il medico radiologo , essendo, al pari degli altri sanitari, tenuto alla diligenza specifica di cui all’ art. 1176, comma 2, c.c. , non può limitarsi ad una mera e formale lettura degli esiti dell’esame diagnostico effettuato, ma, allorché tali esiti lo suggeriscano (e dunque ove, segnatamente, si tratti di esiti c.d. aspecifici del quadro radiologico), è tenuto ad attivarsi per un approfondimento della situazione, dovendo, quindi, prospettare al paziente anche la necessità o l’esigenza di far fronte ad ulteriori e più adeguati esami.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. RUBINO Lina – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 38499/2019 R.G. proposto da:
M.M., elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DELLA VITTORIA 5,
presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI ARIETA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
P.M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GOLAMETTO 2,
presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO ROMAGNOLI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
N.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BANCO DI S. SPIRITO 48,
presso lo studio dell’avvocato AUGUSTO D’OTTAVI che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SIMONETTA BUONTEMPI;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BOLOGNA n. 183/2019 depositata il 15/01/2019;
Udita la relazione della causa svolta – tenutasi ai sensi del D.L. n.
137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito, con modificazioni,
nella L. n. 176 del 2020 (ed oggetto di successive proroghe) – nella
camera di consiglio del 25/11/2022 dal Consigliere ENZO VINCENTI;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del
Sostituto Procuratore generale Dott. FRESA Mario, che ha chiesto
l’accoglimento del ricorso principale e del primo motivo del ricorso incidentale.
FATTI DI CAUSA
1. – M.M. convenne in giudizio i medici N.G. e P.M.L. per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti in conseguenza del ritardo diagnostico di una neoplasia al seno destro da imputarsi alle concorrenti condotte dei convenuti.
L’adito Tribunale di Bologna, con sentenza dell’ottobre 2011, accolse la domanda attorea e condannò il N. e la P., in solido tra loro, al pagamento, in favore della M., dell’importo di Euro 77.740,00, oltre accessori, a titolo di danno non patrimoniale e dell’importo di Euro 2.900,78, oltre accessori, a titolo di danno patrimoniale.
2. – Avverso tale sentenza spiegava gravame principale N.G., nonché impugnazione incidentale P.M.L.; la Corte di appello di Bologna, con sentenza resa pubblica il 15 gennaio 2019, rigettava il gravame del N. ed accoglieva quello della Piegai, respingendo, quindi, la domanda risarcitoria proposta nei suoi confronti dalla M..
2.1. – La Corte territoriale, a fondamento della decisione (e per quanto ancora rileva in questa sede), osservava che: a) sussisteva, come accertato dal Tribunale, la responsabilità del N., senologo, per aver questi “omesso di sottoporre la M., dopo la prima visita risalente all’11.07.1997, ad ulteriori approfondimenti diagnostici nonostante la presenza di un addensamento ghiandolare così come evidenziato dal referto ecografico redatto dalla Dott. P.” in data 23 giugno 1997, essendosi egli “limitato a suggerire genericamente periodici controlli e, senza neppure far cenno all’addensamento ghiandolare emerso nell’ecografia, ha espressamente escluso nel referto della visita la presenza “di alterazioni morfo strutturali degne di nota a carico di entrambe le mammelle””; a.1) era, invece, “ragionevole ritenere che qualche alterazione morfostrutturale fosse presente ed apprezzabile con un controllo più accurato già all’epoca della prima visita”, così da consentire di “rilevare l’alterazione e prescrivere esame citologico con ago aspirato o quanto meno approfondimenti diagnostici quali ad esempio una Rx Mammografia”; a.2) anche la circostanza che “al momento della prima visita la paziente avesse già assunto da circa quindici giorni la terapia antiflogistica consigliata dalla Dott. P. avrebbe dovuto, a maggior ragione, indurre il senologo, informato della circostanza, a prescrivere esami volti ad accertare natura ed entità del persistente addensamento ghiandolare”, non rilevando il fatto che “i successivi esami ecografici (effettuati il 27.11.1997 e il 17.4.1998) gli siano stati mostrati solo il 22.4.1998”; a.3) era, quindi, “evidente anche alla luce del referto della visita, la totale, colpevole, sottovalutazione della presenza di un addensamento ghiandolare riscontrato all’ecografia e già trattato con terapia antiflogistica”, avendo il N. “licenziato la paziente senza un preciso programma teso a monitorare l’andamento dell’addensamento ghiandolare e senza la precisa indicazione di un arco temporale entro cui realizzarlo”; a.4) né la responsabilità del N. poteva essere esclusa in base al rilievo difensivo sulla “inevitabilità dell’intervento