La Corte d’Appello di Napoli ha confermato la responsabilità del medico ginecologo per il delitto di omicidio colposo in danno della neonata deceduta per danni cerebrali conseguenti ad una asfissia intrapartum. Al sanitario è stato addebitato che, pur in presenza di tracciati cardiotocografici significativi di concreto rischio per il benessere del feto, non aveva operato un costante monitoraggio della accertata situazione di preallarme nè predisposto ed eseguito un intervento di parto cesareo che, se operato, avrebbe evitato l’asfissia ed il conseguente decesso della bambina.
Cassazione Penale – Sez. IV; Sent. n. 11493 del 11.03.2013
Svolgimento del processo
Con la impugnata la Corte di appello di Napoli ha confermato quella di primo grado che aveva dichiarato P.N., nella qualità di medico ginecologo della partoriente R.M., responsabile del delitto di omicidio colposo (art. 589 c.p.) in danno della neonata L.E., deceduta il X. per danni cerebrali conseguenti ad una asfissia intrapartum, verificatasi il X. .
Al sanitario è stato addebitato che pur in presenza di tracciati cardiotocografici significativi di concreto rischio per il benessere del feto, non operava un costante monitoraggio della accertata situazione di preallarme nè predisponeva ed eseguiva un intervento di parto cesareo che, se operato, avrebbe evitato l’asfissia intrapartum ed il conseguente decesso della bambina.
La scelta terapeutica operata dal P. si sarebbe rivelata fatale atteso che procedendo al parto naturale la nascitura avrebbe sofferto una grave asfissia che le avrebbe cagionato una tetra paresi spastica e poi la morte.
La R. era stata ricoverata in ospedale nella serata del X. . Secondo la lettura dei dati fornita dai giudici di merito, conforme a quella dei consulenti della parte civile, fondate su linee guida di un organismo scientifico di fama internazionale, già i tracciati cardiotocografici delle 22,30 (dal quale erano rilevabili contrazioni ogni dieci minuti di forte intensità ogni 100 secondi) e delle ore 5,35 rendevano evidente la necessità di sottoporre la partoriente ad un continuo controllo con cardiotocografia mentre il tracciato delle ore 7 doveva ritenersi chiaramente patologico, emergendo una riduzione di variabilità basale prolungata e la comparsa di decelerazioni tardive, che i consulenti della parte civile definivano “patterns cardiotocografici”, associati ad un rapido sviluppo di ipossia fetale con acidosi.
Tale situazione imponeva, in presenza del tracciato delle ore 7, e della circostanza che la gravidanza era a rischio, trattandosi di donna di 38 anni primipara, la immediata predisposizione del parto cesareo, considerato altresì che la dilatazione uterina era ferma a 4/5 cm. La nascita della bambina avveniva, invece, per parto naturale alle ore 7,55, del 7 agosto, con evidenti segni di asfissia intrapartum (indice di Apgar pari a 2, brachicardia, assenza di respiro spontaneo, ipotonia generalizzata ed una gravissima acidosi metabolica desumibile dalle tre somministrazioni di bicarbonato di sodio avvenute presso il reparto di terapia intensiva dell’ospedale di X. , ove la bambina era trasferita poco dopo la nascita e dal quale veniva dimessa due mesi più tardi con diagnosi di encefalopatia anossica ischemica; nel corso del ricovero presso l’ospedale X. veniva ulteriormente rilevato un quadro di tetraparesi spastica, tra le paralisi cerebrali più frequentemente correlate ad una asfissia acuta intrapartum).
I giudici di appello, confermavano, pertanto la vantazione del primo giudice, aderente alle conclusioni del consulente della parte civile, secondo il quale dalle indagini strumentali alle quali era stata sottoposta la bambina era rimasto accertato che il danno cerebrale si era verificato nel corso del parto e non durante la gestazione (ciò era dimostrato, in particolare, dal fatto che le prime indagini non avevano evidenziato subito una lesività in fase evolutiva avanzata a carico della corteccia cerebrale).
