Una odontoiatra è stata condannata con sentenza del tribunale di Milano, ufficio gip, all’esito di giudizio abbreviato, alla pena di un anno, sei mesi e giorni 20 di reclusione per aver cagionato volontariamente a una paziente lesioni dell’apparato dentale dalle quali era derivata una malattia di durata superiore ai 40 giorni, nonché l’indebolimento permanente dell’organo della masticazione.
L’imputata, quale responsabile dello studio e un sedicente medico dentista e collaboratore, sottoponevano la cliente a complesse operazioni chirurgiche, inadeguate rispetto alla patologia sofferta, senza la prescritta abilitazione e senza le competenze tecniche richieste, nonchè in difetto di valido consenso informato, tacendo inoltre la mancanza dei titoli e delle qualifiche necessarie al tipo di trattamento.
A seguito di ricorso, il giudice di appello riteneva non sussistente il reato di lesioni dolose non essendo provata la volontà di cagionare la malattia e i postumi invalidanti invece verificatisi. Riteneva, anzi, la corte d’appello che entrambi gli imputati, pur consapevoli dei potenziali effetti pregiudizievoli delle cure, avessero agito nella convinzione di evitarli e di risolvere i problemi sanitari.
Contro la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione sia il Procuratore Generale di Milano, sia la parte civile.
Cassazione Penale – Sez. V; Sent. n. 3222 del 26.01.2012
Svolgimento del processo
K.G. è stata condannata con sentenza del tribunale di Milano, ufficio gip, all’esito di giudizio abbreviato, alla pena di un anno, sei mesi e giorni 20 di reclusione per aver cagionato volontariamente a P.L. lesioni dell’apparato dentale dalle quali derivava una malattia di durata superiore ai 40 giorni, nonché l’indebolimento permanente dell’organo della masticazione. G. K., quale responsabile dello studio dentistico, nonché Pa.Ti., quale sedicente medico dentista e collaboratore dello studio, sottoponevano P.L. a complesse operazioni chirurgiche dell’apparato dentale, inadeguate rispetto alla patologia sofferta, senza la prescritta abilitazione e senza le competenze tecniche richieste, nonché in difetto di valido consenso informato, tacendo inoltre la mancanza dei titoli e delle qualifiche necessarie al tipo di intervento. Fatti commessi in X. .
La corte di appello di Milano, con sentenza del 14 maggio 2010, riformava la pronuncia del gip, dichiarando non doversi procedere in ordine al reato di cui all’art. 586 c.p., così modificata l’originale imputazione, per mancanza di querela.
Il giudice di appello riteneva non sussistente il reato di lesioni dolose non essendo provata la volontà di cagionare alla P. la malattia e i postumi invalidanti poi invece verificatisi. Riteneva, anzi, la corte d’appello che entrambi gli imputati, pur consapevoli dei potenziali effetti pregiudizievoli delle cure, avessero agito nella convinzione di evitarli e di risolvere i problemi sanitari della P.. Contro la predetta sentenza propongono ricorso per cassazione sia il Procuratore Generale di Milano, sia la parte civile.
Quest’ultima lamenta violazione ed erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 582 e 583 c.p., nonchè manifesta illogicità della motivazione. Premesso che il gip del tribunale di Milano, sia in sede di opposizione all’archiviazione, sia in sede di giudizio abbreviato, avevano ritenuto sussistente il dolo, quantomeno nella forma del dolo eventuale, sostiene la ricorrente che la asserita incompatibilità dell’attività medica, la quale agisce per scopi curativi, con il dolo delle lesioni, possa valere esclusivamente per il medico e non per chi sia privo di tale titolo professionale. Nel caso di specie, poichè, a detta della ricorrente, la G.K. non risponde per attività propria ma per aver consentito che un’altra persona priva dei requisiti professionali intervenisse chirurgicamente su un paziente nel suo studio, la predetta premessa logica non è applicabile, dovendosi invece analizzare nel caso concreto se sussiste l’elemento soggettivo del reato. Nel caso di specie, secondo la ricorrente, colui che interviene chirurgicamente senza avere le competenze e le abilitazione richieste dalla legge non può non prefigurarsi anche solo la possibilità che la sua condotta possa arrecare lesioni, anche gravi, al paziente e il medesimo rischio non può non prefigurarsi anche da parte del medico che gli consente di utilizzare la sua struttura.