chirurgico, così come effettuato, anche in caso di diagnosi tempestiva”, giacché in quest’ultimo caso l’intervento “sarebbe risultato meno invasivo in quanto limitato alla “quadrectomia” senza svuotamento del cavo ascellare”; a.5) andava, pertanto, riconosciuto alla M., “quale conseguenza di un ritardo diagnostico di quasi undici mesi della patologia neoplastica, il “maggior danno” all’integrità psicofisica, individuato dal C.T.U. nell’inevitabile accrescimento del tumore ed evoluzione della malattia sino alla metastatizzazione ai linfonodi ascellari con conseguente linfedema dell’arto superiore destro ed episodi linfangitici ricorrenti…, nonché nello scadimento della qualità di vita e nel maggior disagio psicologico provocato dalla severità della prognosi e dalla consapevolezza della ritardata diagnosi”; b) era, invece, da accogliere l’appello incidentale della Dott. P., che aveva “assolto con prudenza, diligenza e perizia, la prestazione connessa al proprio ruolo”; b.1) la responsabilità della Dott. P. era “stata ritenuta sulla base della pedissequa adesione alla C.T.U. senza peraltro che risultino precisati i profili di negligenza ed imperizia nella sua condotta in relazione allo specifico ambito delle attribuzioni e competenze connesse alla sua qualità professionale di medico ecografista, tenuto alla corretta diligente esecuzione dell’esame ecografico e alla corretta interpretazione refertazione delle immagini e non già la prescrizione di ulteriori esami e terapie”, come, peraltro, confermato da Cass. n. 10158/2018 in relazione ai compiti professionali del medico radiologo; b.2) nella specie, non era “chiaro il qualificato inadempimento, imputabile alla Dott. P., astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, non risultando né dalle allegazioni attoree né dagli accertamenti del C.T.U., errori od omissioni attinenti lo specifico ambito di competenze coinvolte nel ruolo professionale di ecografista”; b.3) anzitutto, non vi erano elementi tali da indurre “a ritenere che l’ecografia sia stata eseguita con modalità non corrette e/o che vi sia stata una erronea refertazione delle immagini”, non essendo sul punto del tutto condivisibile la C.T.U., “in quanto il Consulente, pur avendo in più punti della relazione fatto decorrere dal luglio del 1997 quindi da epoca successiva alla data della prima ecografia, la emergenza di dati clinici indicativi di una sospetta neoplasia, ha poi fatto un mero accenno alla erronea interpretazione dell’esame ecografico…, senza peraltro precisare in base a quali elementi l’addensamento ghiandolare non avrebbe potuto, in prima battuta, essere ricondotto ad un fenomeno flogistico”; b.4) lo stesso C.T.U. “implicitamente conferma(va) la correttezza della condotta dell’ecografista laddove afferma che la stessa prima ecografia del 23.06.1997, evidenziando un addensamento ghiandolare, già forniva al Dott. N. gli elementi utili per la formulazione di un sospetto di neoplasia e quindi la prescrizione di ulteriori esami accertamenti diagnostici” e, del resto, “il referto dell’ecografia espressamente suggeriva “controllo dopo opportuna terapia medica” e quindi già conteneva utili indicazioni per il senologo che avrebbe visitato la paziente una volta eseguita la terapia”; c) infine, non poteva trovare accoglimento l’appello incidentale della M. che lamentava la “omessa pronuncia, da parte del Tribunale, in merito alla richiesta di risarcimento del danno da perdita di chance di sopravvivenza”, in relazione alla quale il C.T.U. aveva “determinato la diminuita probabilità di chances di sopravvivenza riconducibile al ritardo diagnostico della patologia… nella percentuale del 21,2% prendendo come parametro dati statistici che si riferiscono a un arco temporale che va dai 5 ai 10 anni”; comma 1) “tuttavia, il danno da perdita di chance, identificandosi nella perdita di una possibilità (nella specie di più lunga sopravvivenza), presuppone che tale perdita si sia concretamente verificata per essere il soggetto danneggiato vissuto un tempo inferiore a quello che verosimilmente avrebbe potuto vivere e richiede ai fini della sua liquidazione equitativa che si tenga conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile (Cass. n. 7195/2014, Cass. n. 5641/2018)”; comma 2) nella specie, una “perdita della chance di una più lunga sopravvivenza non si è verificata in quanto la M. è tuttora viva e libera dalla malattia a distanza di 14 anni dalla scoperta della patologia, quindi ben oltre i 5-10 anni utilizzati dal C.T.U. quale parametro per la determinazione statistica delle probabilità di sopravvivenza”; comma 3) sicché, dovendo “la liquidazione del danno avvenire ex post”, non spettava alla M. tale voce risarcitoria “per non essersi verificata in concreto alcuna diminuzione delle possibilità di sopravvivenza in capo” alla medesima danneggiata.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre M.M., affidando le sorti dell’impugnazione a due motivi.