La Corte di appello prendeva anche in considerazione, disattendendole, le parziali diverse conclusioni dei consulenti della difesa, secondo i quali non era possibile escludere altre cause del danno cerebrale riportato dalla bambina in quanto l’asfissia perinatale può ritenersi dimostrata solo ove concorrano quattro condizioni: una acidosi metabolica comprovata da prelievi di sangue, mancanti nel caso di specie; un inizio precoce di encefalopatia neonatale, non dimostrata strumentalmente; una paralisi cerebrale di tipo spastico o discenetico, mentre nel caso di specie in alcuni momenti alla spasticità si era alternata una ipotonia tale da indurre a ritenere che vi fosse tetra paresi flaccida e non spastica, compatibile con un’asfissia antepartum; esclusione di altre patologie, che potevano non essere state rilevate dall’amniocentesi.
Sui tracciati cardiotocografici i medesimi consulenti osservavano che solo quello delle ore 7 poteva definirsi non patologico.
I periti di ufficio affermavano, invece, che non poteva ritenersi con certezza che l’asfissia fosse insorta durante il parto piuttosto che nelle ultime settimane di gravidanza.
Ciò premesso, quanto alla colpa, i giudici di appello affermavano che essa era da rinvenirsi nel fatto che il sanitario, pur avendo indotto il travaglio con prostaglandine, aveva affidato la partoriente ad una ostetrica e, sebbene richiamato più volte a causa dei fortissimi dolori avvertiti dalla R. appena un’ora dopo la somministrazione del farmaco, era ritornato in clinica solo verso le ore cinque, omettendo un costante monitoraggio della R.. Anche dal tracciato delle ore 7 – definito poco rassicurante dai consulenti dello stesso imputato – erano rilevabili anomalie del battito fetale che avrebbero imposto di valutare l’opportunità di un parto cesareo invece di attendere il parto spontaneo, verificatosi circa un’ora dopo con conseguente asfissia perinatale della quale sussistevano secondo i giudici tutti i fattori rivelatori (l’acidosi metabolica grave, comprovata dalla circostanza che alla bambina vennero somministrate tre dosi di bicarbonato di calcio e la diagnosi finale di tetraparesi spastica, indicativa di una origine intrapartum della asfissia). Le indagini strumentali non avevano, invece, rivelato alcun elemento sul quale fondare la diagnosi di tetra paresi flaccida formulata dai consulenti della difesa. La stessa ingravescenza del danno cerebrale era dimostrativa secondo la sentenza che il danno cerebrale era insorto nel corso del parto nè le indagini strumentali eseguite nell’arco dei nove mesi avevano rilevato la presenza di malattie genetiche. Il rilievo della condotta omissiva veniva dai giudici di merito ricollegato all’argomentazione del consulente della parte civile,non contrastata dagli altri medici, secondo la quale è sufficiente un tempo di dieci minuti intercorrente tra la comparsa dell’anomalia cardiotocografica e l’intervento ostetrico perchè si produca, in presenza di ischemia e ipossia fetale, un danno neurologico irreversibile.
Avverso la predetta decisione propongono ricorso per cassazione l’imputato e la Clinica X. , nella qualità di responsabile civile, articolando sostanzialmente gli stessi motivi.
Con il primo motivo lamentano il vizio di motivazione, sotto il profilo del travisamento della prova, sul rilievo che entrambi i giudici di merito avevano omesso di valutare i rilievi formulati sia dai periti nominati dal giudice sia dai consulenti di parte sulla ipotesi scientifica prospettata dall’accusa.
Si sostiene che il primo dato probatorio oggetto di travisamento è quello afferente l’apprezzabilità di un asfissia intra partum attraverso i tracciati cardiotocografici, dei quali era stata fornita una lettura conforme a quella dei consulenti della parte civile, discordante da quella dei periti e dei consulenti della difesa. Sul punto, premesso che il tracciato cardiotocografico non è strumento idoneo a rilevare un’asfissia intrapartum. si lamenta che la Corte di merito aveva omesso di valutare la tesi prospettata dal CTU, secondo la quale l’unico tracciato negativo “patologico” era quello delle ore 7 e dei consulenti della difesa che avevano definito “poco rassicurante” ma non “patologico” quello delle ore 7, concludendo che non vi era stata alcuna avvisaglia di sofferenza fetale (anche dalla rottura delle acque era fuoriuscito liquido di colore chiaro, dato evidente del benessere del nascituro).