Il procuratore generale ricorre per violazione di legge in relazione all’artt. 582,583 e 586 c.p.; con motivazione analoga a quella della parte civile, il procuratore generale sostiene che, essendosi verificato un esito infausto delle cure, con violazione delle regole tecniche dell’arte medica, sussiste l’elemento oggettivo del reato rappresentato dalla malattia e dall’indebolimento permanente dell’organo della masticazione. Ritiene, poi, il procuratore generale che la mancanza di un consenso informato non sia la conseguenza di un atteggiamento colposo, ma il frutto di una volontaria omissione, dato che il Pa. non possedeva i requisiti necessari per esercitare la professione di medico odontoiatra. Vi fu pertanto, secondo il procuratore generale, una consapevole violazione della regola dell’acquisizione del consenso informato del paziente, diretta ad alterarne il processo volitivo, per cui non può ritenersi operante la scriminante costituzionale richiamata dalle sezioni unite nella nota sentenza numero 2437 del 2008. Ciò renderebbe non pertinente il richiamo della corte d’appello alla incompatibilità tra la finalità terapeutica che sorregge l’attività del medico e il delitto di lesioni personali, non potendo tale principio trovare spazio nel caso di abusivo esercizio della professione medica. In conclusione, ritiene l’organo di accusa che una volta accertato che l’intervento del Pa. abbia causato una malattia, deve necessariamente ritenersi anche che tale evento sia coperto dal dolo, poichè lo si è volontariamente cagionato e non vi è alcuna possibilità di evocare una scriminante costituzionale, nè altre cause di giustificazione atte a legittimare l’illecito intervento eseguito.
Ha presentato memoria in data 20 settembre 2011 G.K., replicando alle affermazioni contenute nei ricorsi e chiedendo la conferma della sentenza impugnata; in particolare rileva la G. che fu solo lei a porre in essere una negligenza in fase diagnostica e durante gli interventi, mentre il Pa. avrebbe esclusivamente collaborato facendo iniezioni, provando e avvitando gli impianti realizzati dal medico ed estraendo denti. Osserva poi la G., richiamando un passo della sentenza delle sezioni unite numero 2437 del 2008, che in tema di accertamento dell’elemento psicologico del medico che agisce senza consenso del paziente si deve avere riguardo non alla condotta, ma alle conseguenze di questa, ossia alla malattia che ne deriva; occorre cioè che il medico abbia agito avendo di mira tale malattia, che sia stata dunque voluta o quanto meno accettata quale conseguenza della condotta. Per la sussistenza del dolo, anche in caso di mancanza del consenso informato, si deve raggiungere la prova che il medico abbia agito con la volontà di produrre alla paziente le conseguenze lesive in concreto derivate dalla propria condotta materiale.
Motivi della decisione
I ricorsi sono fondati.
L’odierno giudizio ruota non solo attorno alla individuazione e qualificazione dell’elemento soggettivo che sorregge l’operatore sanitario quando compie un intervento chirurgico in mancanza di valido consenso informato, provocando delle conseguenze dannose sulla salute del paziente, ma anche quando consente che sia un soggetto privo delle abilitazioni normative a compiere attività sanitaria con esito infausto.
Si deve premettere che il giudizio di questa corte deve partire dai presupposti di fatto ormai accertati in via definitiva dai giudici di merito, sia per l’assenza di impugnazione sul punto, sia perché le questioni relative all’accertamento dei fatti sono incensurabili in cassazione ove, come nel caso di specie, correttamente motivate. Or bene, si deve prima di tutto sgomberare il campo da un equivoco, precisando che l’elemento soggettivo deve essere diretto alla produzione dell’evento lesivo, quale effetto negativo dell’intervento chirurgico, non essendo invece sufficiente che esso copra solo alcune fasi della condotta; pertanto, deve ritenersi insufficiente la volontaria omissione in relazione all’acquisizione di un valido consenso informato e, nell’ambito di questa circostanza, l’aver taciuto alla paziente che il Pa. non era un medico.