Hanno resistito con controricorso P.M.L., nonché N.G., il quale ha anche proposto ricorso incidentale sulla base di due motivi.
La P. e il N. hanno depositato memoria.
Il pubblico ministero ha depositato le proprie conclusioni scritte ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, (convertito, con modificazioni, nella L. n. 176 del 2020) e D.L. n. 228 del 2021, art. 16, (convertito, con modificazioni, nella L. n. 15 del 2022), con le quali ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale e del primo motivo del ricorso incidentale.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
Ricorso principale di M.M..
1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218,1223 e 2236 c.c., e art. 115 c.p.c., “nonché dei principi di diritto vivente sugli obblighi a carico del medico ecografista, per avere la Corte di appello ritenuto esente da responsabilità la Dott.ssa P.”.
La ricorrente sostiene, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello, che “non è possibile esentare il medico ecografista dalla valutazione globale del dato clinico emergente dall’analisi e soprattutto dalla indicazione in favore del paziente dei successivi eventuali controlli o terapie da seguire”, non potendo assimilarsi il dovere di diligenza del medico ecografista “a quello cui è soggetto un mero tecnico di laboratorio”. Lo stesso diritto vivente – si argomenta ancora nel ricorso – ha chiaramente individuato “l’obbligo in capo al medico radiologo/ecografista, in presenza di evidenze non chiare o di semplici dubbi, di informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, ancorché gli accertamenti diagnostici più completi siano maggiormente invasivi per la paziente” (Cass. n. 24220/2015, Cass. n. 15386/2011).
Del resto, osserva la ricorrente, “la stessa Dott.ssa P. in realtà prescrisse una terapia farmacologica antiflogistica – l’assunzione di Ananase – e consigliò l’effettuazione di un’ulteriore controllo dopo l’assunzione della terapia”, altresì consigliando, dopo la visita del 17 aprile 1998, una “visita chirurgica”.
La Corte territoriale sarebbe, quindi, incorsa nella violazione degli artt. 1218,1223 e 2236 c.c., per aver sostituito ad una obbligazione gravante sul sanitario (ossia il “dovere più generico avente ad oggetto l’indagine delle eventuali patologie di cui la paziente (sia) portatrice e la loro cura”) “una causa di esonero della responsabilità che non ha fondamento normativo, riducendo l’ampiezza della diligenza richiesta al professionista”, da reputarsi, invece, responsabile per il grave inadempimento.
Ad ulteriore sostegno della censura di violazione di legge, la ricorrente deduce che dalle risultanze della espletata c.t.u. (segnatamente, pp. 14-16) era anche emersa la colpevole condotta della Dott.ssa P., da ritenersi responsabile di “un chiaro errore diagnostico”, dovuto ad “erronea interpretazione dell’esame ecografico eseguito, considerando gli aspetti rilevanti riconducibili ad un fenomeno flogistico”, mancando, quindi, di “richiedere o consigliare ulteriori accertamenti” (Rx Mammografia, visita chirurgica, esame citologico su ago aspirato) che “avrebbero potuto consentire di porre la diagnosi differenziale con la neoplasia e, quindi, anticipare le cure”. Di qui, anche la violazione dell’obbligo “di informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione”.
1.1. – Il motivo non è fondato, sebbene occorra correggere la motivazione in diritto della sentenza impugnata, il cui dispositivo è comunque conforme a diritto (art. 384 c.p.c., comma 4).
1.1.1 – La Corte territoriale ha richiamato a sostegno della decisione un precedente di questa Corte (Cass. n. 10158/2018), da cui ha ritenuto di trarre l’asserto per cui il “medico ecografista (e’) tenuto alla corretta e diligente esecuzione dell’esame ecografico e alla corretta interpretazione refertazione dell’immagine e non già alla prescrizione di ulteriori esami e terapie” (p. 5 della sentenza di appello).