Ulteriore elemento di contraddittorietà della motivazione viene rinvenuto con riferimento alla patologia causa della morte. La Corte di merito, aderendo alla ricostruzione del primo giudice, aveva apoditticamente concluso che la morte della neonata si era verificata a causa di un’asfissia post partum produttiva di una tetra paresi spastica individuando quali indicatori della asfissia elementi asseritamente equivoci.
Tra questi la triplice somministrazione di bicarbonato era privo di pregio in quanto rientrante nelle ordinarie pratiche di rianimazione che la neonata aveva dovuto subire. Inoltre i giudici di appello, aderendo alla impostazione del primo giudice, non avevano preso posizione sulla questione controversa tra i periti afferente l’apprezzamento della esistenza di un’acidosi metabolica.
Si sostiene inoltre che la Corte di merito non aveva fornito risposta al rilievo che aveva evidenziato come dall’esame anatomo-patologico del cervello era risultato un danno ipossico a carico di strutture profonde, incompatibile con un’asfissia in fase di travaglio. Sotto altro profilo si deduce che la valutazione operata dai giudici di merito non aveva tenuto conto dei rischi connessi all’effettuazione del taglio cesareo evidenziati da uno dei consulenti dell’imputato.
Tale ultimo profilo viene trattato anche con il secondo motivo con il quale si deduce la violazione di legge con riferimento agli artt. 40 e 43 c.p., giacchè la Corte di appello avrebbe fondato la responsabilità penale del sanitario esclusivamente sulla posizione di garanzia rivestita dal medesimo senza tenere conto dei rilievi formulati nei motivi di appello sulla impraticabilità del parto cesareo nel caso di specie, omettendo ogni valutazione sulla possibilità da parte del medico di tenere la condotta doverosa omessa e mancando di procedere ad un giudizio contro fattuale.
Con il terzo motivo, richiamando una nota opinione della dottrina sulla natura normativa della colpa generica, si lamenta che i giudici di merito, nel valutare la presenza di un errore diagnostico, non avevano tenuto conto delle linee guida afferenti i criteri di scelta tra il parto naturale ed il taglio cesareo, dettate con la deliberazione della Regione Campania n. 118 del 2 febbraio 2005, in Bollettino Ufficiale n. 20 dell’11 aprile 2005, dimostrative del fatto che l’imputato non solo non fosse incorso in alcuna violazione del dovere di diligenza ma che il suo comportamento fosse assolutamente conforme a quelle direttive.
Motivi della decisione
In via preliminare va disattesa l’eccezione di prescrizione sollevata dal difensore nell’odierna udienza.
Invero va precisato che la morte della bambina, quale conseguenza del parto, si è verificata il X. , per cui l’inizio del decorso della prescrizione è da identificare in quella data, pur essendo stata la condotta posta in essere in data X. .
Poichè sono state concesse le attenuanti generiche, il termine massimo di prescrizione, pari a sette anni e mezzo (v. art. 157 c.p., comma 1, e art. 161 c.p., comma 2), sarebbe in astratto decorso il 6 luglio 2011. Bisogna però tener conto, al riguardo, dei periodi di sospensione della prescrizione.
Nel corso del giudizio di primo grado, nel caso in esame, vi è stato il rinvio dal 5 luglio 2007 al 10 dicembre 2007 per sciopero avvocati (5 mesi e 5 giorni); nel corso del giudizio di secondo grado all’udienza del 18 gennaio 2011 è stata formulata dal difensore dell’imputato istanza di rinvio per motivi personali e l’udienza è stata rinviata al 18 marzo 2011 (2 mesi); vi è stato poi il rinvio dal 18 marzo 2011 al 25 ottobre 2011 per sciopero avvocati (per complessivi 7 mesi e 7 giorni) ed infine all’udienza del 25 ottobre 201 le stata formulata nuova istanza di rinvio da parte del difensore, così che l’udienza è stata rinviata alla data del 2 dicembre 2011 (1 mese e 7 giorni). Ne consegue che alla data della pronuncia di questa sentenza la prescrizione non si era ancora maturata, in quanto il periodi di sospensione della prescrizione (complessivamente 1 anno, 3 mesi e 19 giorni), va sommato al termine di legge (7 anni e mezzo), così la data di prescrizione è stata correttamente calcolata al 25 ottobre 2012, data in cui era intervenuta una ulteriore causa di sospensione della prescrizione giacchè all’udienza del 23 ottobre, alla quale era stata inizialmente fissata l’udienza dinanzi a questa Corte, il difensore dell’imputato ha fatto pervenire istanza di adesione allo sciopero degli avvocati, con il conseguente rinvio alla data odierna, in assenza di opposizione delle altre parti.
