Una struttura ospedaliera e il medico operatore venivano chiamati in giudizio per essere condannati al risarcimento dei danni subiti da una paziente a seguito di un intervento di protesi al ginocchio. Dopo la dimissione la donna aveva ricevuto una copia della cartella clinica di ventiquattro pagine con all’interno atti relativi ad altra paziente e, successivamente, a seguito di rimostranze, le era stata consegnata una seconda copia della cartella clinica, questa volta composta da trentaquattro pagine.
Tribunale di Roma – Sez. XIII; Sent. del 13.07.2011
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato l’attrice ha convenuto innanzi al Tribunale di Roma la società Ro.Am. S.p.A. ed il dr. Fr.Sa. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti per effetto dell’intervento di protesi di ginocchio cui era stata sottoposta nel predetto nosocomio nel corso del ricovero protrattosi dal 14 al 21 aprile 2005.
A sostegno della domanda ha esposto che soffrendo di grave osteoartrite al ginocchio destro, si era ricoverata per essere sottoposta ad intervento di artroprotesi. Dopo la dimissione aveva ricevuto una copia della cartella clinica di ventiquattro pagine e con all’interno atti relativi ad altra paziente e poi a seguito di rimostranze, le era stata consegnata una seconda copia della cartella clinica, questa volta composta da trentaquattro pagine.
Per la riabilitazione si era ricoverata presso Villa Immacolata dal 28 aprile 2005 al 22 giugno 2005 ed il 17 maggio era tornata a visita dal Sa. per il protrarsi della sintomatologia dolorosa. Tra il giugno ed il luglio 2005 era tornata ancora dal Sa. lamentando il dolore e la persistenza di uno stato di tumefazione ed arrossamento del ginocchio, ma il Sa. non aveva rilevato nulla di anormale nel decorso post – operatorio né aveva prescritto la esecuzione di accertamenti,. Nel settembre alcuni accertamenti erano stati prescritti dal suo medico di famiglia e poi, nel febbraio del 2006, si era recata a visita presso l’Istituto Ri. di Bologna dove gli esami effettuati avevano dimostrato la presenza di una grave infezione che aveva determinato la mobilizzazione della protesi con tumefazione del tendine di Achille. Dopo aver effettuato una terapia antibiotica dal 12 aprile 2006, si era sottoposta ad intervento di rimozione della protesi con installazione di uno spaziatore in cemento antibiotato. La prosecuzione della terapia antibiotica aveva determinato la soluzione della infezione accertata con scintigrafia eseguita il 17 luglio 2006. Essendo risultato negativo anche il controllo eseguito l’11 settembre 2006 il 6 ottobre 2006 veniva reimpiantata la protesi.
Ritenendo che la causa dell’infezione dovesse essere individuata nella errata esecuzione dell’intervento di artroprotesi e nella mancata attivazione di una profilassi antibiotica dopo lo stesso, ha introdotto il presente giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Si è costituita in giudizio la società Ro.Am. p.a. deducendo che l’intervento era stato eseguito correttamente sulla attrice che presentava una grave forma di artrosi femoro – rotulea. Subito prima dell’intervento e per alcuni giorni dopo di esso era stata prescritta la somministrazione di due tipi di antibiotico a fini di prevenzione di possibili infezioni connesse con l’intervento.
Il decorso dell’intervento era stato regolare e la paziente era stata afebbrile, né sintomi di infezione erano emersi nel corso dei quasi due mesi in cui l’attrice era rimasta ricoverata presso la clinica per la riabilitazione. Inoltre ha depositato la prova della sterilizzazione degli strumenti prima dell’intervento ed ha dedotto che era stato acquisito il preventivo consenso informato della paziente per la effettuazione dell’intervento. La prima traccia della presenza di un problema al ginocchio risultava da un certificato del medico di famiglia della attrice che indicava la presenza di segni di flogosi e dolore al ginocchio operato. Tale rilievo era datato 28 settembre 2005 ma di tali problemi non vi era traccia nella relazione redatta dal fisioterapista che si occupava della riabilitazione il quale in data 29 novembre 2005 aveva indicato solo la presenza di una limitazione nel movimento di flessione del ginocchio.
Nel febbraio del 2006 era stata rilevata una mobilizzazione settica della protesi, confermata attraverso una scintigrafia. Era stata rimossa la protesi e sostituita da uno spaziatore con antibiotico sostituito, dopo cure antibiotiche ed il conseguente eradicamento dell’infezione accertato attraverso la esecuzione di due scintigrafie con esito negativo, dalla nuova protesi del ginocchio. Nel corso dell’intervento di rimozione della protesi era stato eseguito un esame istologico e sette prelievi per esami colturali del cui esito l’attrice aveva prodotto solo il referto del primo ma non anche quelli degli esami colturali dai quali sarebbe emerso il tipo di batterio alla base della infezione.