Invero, come già rilevato da Cass. n. 4652/2021, il precedente giurisprudenziale sopra citato è da intendere, in ragione della fattispecie materiale allora oggetto di cognizione, nel senso di non voler “esonerare il radiologo, in termini assoluti, dal consigliare ulteriori esami ed approfondimenti al paziente”, avendo, invece, evidenziato “che – in quello specifico caso – i medici coinvolti si erano attenuti alle linee guida e in base ad esse avevano prescritto controlli ravvicinati”, senza, quindi, poter essere destinatari di alcun addebito colposo.
E’, infatti, obbligo che conforma la prestazione sanitaria in genere, in base alla diligenza specifica di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, richiesta all’homo eiusdem generis et condicionis, quello del medico di rendere una diagnosi sulla base degli esami strumentali effettuati e, nel caso in cui tali esami non consentano, senza sua colpa, di avere ragionevoli certezze sull’effettiva condizione del paziente, di attivarsi per gli opportuni approfondimenti o indirizzare il paziente presso centri di specializzazione adeguati allo scopo (in tal senso: Cass. n. 15386/2011; Cass. n. 24220/2015; Cass. n. 30727/2019).
Occorre, quindi, enunciare, nel solco dell’orientamento consolidato di questa Corte, il seguente principio di diritto:
“il medico radiologo, essendo, al pari degli altri sanitari, tenuto alla diligenza specifica di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, non può limitarsi ad una mera e formale lettura degli esiti dell’esame diagnostico effettuato, ma, allorché tali esiti lo suggeriscano (e dunque ove, segnatamente, si tratti di esiti c.d. aspecifici del quadro radiologico), è tenuto ad attivarsi per un approfondimento della situazione, dovendo, quindi, prospettare al paziente anche la necessità o l’esigenza di far fronte ad ulteriori e più adeguati esami”.
La Corte territoriale, sebbene abbia affermato un principio distonico rispetto a quello appena enunciato, ha, tuttavia, fatto applicazione in concreto di quest’ultima regula iuris, sussumendo correttamente in essa i fatti accertati e, quindi, sottraendosi alle doglianze di parte ricorrente.
La ricorrente, difatti, non ha mosso censure pertinenti rispetto all’accertamento fattuale risultante dalla sentenza impugnata, veicolando unicamente un vizio di violazione di legge che, proprio sotto il profilo del giudizio di sussunzione, non può che essere delibato tenendo fermo, per l’appunto, l’accertamento della quaestio facti effettuato dal giudice di merito.
La prospettazione di detto vizio, come denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e’, infatti, attinente all’erronea riconduzione della fattispecie materiale a quella legale (e, quindi, del fatto alla norma che è deputata a dettarne la disciplina e regolarne gli effetti), la quale non può che essere costruita se non in forza dell’accertamento del fatto da sussumere così come operato dal giudice del merito, che funge da termine indefettibile del sillogismo tipico del paradigma dell’operazione giuridica di sussunzione, altrimenti (come rilevato, tra le altre, da: Cass. n. 18715/2016; Cass. n. 3965/2017; Cass. n. 7775/2018) si verrebbe a trasmodare nella revisione dell’accertamento fattuale di competenza di detto giudice.
E’, dunque, estraneo alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investe la ricostruzione e l’accertamento del fatto materiale (suscettibile, invece, di sindacato nei limiti previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ossia di omesso esame che sia decisivo e discusso tra le parti), da cui, invece, nella sua portata, come giudizialmente definita, deve muovere la censura di erronea riconduzione di esso alla norma di riferimento.
Nella specie (cfr. sintesi al p. 2.1., lettere b)-b.5) dei “Fatti di causa”, cui si rinvia), la Corte territoriale, per un verso, ha escluso che la Dott.ssa P. avesse erroneamente eseguito l’ecografia ovvero interpretato e refertato malamente il risultato della stessa (e, quindi, ha escluso un errore diagnostico in base all’esame allora effettuato) e, per altro verso, ha evidenziato come, in assenza di elementi contrari (non emergenti dalla stessa c.t.u.), l’addensamento ghiandolare, “in prima battuta”, era da ricondursi “ad un fenomeno flogistico”, per il quale la stessa ecografista aveva prescritto una congruente terapia antiflogistica (cfr. p. 3 della sentenza di appello; terapia a base di farmaco antinfiammatorio – “ananase” -, come evidenziato anche in ricorso: pp. 2 e 9) e suggerito l’effettuazione di un “controllo”, dopo la terapia medica (cfr. p. 6 della sentenza di appello).