Ciò premesso, il ricorso, comune ad entrambe le parti, è infondato e va rigettato.
A tal riguardo, giova premettere i limiti del controllo di legittimità quando ci si trova di fronte a una doppia sentenza di condanna e quando la doglianza (travisamento della prova, carenza di motivazione) è caratterizzato dalla diversa lettura delle relazioni peritali in atti.
Ebbene, in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi ad una “doppia conforme” e cioè ad una doppia conforme decisione (di condanna), le sentenze di primo e secondo grado vanno apprezzate nel loro complesso, onde valutarne la conformità al diritto ed alla logica, sì da poterne considerare la tenuta in sede di legittimità.
Parimenti, va ricordato che, in tema di ricorso per cassazione, alla luce della rinnovata formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, è ora sindacabile il vizio di “travisamento della prova”, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un dato di conoscenza considerato determinante, ma non desumibile dagli atti del processo, o quando si omette la valutazione di un elemento di prova decisivo sullo specifico tema o punto in trattazione. Tale vizio può essere fatto valere, però, solo nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, ma non nel caso in cui la sentenza di appello abbia confermato l’anteriore decisione (cosiddetta “doppia conforme”), posto in questo caso il limite posto dal principio devolutivo, che non può essere valicato, con coeva intangibilità della valutazione di merito del risultato probatorio, se non nell’ipotesi in cui il giudice di appello abbia individuato – per superare le censure mosse al provvedimento di primo grado – atti o fonti conoscitive mai prima presi in esame, ossia non esaminati dal primo giudice (Sezione 6, 10 maggio 2007, Contrada).
E’ quindi tenendo conto di queste premesse che vanno esaminati i motivi di ricorso, specie allorquando siano sviluppati sulla logicità degli argomenti spesi in motivazione a supporto della con divisibilità o no dei diversi apporti scienti scientifici di rilievo ai fini della ricostruzione del fatto e delle possibili responsabilità.
A tal riguardo, è indiscutibile che, in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicché, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, è inibito al giudice di legittimità di procedere ad una differente valutazione, poiché si è in presenza di un accertamento in fatto come tale insindacabile dalla Corte di cassazione, se non entro i limiti del vizio motivazionale (Sezione 4, 20 aprile 2010, Bonsignore).
E in questa prospettiva è altrettanto indiscutibile che non possa essere questa Corte ad interloquire sulla maggiore o minore attendibilità scientifica degli apporti scientifici esaminati dal giudice.
la Corte di cassazione non è giudice del sapere scientifico, giacché non detiene proprie conoscenze privilegiate: essa, in vero, è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine alla affidabilità delle informazioni che vengono utilizzate ai fini della spiegazione del fatto.
Ed allora, come anticipato, il giudice di legittimità è e rimane pur sempre giudice della correttezza della motivazione e, quindi, (solo) del modo con cui una determinata affermazione scientifica è veicolata a supporto della decisione.
Non spetta alla Corte esprimersi a favore dell’una o dell’altra tesi (la Corte, infatti, non ha la competenza o la qualificazione per stabilire se la legge scientifica utilizzata sia affidabile o no, mentre può e deve limitare il proprio vaglio alla spiegazione razionale fornita in proposito dal giudice: in termini, Sezione 4, 30 settembre 2008, parte civile Rizza ed altri in proc. Codega ed altri;
Sezione 4, 17 settembre 2010, Cozzini ed altri). Ma spetta al giudice di merito fornire una spiegazione convincente che sia in grado di reggere – qui nell’ottica dell’al di là di ogni ragionevole dubbio ai fini della condanna – il vaglio della logicità e della persuasività. Vaglio che si risolve, per quanto evidenziato, in termini negativi.