Ritenendo che non vi erano elementi per ricondurre all’intervento la infezione la cui presenza era stata rilevata ad una distanza temporale compresa tra i cinque ed i dieci mesi, ha chiesto il rigetto della domanda attrice.
Si è costituito il dr. Sa. chiedendo il rigetto della domanda attrice in quanto l’intervento era stato corretto rispetto alla patologia artrosica da cui era affetta l’attrice ed era stato preceduto dalla acquisizione del consenso della stessa all’intervento che era stato eseguito con le necessarie garanzie di asetticità e con l’utilizzazione della necessaria profilassi delle infezioni. La paziente era stata, poi, dimessa senza che apparissero essere insorte complicanze né nulla era emerso durante il periodo di ricovero presso la struttura per la riabilitazione.
La tardiva insorgenza del fenomeno infettivo non poteva essere ricollegato all’intervento, dovendo lo stesso essere ritenuto conseguenza di altre cause. Ha chiesto l’autorizzazione a chiamare in causa l’Assicurazione che la garantiva per la responsabilità. Si è costituita in giudizio la società Zu. chiedendo il rigetto della domanda della attrice essendo stato corretto l’operato del proprio assicurato ed eccependo la pluralità di polizze assicurative dell’assicurato e della Ro.Am. di guisa che la garanzia prestata doveva valere a secondo rischio. Ha contestato, infine la misura del danno di cui veniva richiesto il risarcimento.
Non si è costituita la società Mi.As. S.p.A. venendo dichiarata contumace. Espletata una consulenza tecnica d’ufficio, respinte le richieste istruttorie perché irrilevanti ai fini della decisione, la causa veniva trattenuta in decisione sulle conclusioni precisate all’udienza del 28 febbraio 2011 come in atti.
Motivi della decisione
Non appare dubitabile che la cartella clinica rilasciata dalla convenuta appare essere espressione di una scarsa attenzione nella sua tenuta ed aggiornamento. Al di là della prima copia, nella quale erano contenuti anche atti relativi a diversi soggetti, le copie successive, anche se rilasciate a distanza di tempo, non spostano il problema della correttezza della certificazione di conformità che in tanto viene rilasciata ed in grado di attestare la conformità di una copia all’originale in quanto vi è un originale in cui tutti gli atti siano stati affollati con modalità tali da consentirne la facile riproduzione, essendo evidente che della non completezza della copia rilasciata risponde la struttura la quale deve provvedere a far si che nella cartella clinica siano contenuti tutti gli atti relativi ad un determinato paziente e che sono stati utilizzati per la sua cura, in originale o in copia conforme, qualora l’originale sia restituito al paziente e con la copia della documentazione prodotta dal paziente e valutata dai sanitari. In altre parole la cartella clinica deve contenere tutta la documentazione sanitaria relativa al paziente che sia stata a qualsiasi titolo valutata nel corso del ricovero al fine di consentire di ricostruire quali informazioni fossero disponibili per i sanitari nell’assumere le decisioni e quali attività sanitarie siano state poste in essere, anche al fine di consentire ad altri sanitari di valutare con rapidità quanto già avvenuto. In questo contesto non ha un grande significato la distinzione tra cartella e documenti allegati, dal momento che gli stessi devono essere comunque tutti presenti all’atto del rilascio della copia, e non ha importanza che si tratti di copia o originale, dovendo la struttura garantire che in atti rimanga una copia equivalente nel caso di consegna dell’originale alla parte.
D’altra parte la corretta tenuta della cartella clinica, oltre a rispondere ad un interesse pubblico di tutela della salute del paziente, risponde anche ad un interesse della struttura dal momento che ciò che non è presente nella stessa comporta, comunque, un pregiudizio per le ragioni della stessa, essendo il successivo giudizio operato sulla base del fatto che tali attività non sono state poste in essere.
L’intervento eseguito risulta essere stato necessario e la stessa attrice non ha contestato la scelta di protesizzazione della articolazione in relazione alla grave artosi da cui era affetta.
