Alcuni medici, che hanno conseguito i relativi titoli di specializzazione all’esito di corsi

post laurea frequentati negli anni tra il 1983 ed il 1991, hanno agito nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR), dell’Economia e Finanze (MEF) e del Lavoro, Salute e Politiche Sociali, per sentirli condannare alla corresponsione della remunerazione prevista dalla Direttiva 82/76/CE o, in alternativa, al risarcimento dei danni per mancata attuazione della stessa, o ancora, in subordine, al pagamento del medesimo importo a titolo di arricchimento senza causa. Infatti, in base alla direttiva citata, e ad altre precedenti, gli Stati della Comunità erano tenuti a prevedere, entro un termine fissato per il 31/12/1982, la corresponsione di un’adeguata remunerazione a chi frequentasse corsi di specializzazione medica; inoltre, l’uniformità dei criteri di conseguimento delle stesse avrebbe anche consentito di riconoscere all’interno dell’intera Comunità il valore dei titoli di studio conseguiti nei Paesi che avessero dato loro attuazione.

Tribunale di Firenze sentenza del 24/02/2014

Fatto e processo

Gli attori e l’intervenuto, tutti laureati in Medicina e avendo conseguito titoli di specializzazione in diverse discipline in esito a corsi post lauream frequentati negli anni tra il 1983 ed il 1991, agiscono nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR), dell’Economia e Finanze (MEF) e del Lavoro, Salute e Politiche Sociali, per sentirli condannare alla corresponsione della remunerazione prevista dalla Direttiva 82/76/CE o, in alternativa, al risarcimento dei danni per mancata attuazione della stessa, o ancora, in subordine, al pagamento del medesimo importo a titolo di arricchimento senza causa.

In base alla direttiva citata, e altre precedenti, gli Stati della comunità erano tenuti a riconoscere entro un termine fissato per il 31/12/82 un’adeguata remunerazione a chi frequentasse corsi di specializzazione medica; l’uniformità dei criteri di conseguimento delle specializzazioni mediche, dettati dalle direttive, avrebbe altresì consentito di riconoscere all’interno dell’intera Comunità il valore dei titoli di studio conseguiti nei Paesi che avessero dato loro attuazione.

Lo Stato Italiano dato una prima parziale attuazione alla direttiva con il d.Lgs 257/91 (dopo una condanna per inadempimento della Corte di Giustizia Europea), ma solo ai medici iscritti alle scuole di specializzazione a partire dall’a/a 1991/92.

A seguito di ricorsi proposti avanti al TAR Lazio da alcuni specializzati, e delle relative sentenze di accoglimento, è stata successivamente approvata la L. 370/99, la quale tuttavia rappresenta di nuovo un adempimento solo parziale all’obbligo internazionale, poiché ha esteso il beneficio economico a quei soli soggetti che avessero frequentato corsi di specializzazione a partire dal 1983 ma che avessero anche ottenuto una sentenza favorevole del giudice amministrativo, passata in giudicato.

Gli attori assumono che, in conformità della direttiva comunitaria, il diritto avrebbe dovuto essere riconosciuto anche a chi ha frequentato i corsi di specializzazione negli anni tra il 1983 ed il 1991 ma non abbia ottenuto una sentenza dal TAR Lazio: di qui le domande proposte.

La causa era già stata introdotta avanti al Tribunale di Roma che, con sentenza del 16/3/09, ha declinato la sua competenza ravvisando quella del Tribunale di Firenze, avanti al quale il giudizio è stato riassunto.

Si sono costituiti i convenuti sollevando eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, prescrizione, carenza di legittimazione passiva del MIUR e di infondatezza della domanda.

Motivi della decisione

(1) L’eccezione di difetto di giurisdizione è infondata: rappresenta ormai principio consolidato quello per cui “La domanda con cui il laureato in medicina, ammesso alla frequenza di un corso di specializzazione (nella specie, nel triennio 199311996), chieda la condanna della P.A. al pagamento in suo favore del trattamento economico pari alla borsa di studio per la frequenza di detto corso – fondando detta richiesta o sull’obbligo dello Stato di risarcire il danno derivante dalla mancata trasposizione, nel termine prescritto, delle pertinenti direttive comunitarie, ovvero sull’immediata operatività di queste ultime o sull’applicabilità retroattiva della normativa nazionale di recepimento (d. lgs. 8 agosto 1991, n. 257) – spetta alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che, stante il carattere incondizionato e sufficientemente preciso ditali direttive, la natura della situazione giuridica che esse attribuiscono agli specializzandi non può che avere natura e consistenza di diritto soggettivo.” (da ultimo, Cass. SU 13909/11).