E proprio facendo applicazione di questi principi che è immediatamente apprezzabile la non manifesta illogicità della sentenza, che ha proceduto ad un’attenta disamina comparativa tra i diversi apporti medico-legali (di cui non può qui esprimersi la condivisibilità o no: ovvero la preferenza dell’uno rispetto agli altri),aderendo ad una delle tesi scientifiche (qui, principalmente a quella prospettata dai consulenti della parte civile), senza eludere le tematiche specifiche che le altre tesi pur ponevano non arbitrariamente: in particolare, la questione della rilevanza fenomenica dei diversi tracciati tocografici e della rilevanza di questi e di ciascuna di essi ai fini e per gli effetti dell’indicazione di una sofferenza del feto e, quindi, della scelta inderogabile ed indilazionabile di eseguire il parto cesareo nonchè la questione della sussistenza di un’acidosi metabolica, rilevante, in ipotesi, per sostenere la tesi dell’asfissia intra partum.
Rispetto a queste decisive questioni, i giudici hanno saputo fornire una congrua e motivata ragione della scelta ed hanno dimostrato di essersi soffermato sulla tesi che hanno creduto di non dover seguire.
Basta rilevare, con riferimento alla questione del mancato monitoraggio tocografico e della rilevanza degli esiti dei tracciati ai fini della prova della condizione di sofferenza del feto, che il giudice di appello ha approfondito i profili di colpa addebitabili al sanitario, evidenziando non soltanto le conclusioni dal consulente del pubblico ministero e di quelli della parte civile, che hanno definito patologico il tracciato delle ore 7 – essendo state rilevate decelerazioni anomale del battito fetale – ma anche quelle dei periti di ufficio e degli stessi consulenti dell’imputato, i quali hanno definito, per gli stessi motivi, tale tracciato non rassicurante.
Non è, pertanto, manifestamente illogica la motivazione laddove i giudici di merito affermano che la condizione della paziente, già trentottenne alla prima gravidanza e con indotta stimolazione farmacologica del travaglio, avrebbe dovuto indurre il sanitario ad un monitoraggio continuo delle condizioni del feto onde valutare l’opportunità di un taglio cesareo, ancora possibile in quanto la donna presentava una dilatazione del collo uterino di appena cinque centimetri, così evitando al feto l’ulteriore stress correlato al parto naturale, avvenuto circa un’ora dopo.
Basta rilevare, ancora, con riferimento alla questione della sussistenza dell’acidosi metabolica, rilevante per sostenere la tesi dell’asfissia intrapartum, che i giudici di merito non hanno eluso una propria pertinente motivazione per disattendere la tesi fatta propria non solo dal consulente della difesa ma anche dai periti di ufficio, i quali avevano espresso il convincimento che fosse dubbia la presenza dell’acidosi metabolica e ciò avevano prospettato evidenziando la circostanza temporale che l’emogasanalisi era stata effettuata in tempi successivi.
Il giudice di appello ha recepito la tesi opposta ed richiamato anche la sentenza di primo grado, laddove il giudicante aveva evidenziato che, anche se non confermata dalle analisi, in quanto non eseguite nella prima ora di vita della neonata, detta acidosi metabolica era sicuramente deducibile dalla circostanza che alla bambina erano state somministrate tre dosi di bicarbonato di calcio, terapia utilizzata proprio in quei casi in cui il neonato presenti tale complicanza, certamente ricollegabile ad una ipossia da travaglio. In tal senso deponevano, del resto, come evidenziato nella sentenza, gli altri sintomi presenti nella bambina al momento della nascita: un indice di Apgar pari a 2, bradicardia, assenza di respiro spontaneo, ipotonia generalizzata, tutti elementi ulteriormente significativi della asfissia verificatasi al momento della nascita. Ed è anche di rilievo la considerazione svolta da entrambi i giudici di merito secondo la quale alcuna indagine strumentale eseguita nell’arco dei nove mesi aveva rivelato la presenza di malattie genetiche.