Quello che, invece, non risulta adeguato è il consenso informato all’intervento. Per quanto riguarda la corretta e completa informazione della paziente in ordine ai rischi ed alle complicanze connessi all’intervento, il consenso presente nella cartella clinica risulta del tutto privo di qualsivoglia elemento che possa far ritenere che lo stesso sia stato rilasciato dalla paziente sulla base di concrete e specifiche informazioni. Al di là del fatto che nel documento è indicato solo che, quale intervento, la paziente sarebbe stata sottoposta ad un intervento di “artroprotesi totale di ginocchio destro”, al fine di indicare che cosa si intendeva fare, quali risultati erano attesi, quale metodica sarebbe stata usata ed i rischi e le complicanze, sussiste solo una formulazione predisposta a stampa con cui il paziente dichiara, per quanto rileva in questa sede, di acconsentire a sottoporsi all’intervento “la cui natura e i cui effetti mi sono stati spiegato. Acconsento nei mio interesse anche ad ogni provvedimento terapeutico/radiologico che si renderà necessario durante il corso di tale operazione ed alla somministrazione di anestetici necessari all’intervento stesso”. Si tratta, evidentemente, di formulazione di mero stile, che non specifica nulla e si risolve in una attestazione da parte del paziente sulla qualità ed esaustività delle informazioni fornite in relazione a ciascun aspetto – di cui peraltro non risulta assolutamente nulla -, attestazione che presupporrebbe nella paziente un livello di conoscenze mediche, in relazione alla sua specifica patologia, superiori a quelle possedute dal chirurgo che la avrebbe operata, solo in questo modo potendo ritenersi possibile che la stessa potesse valutare se l’intervento proposto era la migliore soluzione per la sua patologia, anche in relazione alla metodica da utilizzare – e sul punto appare significativo il fatto che si trattasse di un modulo generico destinato a valere per qualsiasi intervento -, se i rischi che erano stati esposti fossero tutti quelli realmente ipotizzabili anche in relazione alle sue concrete condizioni fisiche e così via. In altre parole il consenso dato presupponeva che la paziente fosse in grado di esaminare la competenza professionale della equipe medica, potendo solo in quel caso assurgere a concreta valenza.
In altre parole il consenso espresso, per essere valido, avrebbe dovuto presupporre che il paziente fosse in grado di esaminare da solo la situazione avendo una competenza professionale uguale se non maggiore di quella posseduta dalla equipe medica, potendo solo in quel caso assurgere a concreta valenza.
Occorre, infatti, considerare che la responsabilità professionale del medico – ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all’illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell’intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato – ha natura contrattuale e non precontrattuale; ne consegue che, a fronte dell’allegazione, da parte del paziente, dell’inadempimento dell’obbligo di informazione, è il medico gravato dell’onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione (Cass. sez. 111, 9 febbraio 2010, n. 2847) e che il medico viene meno all’obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato al paziente non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura cui dovrà sottoporsi, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ritenga di sottoporre (come verificatosi nella specie) al paziente, perché lo sottoscriva, un modulo del tutto generico, dal quale non sia possibile desumere con certezza che il paziente abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni (Cass. sez. III, 8 ottobre 2008, n. 24791) e che la responsabilità del medico per violazione dell’obbligo contrattuale di porre il paziente nella condizione di esprimere un valido ed effettivo consenso informato è ravvisabile sia quando le informazioni siano assenti od insufficienti (cfr. Cass. sez. III, 2 luglio 2010, n. 15698) sia quando vengano fornite assicurazioni errate in ordine all’assenza di rischi o complicazioni derivanti da un intervento chirurgico necessariamente da eseguire, estendendosi l’inadempimento contrattuale anche alle informazioni non veritiere (Cass. sez. III, 28 novembre 2007, n. 24742). Tuttavia la violazione di tale obbligo, nel caso che l’intervento sia stato correttamente eseguito può assume rilevanza solo nel caso che venga dedotto e provato dalla parte che qualora fosse stata correttamente informata non avrebbe verisimilmente dato il consenso all’intervento (cfr. Cass. Sez. III, 9 febbraio 2010, n. 2847). Ciò detto, si deve osservare che, come posto in evidenza anche dal consulente tecnico d’ufficio, l’intervento venne eseguito correttamente e, come risulta dai controlli radiologici eseguiti in data 21 aprile 2005 e 17 maggio 2005, i componenti protesici risultavano in posizione corretta e regolari erano i rapporti tra i capi protesici stessi. Anche la riabilitazione appare normale al punto che al momento della dimissione, avvenuta in data 22 giugno 2005 è indicato che la “paziente deambula autonomamente, buono era lo scollamento della cicatrice ed il tonotrofismo del quadricipite, deficit di flessione che autonomamente raggiunge i 90 gradi e recupero completo dell’estensione”. Tale valutazione appare confermare la circostanza che l’evoluzione della protesizzazione appariva normale.