(2) La domanda formulata in via principale dagli attori (ma, all’esito della causa, riproposta solo in via subordinata), per la condanna dei convenuti al pagamento della remunerazione prevista dalla Direttiva 82/76/CE, non può essere accolta.

La Direttiva non ha carattere di sufficiente specificazione per essere immediatamente applicabile (self-executing), ossia senza una legge di recepimento, poiché non precisa l’ammontare della remunerazione, la cui quantificazione è lasciata ai singoli Stati, né chi debba corrisponderla; ne segue che, in mancanza di una norma interna che riconosca e configuri in ogni suo elemento costitutivo il diritto, non è possibile riconoscere alcuna remunerazione, comunque denominata, poiché ciò comporterebbe, appunto, poter quantificare la somma dovuta ed individuare un soggetto tenuto a pagarlaa.

Negli stessi atti di citazione e di intervento, infatti, si spiega come lo Stato Italiano non abbia dato completa attuazione alla Direttiva in parola, escludendo tutti coloro che hanno conseguito la specializzazione entro il 1991: e proprio tale inadempimento all’obbligo comunitario impedisce di ravvisare nel panorama normativo una legge che riconosca e configuri compiutamente il diritto ad una remunerazione, a chi si trovi nelle condizioni degli attori.

Lo stesso inadempimento, peraltro, può fondare la domanda di risarcimento del danno per inottemperanza all’obbligo comunitario, domanda che gli attori hanno svolto inizialmente in via subordinata e, all’esito della causa, in via principale.

Peraltro, poiché tenuto a recepire la direttiva era lo Stato Italiano, unico depositario del relativo potere legislativo, solo lo Stato – e non un singolo Ministero – può essere chiamato a rispondere dell’inadempimento dedotto.

Ne segue che rispetto alla domanda di risarcimento non solo il MIUR, come eccepito dai convenuti, ma anche il MEF ed il Ministero del Lavoro sono carenti di legittimazione passiva.

(3) L’eccezione di prescrizione.

La prescrizione in esame riguarda un diritto correlato ad un obbligo dello Stato che deriva non da fatto illecito bensì da “inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno” (Cass. SU 9147/09).

L’art. 4 Co. 43 L. 183/11 sancisce che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell’ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari soggiace, in ogni caso, alla disciplina di cui all’articolo 2947 del codice civile e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato.

Ritiene chi giudica, però, che detta norma non possa trovare applicazione nel caso di specie: non si tratta infatti di una norma interpretativa.

È ben vero che la sentenza sopra richiamata è stata pronunciata dalle SU proprio per dirimere un contrasto interpretativo, tra la tesi secondo cui il mancato recepimento di direttiva comunitaria non self executing integrasse inadempimento contrattuale e la tesi secondo cui integrasse illecito aquiliano.

Si tratta però di contrasto interpretativo che attiene esclusivamente alla ricostruzione dogmatica della natura di un istituto e non deriva da una errata o incompleta o imprecisa formulazione di legge.

L’intervento normativo, dunque, non ha la funzione di chiarire il senso di una norma da esso stesso dettata, o di affermare che il diritto in esame ha natura contrattuale o extracontrattuale (cosa che non spetterebbe neppure al legislatore, attenendo alla tipica attività interpretativa giurisprudenziale).

Lo scopo dell’intervento legislativo è piuttosto quello di attribuire ad un particolare diritto (quale che sia la sua natura) una determinata disciplina della prescrizione. Intervento perfettamente legittimo ma privo di efficacia retroattiva: sia in ossequio al principio generale secondo il quale una legge non dispone che per l’avvenire, in difetto di espressa disposizione contraria, sia per il motivo che una efficacia retroattiva comporterebbe l’abolizione di un diritto, per tutti coloro che fossero ancora perfettamente in tempo (secondo la disciplina previgente) a farlo valere e che, da un giorno all’altro, se lo ritroverebbero estinto.

La prescrizione, dunque, è decennale.

Si pone a questo punto il problema dell’individuazione del momento in cui la prescrizione ha iniziato a decorrere.