In armonia con l’enunciato principio di diritto e in ragione dei fatti accertati, non può, dunque, nella specie ravvisarsi un inadempimento del medico ecografista per violazione del dovere di diligenza specifica, giacché il predetto sanitario, in coerenza con il risultato dell’esame ecografico correttamente eseguito e refertato (addensamento ghiandolare riconducibile a fenomeno flogistico), ha prescritto alla paziente una terapia coerente con il quadro degli
esiti dell’esame effettuato (assunzione di farmaco
antinfiammatorio) e, quindi, ha prospettato alla paziente stessa un ulteriore controllo successivamente all’azione della terapia prescritta, non limitandosi, quindi, ad una mera lettura delle immagini ecografiche, ma ponendo la diagnosi relativa con la terapia del caso, nonché indicando la necessità di controllo dopo l’effettuazione della terapia stessa e in ragione dei risultati da essa conseguiti.
2. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218,1223 e 2059 c.c., “per avere la Corte di appello ritenuto che il danno da diminuzione delle chance di sopravvivenza non integrasse un danno non patrimoniale”.
La ricorrente, nel richiamare anche la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 5641/2018, Cass. n. 28993/2019, Cass. n. 10424/2019), sostiene che la perdita di chance, una volta accertata, è evento di danno “definito e non controvertibile” e tale, quindi, da essere comunque risarcito secondo equità.
In particolare, verrebbe in rilievo la “perdita diretta di un bene reale, certo (sul piano sostanziale) ed effettivo… apprezzabile con immediatezza quale correlato del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali” e, dunque, non solo come “ridotta possibilità di sopravvivenza”; il bene giuridico tutelato sarebbe, dunque, identificabile “con il diritto alla salute, ma nell’ottica dell’esercizio del diritto di autodeterminarsi”.
La Corte territoriale avrebbe, quindi, errato a non considerare come certa la perdita della possibilità di sopravvivenza indicata dalla c.t.u. per un periodo ricompreso tra i 5 e 10 anni, giacché tale dato dal valore statistico ed ipotetico “non è condizione per il riconoscimento del danno stesso”.
Inoltre, il giudice di appello, nell’ancorare “la liquidazione del pregiudizio ad un effettivo scarto tra la sopravvivenza effettiva e quella possibile”, avrebbe confuso “il piano dell’accertamento causale” con “quello della liquidazione del quantum”, avendo il c.t.u. – il cui elaborato è datato 2008 – stimato la ridotta chance di sopravvivenza in ragione di un “orizzonte cronologico utilizzato ai soli fini statistici, quello cioè del 5-10 anni”, senza con ciò voler sostenere che la sopravvivenza della sig.ra M. avrebbe avuto quella durata (conclusione che lo avrebbe portato a contraddirsi da solo per essere la signora ancora viva)”.
La ricorrente assume, quindi, che il “concetto di speranza di vita” è relativo e riguarda un valore da collocare in un momento ben preciso, ossia quello in cui avviene l’errore diagnostico (dunque, non da considerare ex post – come ritenuto dal giudice di appello – ma con prognosi ex ante), che non concerne la “possibilità assoluta che la paziente ha di sopravvivere” e, dunque, non attiene all’ambito della causalità materiale o giuridica, ma soltanto a quello “di quantificazione del pregiudizio conseguente”.
La Corte territoriale avrebbe errato, altresì, nel tenere conto soltanto del “profilo della sopravvivenza effettiva della danneggiata, ma non ha preso in considerazione il diverso ma parallelo aspetto della libera autodeterminazione della paziente”, mancando di apprezzare il pregiudizio ad “una migliore qualità della vita” e quello correlato al ritardo nella conoscenza della patologia oncologica, tale da aver impedito alla paziente di “determinarsi in merito alle cure da intraprendere nella piena consapevolezza del proprio stato di salute”.
Dunque, il giudice di appello avrebbe violato gli artt. 1218,1223 e 2059 c.c., per aver liquidato il solo danno biologico e non l’integrale danno non patrimoniale patito da essa ricorrente, comprensivo della “perdita della chance di sopravvivere con la consapevolezza necessaria per far fronte alla malattia”, avendo confuso tale pregiudizio con “il tasso percentuale di sopravvivenza in un periodo di 5 o 10 anni”, nonché confuso “il piano della relazione causale materiale, con quello della liquidazione del pregiudizio, che può avvenire sulla base di parametri equitativi”.
2.1. – Il motivo è infondato.