Il primo riscontro della presenza di possibili problemi al ginocchio destro appare risultare dalla certificazione del medico di famiglia dr. Si., il quale il data 28 settembre 2005 certificava la presenza di segni obiettivi di flogosi e dolore nei movimenti attivi e passivi indicando la necessità di un controllo ortopedico.
In quella occasione il medico, però, pur sospettando la presenza di una infiammazione/infezione, non prescrive gli esami ematochimici, peraltro routinari, che avrebbero potuto evidenziare la presenza di una infezione – numero di globuli bianchi, formula leucocitaria con particolare riguardo alla quantità di neutrofili, proteina C reattiva etc. -, e sembrerebbe che nulla sia stato posto in essere dall’attrice fino alla visita eseguita il 1 febbraio 2006 – non vi è traccia in atti della relazione del fisioterapista Ma. del 29 novembre 2005 citata nella consulenza di parte della Casa di cura – presso l’Istituto Ri. di Bologna il quale indica di aver riscontrato una mobilizzazione della protesi a seguito di infezione.
Si deve, pertanto, ritenere che nel settembre del 2005 non fossero emersi sintomi idonei ad affermare la presenza di una infezione ,a solo eventualmente di una infiammazione di natura non infettiva, non ritenendosi possibile che non venisse attivato né un controllo ematochimico alla ricerca della infezione né una copertura antibiotica tenuto conto dei rischi connessi alla eventuale infezione.
Degli accertamenti eseguiti nel mese di marzo, esami ematochimici e scintigrafia è conosciuto nel presente giudizio solo l’esito della scintigrafia che indica la presenza di una flogosi generica in corrispondenza della porzione periprotesica mediale della componente femorale, mentre la seconda scintigrafia con leucociti marcati evidenzia una situazione compatibile con un focolaio settico a livello dell’articolazione protesica del ginocchio destro. Venne anche accertata la presenza di tumefazione del tendine di Achille.
Il 12 aprile 2006 venne attivata la terapia antibiotica ed il 14 maggio 2006 veniva rimossa la protesi sostituita, a fini terapeutici, da una spaziatore con antibiotico. Nel corso dell’intervento venivano eseguiti sette prelievi colturali, dei quali, però, non è stato prodotto l’esito di guisa che non è noto il batterio o i batteri responsabili della infezione, informazione che sarebbe stata rilevante anche al fine di valutare la genesi dell’infezione.
La terapia antibiotica e la sostituzione della protesi consentì di giungere alla guarigione al punto che nell’ottobre del 2006 fu possibile il nuovo intervento di protesizzazione. Il problema dell’odierno giudizio è complicato dal fatto che si è in presenza di una infezione che si è manifestata dopo almeno cinque mesi dall’intervento e forse quasi dieci mesi dopo.
Non vi è dubbio, infatti, che la certificazione del dr. Si. non può essere letta come l’accertamento della presenza di sintomi di infezione dal momento che non solo lo stesso ha riferito solo di una flogosi che evidentemente non riteneva aver natura infettiva, dal momento che non ha ritenuto di prescrivere alcun controllo, neppure routinario, ematochimico, esame che avrebbe potuto facilmente evidenziare la presenza di una infezione.
Si può ritenere che la infezione si sia evidenziata in epoca successiva al fine da indurre l’attrice a recarsi in un centro di elevata specializzazione quale il Ri. di Bologna. Si tratta, ora, di valutare se detta infezione possa trovare la sua etiopatogenesi nell’intervento o se non vi siano elementi sufficientemente univoci per indirizzare in tal senso.
Dalla cartella clinica risulta che venne prescritta la somministrazione di due diversi antibiotici, rispettivamente per tre giorni e due giorni al momento dell’intervento e nei giorni successivi.
Di conseguenza venne attivata la regolare profilassi antibiotica per tale intervento e la stessa non venne proseguita dal momento che non erano emersi sintomi che potessero indirizzare per la necessità della prosecuzione della terapia antibiotica, tenuto conto che la stessa, fatta eccezione per le profilassi che ne prevedono una somministrazione per qualche giorno, necessità della presenza di elementi univoci che indirizzino verso la effettiva necessità della loro utilizzazione.
Per quanto riguarda la valutazione del nesso di causalità non vi è dubbio che il nel caso di specie il criterio regionale ricorre dal momento che la infezione – anche se non risulta specificamente quale – si sviluppò proprio sulla protesi del ginocchio, luogo in cui venne eseguito l’intervento.