Alla luce di tali considerazioni non è, pertanto, elusivo il richiamo alla “posizione di garanzia” della vita della madre e della bambina rivestita dal sanitario- che aveva seguito la R. per tutta la gravidanza e si era impegnato con lei a seguirne il parto -, collegata dai giudici di merito alla positiva dimostrazione della colpa in cui lo stesso era incorso, omettendo di sottoporre la paziente ad un costante monitoraggio e di predisporre ed eseguire l’intervento di parto cesareo che, se eseguito, con elevato grado di credibilità razionale avrebbe evitato l’asfissia ed il conseguente decesso della bambina.
Anche l’ultimo motivo, con il quale si lamenta che i giudici di merito, nel valutare la presenza di un errore diagnostico, non avevano tenuto conto delle linee guida afferenti i criteri di scelta tra il parto naturale ed il taglio cesareo, dettate con la deliberazione della Regione Campania n. 118 del 2 febbraio 2005, è infondato.
Sul punto va, in via preliminare, osservato che, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, nel caso in esame il profilo di colpa accertato a carico del sanitario non è fondato su di un errore colpevole nella formulazione della diagnosi nè sulla imperizia dimostrata dallo stesso. Come sopra evidenziato, la responsabilità dell’imputato è stata, invece, individuata nella violazione del dovere di diligenza che gli imponeva di svolgere la sua attività secondo il suo modello di agente e nel rispetto delle regole di prudenza, la cui violazione ha determinato le premesse dell’evento letale. Non può, pertanto, essere utilmente evocata l’applicazione delle linee guida che riguardano e contengono solo regole di perizia e non afferiscono ai profili di negligenza e di imprudenza.
Nè, trattandosi di colpa per negligenza ed imprudenza, può trovare applicazione il novum normativo di cui alla L. n. 189 del 2012, art. 3, che limita la responsabilità in caso di colpa lieve.
La citata disposizione obbliga, infatti, a distinguere fra colpa lieve e colpa grave, solo limitatamente ai casi nei quali si faccia questione di essersi attenuti a linee guida e solo limitatamente a questi casi viene forzata la nota chiusura della giurisprudenza che non distingue fra colpa lieve e grave nell’accertamento della colpa penale.
Tale norma non può, invece, involgere ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza, perchè, come sopra sottolineato, le linee guida contengono solo regole di perizia.
Va, comunque, precisato, in via generale, che le linee guida per avere rilevanza nell’accertamento della responsabilità del medico devono indicare standard diagnostico terapeutici conformi alla regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia della salute del paziente e (come detto) non devono essere ispirate ad esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente (va ovviamente precisato che anche le aziende sanitarie devono, a maggior ragione in un contesto di difficoltà economica, ispirare il proprio agire anche al contenimento dei costi ed al miglioramento dei conti, ma tali scelte non possono in alcun modo interferire con la cura del paziente: l’efficienza di bilancio può e deve essere perseguita sempre garantendo il miglior livello di cura, con la conseguenza del dovere del sanitario di disattendere indicazioni stringenti dal punto di vista economico che si risolvano in un pregiudizio per il paziente).
Solo nel caso di linee guida conformi alle regole della migliore scienza medica sarà poi possibile utilizzarle come parametro per l’accertamento dei profili di colpa ravvisabili nella condotta del medico ed attraverso le indicazioni dalle stesse fornite sarà possibile per il giudicante – anche, se necessario, attraverso l’ausilio di consulenze rivolte a verificare eventuali particolarità specifiche del caso concreto, che avrebbero potuto imporre o consigliare un percorso diagnostico-terapeutico alternativo- individuare eventuali condotte censurabili (v. sulla natura delle linee guida e sulla loro rilevanza nelle scelte terapeutiche del medico e nella valutazione del giudice, Sez. 4, 11 luglio 2012, n. 35922, Ingrassia).
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese di questo giudizio in favore delle costituite parti civili, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese di questo giudizio, che, unitariamente e complessivamente liquida in Euro 3.000,00, oltre I.V.A. e C.P.A. nelle misure di legge.
Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2013