2.1.1. – Alla luce dell’orientamento ormai consolidato di questa Corte (tra le altre: Cass. n. 5641/2018; Cass. n. 28993/2019; Cass. n. 12906/2020; Cass. n. 2261/2022; Cass. n. 25886/2022), la perdita di chance a carattere non patrimoniale per la lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze) conseguente – secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica – alla condotta colposa del sanitario ed integra evento di danno risarcibile (da liquidare in via equitativa) soltanto ove la perduta possibilità sia apprezzabile, seria e consistente.
A tal riguardo, l’attività del giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e dell’altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il criterio civilistico del “più probabile che non”, e procedendo, poi, all’identificazione dell’evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula, come detto, una incertezza del risultato sperato e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno.
La chance, quindi, si sostanzia nell’incertezza del risultato e la perdita, ossia l’evento di danno, si identifica proprio in ragione di questa insuperabile dimensione di incertezza, predicabile alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo (le c.d. leggi di copertura).
Tale evento di danno è risarcibile a seguito della lesione di una situazione soggettiva rilevante e non già direttamente in base a quella relazione causale tra condotta ed evento che la prevalente giurisprudenza in tema di “chance patrimoniale” ritiene operante, sin da questa fase dell’accertamento, secondo i canoni della probabilità rispetto al risultato sperato. Quest’ultima analisi si colloca invece a valle dell’evento di danno.
Dunque, poiché la chance è “possibilità di…”, il suo connotato consustanziale si rinviene nel concetto di “incertezza eventistica”.
2.1.2. – Nella specie, la Corte territoriale ha, per un verso, accertato che la M. è tuttora viva e libera dalla malattia a distanza di 14 anni dalla scoperta della patologia, quindi ben oltre i 5-10 anni utilizzati dal C.T.U. quale parametro per la determinazione statistica delle probabilità di sopravvivenza e, per altro verso, ha riconosciuto alla stessa M. il risarcimento del danno non patrimoniale anche per lo “scadimento della qualità di vita” e per il “maggior disagio psicologico provocato dalla severità della prognosi e dalla consapevolezza della ritardata diagnosi”.
Correttamente il giudice di appello ha verificato, al momento della decisione, che, rispetto a quanto ipotizzato dal c.t.u. (diminuzione della chance di sopravvivenza del 21,2% su un arco temporale tra i 5 e i 10 anni), nessuna perdita di “possibilità” si era verificata per essere la paziente non solo ancora in vita dopo 14 anni, ma, segnatamente, “libera dalla malattia”.
Del resto, varrà osservare che gli stessi parametri indicati dal c.t.u. sono tali, di per sé, da porre in dubbio, nella specie, la stessa “insanabile incertezza rispetto all’eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze” (così la citata Cass. n. 5641/2018).
Invero, quanto patito dalla M. è il danno per aver vissuto una diversa e peggiore qualità della vita in conseguenza della condotta colpevole del sanitario, ossia un pregiudizio che non attiene alla fattispecie della chance, ma che viene ad integrare un danno non patrimoniale conseguenza di una lesione certa, reale ed effettiva (cfr. ancora Cass. n. 5641/2018, là dove si conferisce concreta evidenza alla dommatica ricostruzione dell’istituto della chance non patrimoniale in ambito sanitario e per patologia oncologica attraverso talune esemplificazioni del relativo svolgersi: cfr., in particolare e per quanto interessa, p. 4, lett. c); si veda anche Cass. n. 10424/2019 – pure evocata dalla ricorrente, ma in modo non pertinente in quanto è stata correlata alla richiesta risarcitoria per perdita di chance – che, tuttavia, àncora la lesione del diritto alla piena autodeterminazione al “caso di colpevole ritardo nella diagnosi di patologie ad esito infausto”).
Dunque, il pregiudizio anzidetto è proprio quello che il giudice di secondo grado – come detto – ha risarcito nei predetti termini, confermando in parte qua la sentenza di primo grado.
Ricorso incidentale di N.G..
3. – Con il primo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218,1223,2236 c.c. e 115 c.p.c., “nonché dei principi di diritto vivente per avere la Corte di appello ritenuto di riscontrare responsabilità per ritardo di diagnosi in capo esclusivamente al Dott. N.G.”.