Analogamente, deve ritenersi non sufficiente la volontà dell’azione diretta a procurare le lesioni immediatamente necessarie per eseguire l’intervento (ad esempio il taglio della cute, la perforazione tramite aghi, ecc), le quali possono eventualmente rilevare sotto il profilo penale ma per un fatto che è diverso da quello oggi prospettato.
Non si deve dimenticare che le operazioni chirurgiche comportano diverse tipologie di effetti lesivi al corpo del paziente; un primo tipo di lesione, indefettibile in ogni intervento, è quella che si rende necessaria per poter eseguire l’intervento stesso. Si tratta del taglio della cute, dell’apertura di organi, della recisione di tratti dell’apparato circolatorio, della cauterizzazione, ecc. queste lesioni sono sempre volute da colui che opera e quindi possono dirsi sempre coperte da un elemento soggettivo di tipo “doloso”; qualora l’intervento sia stato eseguito secondo le regole dell’arte, da personale autorizzato e previa acquisizione di un regolare consenso informato, la copertura costituzionale dell’attività sanitaria esclude l’antigiuridicità oggettiva delle lesioni e quindi impedisce la configurazione del reato. La condotta del medico è dunque connotata, in questi casi, da volontarietà, ma non dal dolo; in ogni caso non sussiste il reato di lesioni. Quando le predette lesioni, invece, sono prodotte in assenza di consenso da parte del paziente o non sono necessarie per l’esecuzione dell’intervento curativo, per essere lo stesso non conforme alle regole della tecnica medica, allora viene meno la copertura costituzionale e la condotta rientra nell’ambito penalistico, dovendo il medico rispondere delle lesioni dolose cagionate al paziente. Ma a fronte di queste lesioni necessariamente collegate agli interventi chirurgici, vi sono altri eventi lesivi meramente eventuali, che costituiscono la conseguenza spesso prevedibile, ma non voluta degli interventi stessi; si tratta di lesioni eventuali in quanto si verificano solo se l’intervento ha un esito negativo. Anche in questo caso, peraltro, se l’operazione è stata eseguita previo consenso informato, secondo le regole dell’arte e da personale dotato dei requisiti previsti dalla legge, l’evento lesivo non configura una malattia nel senso indicato dalla legge penale e pertanto non può configurare il reato di agli artt. 582 e segg.. Diversamente, qualora l’esito infausto dell’operazione sia conseguenza di un’attività svolta senza il consenso del paziente, con violazione delle norme tecniche dell’attività medica e/o da soggetto non autorizzato all’esercizio della professione medica, si espande il rilievo penalistico collegato alla effettiva produzione di lesioni e dunque sussiste oggettivamente il reato; quanto all’elemento soggettivo, sulla cui graduazione possono incidere gli elementi sopra indicati (mancanza del consenso del paziente, violazione delle norme tecniche dell’attività medica, mancanza di abilitazione …), si devono seguire le regole generali valutando se nel caso concreto sussista esclusivamente la colpa, vi sia stata una volontà effettiva di procurare le lesioni conseguenti all’intervento ovvero ci si trovi in quella fascia soggettiva intermedia che la giurisprudenza qualifica come dolo eventuale.
Sussiste il dolo eventuale quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce accettando il rischio di cagionarle. Il soggetto, cioè, pone in essere un’azione accettando il rischio del verificarsi dell’evento, che nella rappresentazione psichica non è direttamente voluto, ma appare probabile. In altri termini, l’agente, pur non avendo avuto di mira quel determinato accadimento, ha tuttavia agito anche a costo che questo si realizzasse, sicchè lo stesso non può non considerarsi riferibile alla determinazione volitiva (Sez. Un. 12 ottobre 1993, n. 748; Sez. Un. 15 dicembre 1992, Cutruzzolà, in Cass. pen., 1993, 1095; Sez. Un. 12 ottobre 1993, n. 748; Sez. Un. 14 febbraio 1996, n. 3571; Sez. 1, 12 novembre 1997, n. 6358; Sez. 1, 11 febbraio 1998, n. 8052; Sez. 1, 20 novembre 1998, n. 13544; Sez. 5, 17 gennaio 2005, n. 6168; Sez. 6, 26 ottobre 2006, n. 1367; Sez. 1, 24 maggio 2007, n. 27620; Sez. 1, 29 gennaio 2008, n. 12954). Sotto un profilo generale si deve affermare che il mancato rispetto delle regole dell’arte per negligenza o imperizia comporterà l’attribuzione dell’evento lesivo a titolo di colpa, mentre assai difficilmente si riscontrerà il dolo diretto, ossia la volontà dell’agente di produrre l’esito infausto dell’operazione chirurgica. E’ questo, dunque, un campo di elezione per la ricerca della controversa figura del dolo eventuale. Insegnano le sezioni unite di questa corte, come si è visto, che tale figura soggettiva si riscontra quando vi è la concreta possibilità di prevedere l’evento di reato, con la accettazione del rischio relativo; si versa, invece, nella forma di colpa definita “cosciente”, aggravata dall’avere agito nonostante la previsione dell’evento (art. 61 c.p., n. 3), qualora l’agente, nel porre in essere la condotta nonostante la rappresentazione dell’evento, ne abbia escluso la possibilità di realizzazione, non volendo nè accettando il rischio che quel risultato si verifichi, nella convinzione, o nella ragionevole speranza, di poterlo evitare per abilità personale o per intervento di altri fattori (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 10411 del 1 febbraio 2011, Ignatiuc).
