Il direttore sanitario di una struttura privata, pur risultando di aver svolto l’attività a titolo di collaborazione professionale, impugnava il licenziamento nel frattempo intervenuto e chiedeva l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro con la condanna del datore di lavoro alle differenze retributive.
Cassazione Civile – Sez. Lavoro; Sent. n. 21439 del 17.10.2011
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Pescara del 3-12-2004 F. A., premesso di aver svolto alte dipendenze della Fondazione Papa Paolo VI Onlus dal 1-1-2000 al 31-5-2000 ed a tempo definito sino al 27-1-20004, attività di direttore sanitario, pur risultando formalmente il rapporto come di collaborazione professionale, impugnava il licenziamento del 27-1-2004 e chiedeva l’accertamento della natura subordinata del rapporto con la condanna della convenuta delle differenze retributive, come quantificate in ricorso, nonchè la declaratoria di nullità e/o illegittimità del licenziamento, con la reintegra nel posto di lavoro e la condanna della convenuta al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegra (o in subordine la tutela L. n. 604 del 1966, ex art. 8), oltre alla regolarizzazione della posizione previdenziale presso l’INPS. Si costituiva la Fondazione Papa Paolo VI sostenendo che tra le parti era intercorso un semplice rapporto di collaborazione libero professionale senza vincolo di subordinazione e concludendo per il rigetto della domanda.
Il Giudice adito, con sentenza n. 1007/2007, respingeva il ricorso e compensava le spese.
La F. proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.
La appellata si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di l’Aquila, con sentenza depositata il 21-8-2008, rigettava l’appello e compensava le spese.
In sintesi, la Corte territoriale rilevava che l’appellante non aveva assolto l’onere di fornire la prova del suo assunto, atteso che, considerato il contenuto sostanziale delle prestazioni e le effettive condizioni e modalità di svolgimento del rapporto, non si ravvisavano gli estremi perchè potesse ritenersi che sussistesse nel rapporto il carattere della “subordinazione” tale da renderlo incompatibile con la configurazione del rapporto in questione come contratto di lavoro autonomo.
Per la cassazione di tale sentenza la F. ha proposto ricorso con tre motivi.
La Fondazione Papa Paolo VI ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2697, 2727, 2729, 2730, 2733 e 2735 e ss. c.c., e vizio di motivazione, in sostanza lamenta che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto non assolto l’onere probatorio incombente sul ricorrente, nonostante che dalle risultanze testimoniali emergessero tutti gli elementi sintomatici del rapporto di lavoro subordinato ed in specie non solo la sottomissione agli ordini, regolamenti e protocolli predisposti dal legale rappresentante della struttura sanitaria, ma anche gli elementi sussidiari (in quanto “la prestazione era quella tipica di direttore sanitario in tutto e per tutto identica a quella svolta dai colleghi di tantissimi ospedali pubblici e privati inquadrati come dipendenti, la prestazione era continuativa con un rigido orario giornaliero dal lunedì al venerdì; vi era lo stabile inserimento nella organizzazione aziendale con l’utilizzo di mezzi forniti dalla resistente e con rischio a carico della clinica stessa e senza obbligo di risultato; la ricorrente si è solo limitata ad offrire le proprie energie lavorative quale estrinsecazione di semplice locatio operarum; vi era il pagamento di un compenso mensile”).
Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 1362 c.c., e vizio di motivazione, in sostanza lamenta che nella motivazione dell’impugnata sentenza “il criterio della pretesa adeguatezza del compenso sembra prevalere sul criterio della subordinazione”, laddove, invece, “deve ritenersi che nelle prestazioni ad alto contenuto professionale … l’utilizzo di criteri sussidiari appare decisivo”.
La ricorrente deduce, inoltre, in particolare, che: “nel nostro caso la retribuzione è risultata inadeguata alla stregua dell’art. 36 Cost. posto che la ricorrente, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice, ha rivendicato differenze retributive per oltre 116.536,62 Euro; in secondo luogo, è incontestato che il ricorrente osservasse un orario di lavoro predeterminato dal legale rappresentante ed in definitiva dalla struttura, identico a quello svolto da qualunque altro direttore sanitario inquadrato come dipendente. E’ altresì incontestato che la ricorrente percepisse una retribuzione mensilizzata”.
Entrambi i motivi, che, in quanto connessi e parzialmente ripetitivi, possono essere trattati congiuntamente, risultano in parte inammissibili ed in parte infondati.
Innanzitutto risultano generici e solo in parte conferenti con i rispettivi motivi e con il decisum i quesiti formulati in relazione alle censure di violazione di legge, in quanto consistono nella semplice enunciazione del principio di diritto invocato nella fattispecie (v. Cass. 20-6-2008 n. 16941), senza che venga evidenziato l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata (v.
Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020) e senza che sia fornita alcuna sintesi logico-giuridica della questione sollevata con i motivi stessi (v. Cass. 7-4-2009 n. 8463).
La ricorrente si limita infatti ad affermare con il primo quesito che “l’art. 2094 c.c. in ordine alla subordinazione va interpretalo nel senso di considerare adeguati per la dimostrazione della sua sussistenza anche gli elementi sussidiari” e con il secondo che “l’art. 2094 va interpretato nel senso che gli elementi sussidiari della subordinazione laddove siano coerenti, univoci e convergenti siano idonei a superare la configurazione di libero professionale data al rapporto di lavoro”.
Per il resto, le censure risultano o inconferenti con il decisum o infondate, in quanto la Corte di merito ha valutato attentamente tutti gli elementi, ivi compresi quelli sussidiari, ritenendoli in sostanza non incompatibili con la configurazione autonoma del rapporto.