La Corte territoriale avrebbe errato nell’accertamento della responsabilità del sanitario, ex art. 1218 c.c., in quanto avrebbe prescisso “dalla individuazione, in concreto…, della corretta prestazione dovuta”, mancando di contestualizzarla al giugno/luglio 1997, ossia “in rapporto alle competenze scientifiche e alla prassi dell’epoca in cui i fatti si svolgono per integrare il profilo colposo dell’omissione”, tanto da non esplorare effettivamente il nesso di causalità tra ritardo imputabile ad esso senologo e il danno lamentato dalla M., la quale, non esibendo i risultati degli ulteriori controlli ecografici prescrittile, aveva impedito ad esso N. “di constatare la persistenza di flogosi all’esito della terapia antinfiammatoria” per ben nove mesi, venendone a conoscenza soltanto nell’aprile del 1998, “allorché ha rivisto la paziente”, là dove soltanto la Dott.ssa P., al novembre 1997, avrebbe potuto verificare gli effetti della terapia antinfiammatoria.
4. – Con il secondo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218,1223 e 2236 c.c., e art. 115 c.p.c., “nonché dei principi di diritto vivente per avere la Corte di appello ritenuto di riscontrare un pregiudizio da inadempimento causalmente collegabile al supposto ritardo di diagnosi ascritto al Dott. N.G. senza peraltro dichiarare il criterio di quantificazione corretto”.
Il giudice di secondo grado non avrebbe individuato la prova che la M. “avrebbe fornito circa l’aggravamento della propria situazione patologica causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari”, né, peraltro, gli stessi fatti costitutivi dell’aggravamento, che non risulterebbero neppure dall’espletata c.t.u. medico-legale.
Il consulente d’ufficio, infatti, aveva affermato che “la tecnica operatoria utilizzata alla fine degli anni 90 prevedeva in caso di interventi per neoplasia mammaria comunque “l’asportazione completa dei linfonodi ascellari””, per, poi, negare, contrariamente alla documentazione scientifica in atti, la “mera rilevanza sperimentale per l’epoca della cd. tecnica del linfonodo sentinella”, che avrebbe, negli anni a venire, ridotto la necessità di interventi chirurgici per la rimozione dei linfonodi ascellari.
Inoltre, la Corte territoriale avrebbe fondato il proprio giudizio sul “maggior danno” a carico della M. in conseguenza del ritardo diagnostico su elementi (“inevitabile accrescimento del tumore”; evoluzione della malattia “sino alla metastatizzazione dei linfonodi ascellari con conseguente linfedema dell’arto superiore destro ed episodi linfogitici ricorrenti”; “scadimento della qualità della vita” e “maggior disagio psicologico”) privi di supporto probatorio, di cui, del resto, a mente dell’art. 115 c.p.c., non è data alcuna evidenza nella sentenza impugnata, là dove, peraltro, non poteva neppure ritenersi, ai sensi dell’art. 1223 c.c., conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento la sussistenza di un danno risarcibile “causalmente collegabile allo scarsissimo ritardo con cui la paziente eseguì, nel concreto, gli ulteriori accertamenti prescritti” da esso senologo.
4.1. – I due motivi del ricorso incidentale – che, per la loro connessione, vanno scrutinati congiuntamente – sono in parte infondati e in parte inammissibili.
4.1.1. – Le censure non colgono, anzitutto, l’effettiva ratio decidendi che sorregge l’impugnata sentenza in ordine all’accertamento della prestazione sanitaria cui era tenuto il senologo e, quindi, all’inadempimento ad esso imputabile, che il ricorrente incidentale assume carente.
La Corte territoriale (cfr. sintesi al p. 2.1., lettere a)-a.5) dei “Fatti di causa”, cui si rinvia), in base alle risultanze probatorie (c.t.u. medico-legale e prova testimoniale), ha, invece, individuato e precisato quale fosse, nel concreto contesto della vicenda, l’inadempimento ascrivibile al medico specialista – e, dunque, per converso, la condotta alla quale esso avrebbe dovuto conformarsi – dando evidenza (p. 3 della sentenza di appello) ad una “totale, colpevole, sottovalutazione della presenza di un addensamento ghiandolare riscontrato all’ecografia e già trattato con terapia antiflogistica”, da cui, poi, era seguita la mancanza sia di un “preciso programma teso a monitorare l’andamento dell’addensamento ghiandolare”, sia di una “precisa indicazione di un arco temporale entro cui realizzarlo”; ciò che, peraltro, rende inconsistente anche la critica sulla mancata considerazione, da parte del giudice di appello, delle conoscenze scientifiche e dei protocolli dell’epoca.