Poichè la rappresentazione dell’intero fatto tipico come probabile o possibile è presente sia nel dolo eventuale che nella colpa cosciente, il criterio distintivo deve essere ricercato sul piano della volizione. Mentre, infatti, nel dolo eventuale occorre che la realizzazione del fatto sia stata “accettata” psicologicamente dal soggetto, nel senso che egli avrebbe agito anche se avesse avuto la certezza del verificarsi del fatto, nella colpa con previsione la rappresentazione come certa o probabile del determinarsi del fatto avrebbe invece trattenuto l’agente. Nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una deliberazione con la quale l’agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro;
l’autore del reato, che si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento dell’interesse perseguito e il sacrificio di un bene diverso, effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco e attribuisce prevalenza ad uno di essi.
L’obiettivo intenzionalmente perseguito per il soddisfacimento di tale interesse preminente attrae l’evento collaterale, che viene dall’agente posto coscientemente in relazione con il conseguimento dello scopo perseguito. Non è, quindi, sufficiente la previsione della concreta possibilità di verificazione dell’evento lesivo, ma è indispensabile l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno che costituisce il prezzo (eventuale) da pagare per il conseguimento di un determinato risultato (Sez. 6, 26 ottobre 2006, n. 1367; Sez. 1, 29 gennaio 2008, n. 12954; Sez. 5, 17 settembre 2008, n. 44712). Il soggetto, quindi, non vuole direttamente l’evento lesivo, ma si prefigura la possibilità che esso si produca e ne accetta il rischio; l’attività, dunque, viene compiuta anche a costo di produrre tale evento. La distinzione è molto sottile e lo è ancor più in ambito sanitario, ove vi è sempre un margine di rischio, più o meno elevato, legato all’intervento; il medico, proprio in virtù della sua preparazione professionale e della sua esperienza, è sempre in grado di prefigurarsi i possibili esiti negativi dell’operazione. Il profilo determinante non è, dunque, quello del momento rappresentativo, quanto piuttosto quello della scelta; si ha dolo se il soggetto opera a prescindere dal rischio, il quale rappresenta una circostanza per lui irrilevante. Non vi è sostegno soggettivo all’azione, sotto il profilo penale, se il medico agisce nella consapevolezza e nella convinzione di poter tenere sotto controllo i fattori di rischio e ragionevolmente di escludere, con alta probabilità, le conseguenze sfavorevoli. Ora, non essendo possibile indagare direttamente la psiche umana, al fine di verificare in concreto cosa abbia pensato il soggetto allorchè si accingeva all’azione, la valutazione soggettiva non può che essere condotta in via indiretta, attraverso indici sintomatici e valutazioni di tipo deduttivo.
Mentre nel caso del medico l’indagine può presentare margini di complessità, legati anche alla componente specialistica ed alla preparazione professionale del soggetto, nel caso oggi in esame la soluzione è in un certo senso agevolata dalla mancanza di abilitazione del Pa., di cui la G. deve rispondere per avergli consentito di operare presso il suo gabinetto medico.