Come questa Corte ha più volte affermato “requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative.
L’esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo. In sede di legittimità è censurabile solo la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto – incensurabile in tale sede, se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici – la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale” (v. fra le altre Cass. 21-11-2001 n. 14664, Cass. 12-9- 2003 n. 13448, Cass. 6-6-2002 n. 8254, Cass. 4-4-2001 n. 5036, Cass. 3-4-2000 n. 4036, Cass. 16-1-1996 n. 326).
“Elemento indefettibile – quindi – del rapporto di lavoro subordinato – e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo – è la subordinazione, intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e no già soltanto al loro risultato, mentre hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria altri elementi del rapporto di lavoro (quali, ad esempio, la collaborazione, l’osservanza di un determinato orario, la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento della prestazione medesima nell’organizzazione aziendale e il coordinamento con l’attività imprenditoriale, l’assenza di rischio per il lavoratore e la forma della retribuzione), i quali – lungi dal surrogare la subordinazione o, comunque, dall’assumere valore decisivo ai fini della prospettata qualificazione del rapporto – possono, tuttavia, essere valutati globalmente, appunto, come indizi della subordinazione stessa, tutte le volte che non ne sia agevole l’apprezzamento diretto a causa di peculiarità delle mansioni, che incidano sull’atteggiarsi del rapporto. Inoltre, non è idoneo a surrogare il criterio della subordinazione nei precisati termini neanche il “nomen iuris” che al rapporto di lavoro sia dato dalle sue stesse parti (cosiddetta “autoqualificazione”), il quale, pur costituendo un elemento dal quale non si può in generale prescindere, assume rilievo decisivo ove l’autoqualificazione non risulti in contrasto con le concrete modalità del rapporto medesimo” (v. Cass. 27-2-2007 n. 4500).
In particolare, proprio con riferimento ad un direttore sanitario di una clinica privata, è stato precisato che “l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo è il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione, pur avendo natura meramente sussidiaria e non decisiva, possono costituire indici rivelatori della subordinazione, idonei anche a prevalere sull’eventuale volontà contraria manifestata dalla parti, ove incompatibili con l’assetto previsto dalle stesse”.
Orbene la Corte territoriale, attenendosi a tale principio, valutate in fatto complessivamente le “rispettive prestazioni” nonchè la percezione di un compenso corrispondente alle previsioni dell’accordo economico collettivo all’epoca vigente “per a regolamentazione del rapporto di lavoro autonomo libero professionale dei medici delle case di cura convenzionate”, ha rilevato che “l’attenta e suggestiva enunciazione di tutti gli elementi di fatto che l’appellante prospetta come sintomatici di una condizione di sua soggezione rispetto al vertice aziendale, con riferimento al direttore sanitario, non appare decisiva, poichè, oltre ad essere perfettamente compatibile con un rapporto di lavoro subordinato, è non di meno compatibile anche con un rapporto di lavoro autonomo, per prestazioni di livello elevato, che implichino, ed impongano, un controllo da parte de committente, ed una collaborazione e coordinazione, con riferimento alle esigenze connaturate ed essenziali per una attività tecnica sofisticata, quale è quella sanitaria, anche ed in particolare se svolta in una struttura organizzata”.
La Corte di merito ha, quindi, concluso che “nel caso in esame, non si ravvisano gli estremi perchè possa ritenersi che sussista nel rapporto il carattere della “subordinazione” tale da renderlo incompatibile con la configurazione del rapporto in questione come contratto di lavoro autonomo”.
Tale motivazione è fondata proprio sulla valutazione degli elementi sussidiari dedotti dalla F. e sulla loro non decisività ai fini della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e resiste alle censure della ricorrente avanzate anche sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Del resto la ricorrente stessa al riguardo si limita ad invocare soltanto le circostanze della asserita inadeguatezza della retribuzione, della corresponsione mensile della stessa, dell’osservanza di un orario di lavoro predeterminato e dell’inserimento nell’organizzazione aziendale, elementi di per sè stessi relativi e non decisivi.
Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2233 c.c., in sostanza lamenta che la sentenza impugnata a fronte della dimostrazione dell’orario di lavoro svolto rispetto a quello dovuto sulla base delle stesse dichiarazioni del legale rappresentante della resistente (17 ore settimanali) nonchè della complessità delle mansioni, ha ritenuto che non sia stata fornita prova specifica delle prestazioni professionali rese”.
Anche tale motivo non può essere accolto perchè in gran parte inconferente con il decisum e in parte non autosufficiente.
Sul punto la Corte di merito ha affermato: “Nè può essere accolta la domanda subordinata, per il pagamento di una somma (peraltro non determinata) a saldo del compenso per le prestazioni libero- professionali rese, non essendo stata fornita una prova specifica, e neppure proposta una deduzione dettagliata, in ordine alla pretesa differenza tra le prestazioni pattuite, e retribuite, e quelle rese ed asseritamente meritevoli di un ulteriore corrispettivo”.
A fronte di tale decisione, fondata principalmente sulla mancanza di sufficienti allegazioni (prima ancora che di prove) in ordine alla detta domanda subordinata, in sostanza ritenuta dalla Corte d’Appello genericamente proposta, la ricorrente, anzichè censurare tale statuizione, si limita a dedurre che dalle risultanze istruttorie (dichiarazioni del legale rappresentante e dei testi) è emerso un “orario superiore svolto rispetto a quello pattuito”, senza prima di tutto indicare specificamente (e riportare) i necessari presupposti di fatto della domanda stessa che sarebbero stati allegati con il ricorso di primo grado.
Peraltro la ricorrente neppure riporta testualmente le dichiarazioni del legale rappresentante della Fondazione invocate.
Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della controricorrente.