Inoltre, la sentenza impugnata pone in risalto la circostanza che “già all’epoca della prima visita” (11 luglio 1997) era mancato un “controllo più accurato, così da poter rilevare l’alterazione morfo strutturale ragionevolmente già presente e, quindi, consentire l’effettuazione di esami e approfondimenti diagnostici idonei (esame citologico con ago aspirato e Rx Mammografia”). Condotta, questa, la cui violazione delle leges artis – e, quindi, della diligenza specifica imposta dall’art. 1176 c.c., comma 2, – era, altresì, determinata proprio in ragione del fatto che, al momento di quella prima visita dell’11 luglio 1997, l’addensamento ghiandolare a carico della paziente ancora resisteva alla terapia antiflogistica consigliata dalla Dott. P. in occasione della visita del 23 giugno 1997; un fattore, quindi, che avrebbe, comunque, dovuto indurre il senologo (“informato della circostanza”) ad un più attento trattamento del caso clinico.
4.1.2. – Anche le doglianze che lamentano l’erroneità della decisione impugnata in punto di accertamento della responsabilità di esso N. per il “maggior danno” patito dalla M. non colgono nel segno, poiché il giudice di appello, proprio sulla scorta delle emergenze probatorie (e, in particolare, dell’espletata c.t.u. medico-legale), ha evidenziato (p. 4 della sentenza di appello) che, in caso di diagnosi tempestiva, l’intervento “sarebbe risultato meno invasivo in quanto limitato alla “quadrectomia” senza svuotamento del cavo ascellare” e, quindi, il ritardo diagnostico (di quasi undici mesi) della patologia neoplastica era stato tale da aver determinato un accrescimento del tumore ed una evoluzione della malattia “sino alla metastatizzazione ai linfonodi ascellari con conseguente linfedema dell’arto superiore destro ed episodi linfangitici ricorrenti”, con conseguente “scadimento della qualità di vita” e “maggior disagio psicologico provocato dalla severità della prognosi e dalla consapevolezza della ritardata diagnosi”.
E il giudizio della Corte territoriale si pone in armonia con il principio (cfr. Cass. 21530/2021) per cui l’accertamento del nesso causale in caso di diagnosi tardiva – da compiersi secondo la regola del “più probabile che non” – si sostanzia nella verifica dell’eziologia dell’omissione, per cui occorre stabilire se il comportamento doveroso che l’agente avrebbe dovuto tenere sarebbe stato in grado di impedire o meno, l’evento lesivo, tenuto conto di tutte le risultanze del caso concreto nella loro irripetibile singolarità, giudizio da ancorarsi non esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (cd. probabilità quantitativa), ma anche all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica).
4.1.3. – Per il resto, le censure svolte con i motivi in esame sono orientate, nella sostanza, a far valere non già degli errores in iudicando, bensì, piuttosto, un vizio motivazionale (di insufficienza, illogicità e contraddittorietà della motivazione) della sentenza impugnata e, peraltro, secondo il paradigma di cui alla previgente formulazione (non applicabile ratione temporis al presente giudizio di legittimità) dell’art. 360 c.p.c., n. 5, senza che sia neppure dato rinvenire nelle stesse censure la deduzione, specifica, di un vizio di omesso esame di fatto storico decisivo, alla stregua della vigente disposizione del citato art. 360 c.p.c., n. 5, (al cui paradigma, del resto, va ricondotta anche la censura sulla difformità dei risultati di più c.t.u. espletate nel corso dei giudizi di merito: Cass. n. 31511/2022), là dove, peraltro, i fatti storici dedotti dai ricorrenti sono comunque quelli già valutati ed apprezzati dal giudice di appello.
E tanto è particolarmente evidente per le critiche rivolte all’apprezzamento del giudice di appello fondato proprio sulle risultanze della c.t.u. medico-legale, che il ricorrente reitera anche nella memoria ex art. 378 c.p.c., altresì deducendo profili di “nullità assoluta della perizia” che, in ogni caso, risultano inammissibilmente veicolati con tale atto difensivo, la cui funzione è solo quella di illustrare le doglianze originariamente proposte e non già di integrarle con altre censure o emendarne la sostanza (tra le molte: Cass. n. 5000/1986; Cass. n. 26670/2014; Cass. n. 26332/2016; Cass. n. 8939/2021).
5. – Vanno, dunque, rigettati entrambi i ricorsi, principale ed incidentale.
Entrambi i ricorrenti (avendo anche il N. chiesto l’accoglimento del ricorso della M. e spiegato a parziale sostegno anche un motivo dell’impugnazione incidentale) vanno condannati, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente P.M.L., come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta entrambi i ricorsi, principale ed incidentale;
condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.500,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 novembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2022