell’incapace che abbia espresso dichiarazioni di volontà anticipate, dal caso in cui l’incapace non assunto una specifica posizione prima di perdere la capacità di manifestare la propria volontà.

Ma questa contrapposizione appare solo il frutto di una non rilevanza della questione nel caso concreto, dal momento che la persona di cui si trattava non aveva specificamente manifestato consensi o dissensi rispetto ai trattamenti sanitari.

In effetti, come nel punto 7.5 della motivazione della Cass. cit., si riconosce in modo inequivoco, All’individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l’inaccettabilità per sè dell’idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l’ordinamento da la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale.

Dunque, dal punto di vista degli strumenti di tutela dell’incapace, non si registra, in linea di principio, una differenziazione, secondo che egli abbia espresso le proprie scelte in modo espresso o attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento.

In concreto, la manifestazione di una volontà espressa renderà più agevole la ricostruzione degli intendimenti dell’incapace, ma in ogni caso la scelta dovrà passare attraverso la decisione del rappresentante legale e soprattutto attraverso il controllo di legittimità di tale scelta da parte del giudice (punto 8 della motivazione della Cass. cit.

Ma siffatto controllo – che pure, si ripete, non può prescindere dalla volontà espressa dalla persona prima di perdere la propria capacità di autodeterminarsi – non può che essere riferito all’attualità.

Del resto, la S.C. è chiarissima – e tale soluzione de jure condito appare l’unica condivisibile al giudicante – nell’affermare che la decisione del giudice, dato il coinvolgimento nella vicenda del diritto alla vita come bene supremo, può essere nel senso dell’autorizzazione soltanto (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benchè minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.

Ora, quanto al punto a), ossia quanto al carattere irreversibile della condizione di stato vegetativo, essa è rimessa agli standard scientifici, che non sono immutabili nel tempo, per cui, come il rifiuto del capace deve essere attuale, così il rifiuto espresso con l’incapace (punto 7.3 della motivazione della Cass. cit.) deve essere vagliato alla stregua delle conoscenze esistenti nel momento in cui il problema si pone.

Se così è, l’incarico assegnato all’amministratore di sostegno prima del sopravvenire dell’incapacità, comunque non eliminerebbe la necessità del controllo giurisdizionale nel momento in cui l’incapacità dovesse sopravvenire.

E ciò in generale e non solo nel caso in cui il nominato amministratore dovesse dissentire dalle indicazioni del beneficiario, ai sensi dell’art. 410, comma 2, c.c.

Il che dimostra che la nomina anticipata non elimina affatto i problemi legati al tempo occorrente per assumere una decisione e che l’esigenza di una protezione immediata dovrà essere fronteggiata con i provvedimenti urgenti e la nomina di un amministratore anche provvisorio, previsti dall’art. 405, comma 4 c.c.

P.Q.M.

rigetta la richiesta.

Pistoia, 8 giugno 2009