Più complesso appare il problema del criterio temporale dal momento che come messo in evidenza anche dal Ctu l’infezione si è evidenziata dopo un lungo periodo di tempo. Non vi è dubbio, infatti, che nella maggior parte dei casi di infezione operatoria i sintomi compaiono in un periodo assai breve rispetto all’intervento.
I casi di comparsa a distanza di tempo costituiscono sicuramente delle ipotesi meno frequenti e necessitano della possibilità di ragionevolmente escludere altre possibilità. Nel caso di specie, infatti, si è già posto in evidenza come venne attivata una profilassi antibiotica dopo l’intervento e la casa di cura ha dimostrato la avvenuta sterilizzazione degli strumenti chirurgici di guisa che non si può ritenere non superata la presunzione di cui all’articolo 1176 al riguardo.
Il consulente tecnico d’ufficio ha correttamente posto in evidenza che non tutte le infezioni interne sono da ricollegare ad una causa esterna, dal momento che le stesse possono essere collegate alle condizioni della capacità difensive – immunitarie del paziente stesso, ad episodi occulti di infezioni (urinarie, dentali, delle prime vie aeree) che possono dare inizio a processi infettivi a carico degli impianti protesici.
Di conseguenza non appare possibile affermare la sussistenza del nesso di causalità sulla base del criterio del più probabile che non (Cass. sez. III, 8 luglio 2010, n. 16123). Anche la lesione al tendine di Achille – che non può essere attribuita alla somministrazione di antibiotici non perché come deduce stranamente parte convenuta si tratterebbe di un fatto nuovo in letteratura dal momento che tra gli effetti indesiderati dei fluorichinoloni a carico del sistema muscolo – scheletrico vengono annoverate l’altralgia e le tendiniti (più recentemente è stata evidenziata la possibilità di insorgenza di tendiniti e rotture di tendini associate a terapie con fluorochinoloni con una incidenza valutata in 15-20 casi ogni 100.000 pazienti trattati – vedi comunque le statistiche dell’Agenzia italiana del farmaco – in quanto già nel 1996 il Ministero della Sanità richiamò l’attenzione sul rischio di rottura del tendine di achille in pazienti sottoposti a terapia con farmaci fluorochinolonici, sulla base di alcuni casi verificatisi in Italia. In tale circostanza venne raccomandato ai medici, prima di iniziare il trattamento con fluorochinolonici, di “informare i pazienti di queste possibili reazioni avverse, invitandoli a sospendere immediatamente la terapia alla comparsa dei primi segni e/o sintomi di tendinopatia. Il paziente dovrà, inoltre, essere invitato, in tali casi, a mettersi in contatto, con urgenza, con il proprio medico”. In relazione a tale evenienza vennero modificati gli stampati contenuti nelle confezioni dei farmaci in cui venne inserito: Controindicazioni: precedenti tendinopatie con fluorochinoloni. Avvertenze: in casi sporadici in corso di terapia con fluorochinoloni si possono manifestare infiammazioni e lesioni con rottura di tendini. In caso di comparsa di dolore e/o edema al tendine di Achille (a livello di caviglia) interrompere il trattamento e mettersi a completo riposo ed avvisare il proprio medico per l’adozione delle opportune misure terapeutiche. Fattori predisponenti alle tendiniti o alla rottura dei tendini sono età superiore ai 60 anni, esercizio fisico intenso, trattamento a lungo termini con corticosteroidi, fase precoce di deambulazione di pazienti a letto.), ma perché la somministrazione degli antibiotici iniziò quando il problema al tendine di achille era già insorto – può essere posta in relazione al maggiore sforzo connesso con la deambulazione, ma è sempre collegato con la infezione, di guisa che la mancata individuazione di un valido nesso di causalità tra l’intervento e l’infezione non consente di ritenere sussistente un nesso di causalità anche con tale lesione. Deve, pertanto, essere respinta la domanda attrice, ma l’accertato inadempimento all’obbligo di corretta informazione da parte dei sanitari, induce il giudicante a compensare tra le parti le spese del presente giudizio. Le spese di Ctu, liquidate in Euro 1.100 pari all’acconto, sono poste definitivamente a carico di parte attrice che le ha anticipate.
P.Q.M.
Il Tribunale di Roma, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da Ch.Pa. nei confronti della società Ro.Am. S.p.A. di Sa.Sa. e delle società Zu.In. e Mi.As. S.p.A.
– Rigetta la domanda attrice;
– compensa integralmente le spese del presente giudizio tra le parti rimanendo le spese di ctu a carico di parte attrice che le ha anticipate.