Già il 27 febbraio scorso il Portale aveva dato ampio spazio alle critiche sollevate dagli esperti giuslavoristi in ordine alla cosiddetta “Legge anti Articolo 18” dello Statuto dei Lavoratori di cui al DDL n°1167-B. Ora la norma è allo studio del Quirinale. Di certo, l’introduzione dell’arbitrato in materia garantisce il lavoratore meno della magistratura del lavoro.
In una clima di grave crisi dell’occupazione l’aspirante lavoratore, all’atto dell’assunzione, si indurrà ad accettare a scatola chiusa la clausola arbitrale e, poi, il giudice potrà fare ben poco; si dovrà limitare ad un mero controllo formale sul presupposto di legittimità delle clausole generali e del provvedimento in concreto adottato dal datore di lavoro.
Siffatta, marcata riduzione dell’area di operatività della magistratura balzerà agli occhi del Presidente della Repubblica che ben difficilmente potrà promulgare la legge così com’è stata concepita. E, dunque, la previsione è che non la firmerà.
Va ricordato, nel paradossale clima di polemica politica e mediatica che segue ad ogni forma di esercizio del potere imparziale del Quirinale, costretto di recente addirittura ad avventurarsi sul web per instaurare un filo diretto con i cittadini non mediato dalle opposte “tifoserie”, che nell’architettura della democrazia repubblicana del sistema italiano il Capo dello Stato non è una sorta di Corte Costituzionale preventiva, altrimenti il vaglio avrebbe una durata in disarmonia con i tempi della legislazione, ma ben può rinviare alle Camere per una nuova deliberazione anche leggi che non presentino vizi palesi d’incostituzionalità. V’è, quindi, da aspettarsi che il Presidente della Repubblica nel caso in disamina esprima un messaggio motivato alle Camere senza controfirmare il provvedimento.
Di certo, se l’arbitrato guarda meno del processo del lavoro alle leggi ed ai diritti dei lavoratori, dal momento che ben può ispirarsi ad una regolamentazione più libera, la sensibilità istituzionale di Giorgio Napolitano potrebbe anche ravvisare una limitazione sotto il profilo dell’Art. 24 della Costituzione che, notoriamente, sancisce che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti. Ma la soluzione qui delineata non equivarrebbe alla creazione di un attrito tra i Palazzi del Potere: più le problematiche sul tappeto sono profonde e complesse e maggiore è la probabilità di contrastanti opinioni (dissenting opinion di cui si parla perfino nel giudizio costituzionale ed il caso del Lodo Alfano ne è un’anticipazione); in varie Nazioni nelle quali coabitano un Capo di Stato ed un Capo di Governo analoghi al nostro sistema i contrasti anche aspri si stemperano nel gioco democratico.
Del resto, anche da noi un anno fa si verificò il mesto epilogo della vicenda di Eluana (e di Beppino) Englaro che comportava una scelta ardua su questioni delicatissime di bioetica e vide, sul tema di un apposito decreto, la contrapposizione tra Governo e Presidente della Repubblica, ruvida sulle prime, poi rientrata nella routine istituzionale.
Ma la claque non è proficua per i sistemi democratici e soprattutto non vi si addice. Sul cosiddetto “decreto salvaliste” il Quirinale controfirmando il decreto legge si è esposto alle raffiche di una parte ottenendo la viva approvazione dell’altra: agevole presumere che nessuna delle due circostanze l’abbia particolarmente rallegrato. Poi, ogni Presidente ha il suo stile nell’esercizio del potere di intervento per far quadrare il cerchio sistemico. Il nostro Paese deve sforzarsi di mantenere la coesione e la compattezza sulle Istituzioni e sugli Organismi di garanzia, di legalità e di democrazia.