Premesso che l’indagine sull’elemento soggettivo spetta al giudice del merito e, se correttamente motivata, non può essere censurata in sede di legittimità, si deve rilevare che nel caso di specie è proprio la giustificazione che viene fornita dalla Corte d’appello di Milano – tenuto conto dei principi giurisprudenziali in materia, tra cui spicca per chiarezza e completezza la sentenza delle Sezioni Unite del 2008 n. 2437 -a non essere perfettamente lineare.
La delicata linea di confine tra il “dolo eventuale” e la “colpa cosciente” o “con previsione” e l’esigenza di non svuotare di significato la dimensione psicologica dell’imputazione soggettiva, connessa alla specificità del caso concreto, impongono al giudice di attribuire rilievo centrale al momento dell’accertamento e di effettuare con approccio critico un’acuta, penetrante indagine in ordine al fatto unitariamente inteso, alle sue probabilità di verificarsi, alla percezione soggettiva della probabilità, ai segni della percezione del rischio, ai dati obiettivi capaci di fornire una dimensione riconoscibile dei reali processi interiori e della loro proiezione finalistica. Si tratta di un’indagine di particolare complessità, dovendosi inferire atteggiamenti interni, processi psicologici attraverso un procedimento di verifica dell’id quod plerumque accidit alla luce delle circostanze esteriori che normalmente costituiscono l’espressione o sono, comunque, collegate agli stati psichici.
La corte d’appello ha motivato l’assenza di dolo in capo alla G. sulla base esclusivamente in argomentazioni di tipo logico, affermando che è del tutto inverosimile che il medico (ma il Pa. non è medico), il quale agisce a scopo curativo, intenda procurare volutamente una malattia al paziente anche perchè ciò sarebbe del tutto controproducente fini della reputazione dello stesso sanitario; secondo la corte d’appello deve ritenersi che il medico, nell’effettuare una prestazione sanitaria, pur talvolta prevedendo che l’intervento possa cagionare al paziente una malattia, lungi dall’accettare tale rischio dell’agire anche a costo di determinarla, sia invece convinto di poter evitare ogni danno all’integrità ed alla salute del paziente. Così giudicando, la corte d’appello avrebbe sbrigativamente liquidato una questione che necessitava invece un approfondimento molto maggiore e soprattutto non ha tenuto conto del fatto che alla G. non veniva contestato il dolo relativamente alla sua attività chirurgica, ma con riferimento all’attività abusiva svolta dal Pa.;
poichè costui non era un medico, era molto più elevato il rischio che si verificassero complicazioni e la dottoressa non poteva non rappresentarsi i potenziali e forse probabili effetti lesivi. Pare desumersi dalle difese della parte civile e dal ricorso del procuratore generale che l’aver taciuto alla paziente che il Pa. era un medico possa rappresentare un indizio del fatto che entrambi ben sapevano che in questo caso la paziente avrebbe potuto negare il proprio consenso e quindi sarebbe venuta meno l’opportunità di attività molto lucrose; ciò potrebbe anche essere un indice del fatto che pur di incassare elevati compensi per l’attività dentistica gli imputati, consapevoli che lo svolgimento di attività medica da parte del Pa. avrebbe potuto comportare degli effetti lesivi, erano pronti ad accettarli, ritenendo prevalente il loro interesse economico alla percezione dei compensi. Come ha già osservato questo Collegio in altra pronuncia collegata, “..l’esito infausto, la lunghezza del trattamento, la dissimulazione della mancanza della qualifica professionale, la delicatezza e la invasività degli interventi praticati sulla paziente, soverchiano largamente la “sicumera” del Pa., accreditato immotivatamente dai giudici di merito della “piena convinzione” di evitare danni alla P., senza precisazione alcuna del quadro clinico, delle difficoltà del caso e del grado di esperienza e di abilità sul quale il prevenuto faceva affidamento temerario”. Il giudice di rinvio, pertanto, dovrà procedere a nuovo giudizio tenendo in considerazione tutte le circostanze potenzialmente indizianti dell’esistenza di un dolo indiretto; in particolare, si dovrà tenere in considerazione la posizione professionale del Pa., la cui mancanza di abilitazione rende del tutto apodittica l’affermazione della sua convinzione di evitare conseguenze negative da un intervento così delicato ed invasivo (conseguenze che, infatti, si verificarono).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per nuovo giudizio.