Non si ignorano approdi giurisprudenziali che affermano il principio secondo cui la prescrizione di un diritto nei confronti di uno Stato non inizia neppure a decorrere, fino a quando lo stesso Stato, che sarebbe obbligato ad adottare un provvedimento normativo per riconoscerlo, rimane inerte e procrastinando il proprio inadempimento de die in die. Pur confutando l’assolutezza di tale principio, recentemente la Suprema Corte ha ritenuto di individuare l’inizio della prescrizione nel momento in cui si è reso definitivo l’inadempimento dello Stato Italiano, con l’approvazione della L. 370/99 (Cass. 10813/11 e altre anche più recenti).

Chi giudica non condivide le conclusioni enunciate.

La Corte di Giustizia UE ha espresso nel tempo due principi fondamentali:

–           finché una direttiva non è stata correttamente trasposta nel diritto nazionale, i singoli non sono in grado di avere piena conoscenza dei loro diritti (..) Solo la corretta trasposizione della direttiva porrà fine a tale stato d’incertezza e solo al momento di tale trasposizione si è creata la certezza giuridica necessaria per pretendere dai singoli che essi facciano valere i loro diritti Ne deriva che, fino al momento dell’esatta trasposizione della direttiva, lo Stato membro inadempiente non può eccepire la tardività di un’azione giudiziaria avviata nei suoi confronti da un singolo alfine della tutela dei diritti che ad esso riconoscono le disposizioni di tale direttiva, e che un termine di ricorso di diritto nazionale può, cominciare a decorrere solo da tale momento. (sentenza Emmott del 25/7/91);

–           l’inadempimento di una direttiva sufficientemente specifica nell’attribuire un certo diritto, ma non tanto da essere self executing, dà luogo ad un obbligo di risarcimento del danno a favore del singolo (sentenza Francovich del 19/11/91).

Le sentenze citate si riferiscono a due diritti distinti, che hanno presupposti antitetici.

La prima di esse si riferisce al diritto riconosciuto dalla direttiva – nel nostro caso, il diritto ad una adeguata remunerazione – che sorge solo con l’approvazione della legge nazionale di trasposizione, e per il quale vale l’enunciato secondo cui la prescrizione non può iniziare a decorrere se non dalla corretta trasposizione della direttiva: infatti, prima di tale momento, il diritto non può essere esercitato, proprio perché non riconosciuto dal diritto interno ma solo da una norma comunitaria non così dettagliata da essere immediatamente applicabile (in relazione, per esempio, all’entità della retribuzione, o all’individuazione del soggetto tenuto a corrisponderla); e se non può essere esercitato il diritto non può nel contempo decorrere la sua prescrizione, fino a che perdura l’inadempimento dello Stato (de die in die).

La seconda sentenza si riferisce invece al diritto al risarcimento del danno, che sorge proprio in conseguenza del mancato recepimento della direttiva, in presenza di tutti i presupposti di fatto che fonderebbero il diritto.

Come già detto a proposito della domanda principale svolta dalla dr.ssa Z. – condanna dei convenuti al pagamento della remunerazione – essa attiene ad un diritto non esercitabile perché non riconosciuto dallo Stato Italiano, ma certo rispetto ad esso non si potrebbe neppure porre una questione di prescrizione, in conformità al principio affermato dalla sentenza Emmott.

Ma rispetto alla domanda di risarcimento, il principio enunciato dalla sentenza Emmott non è invocabile, trovando piuttosto applicazione quello affermato dalla sentenza Francovich.

Afferma la Suprema Corte, nella sua ultima pronuncia citata (Cass. 10813/11) che l’inadempimento dello Stato Italiano potrebbe essere individuato come definitivo solo nel momento in cui è stata approvata la L. 370/99, perché:

1) un diritto al risarcimento da mancato recepimento di direttiva comunitaria è configurato nel nostro ordinamento solo dopo la sentenza Francovich, da considerare fonte normativa interna in quanto emanazione della Corte di Giustizia che per la prima volta lo ha enucleato, e dunque solo dopo essa è stato possibile esercitare il diritto medesimo,

2) l’inadempimento che ha prodotto il danno non si è concretizzato in una condotta tenuta una tantum ma, derivando da omissione, si è rinnovato giorno dopo giorno e protratto fino a quando non è divenuto definitivo: momento che può essere fatto coincidere con l’entrata in vigore dell’ultima legge (la n° 370/99) di ulteriore (ma ancora parziale) attuazione della direttiva – anche considerando che quella stessa direttiva non può più essere trasposta nel nostro ordinamento essendo stata abrogata dalla successiva direttiva 2005/36/CE; legge (la n° 370/99) che avrebbe altresì rappresentato una sorta di riconoscimento dei diritti degli medici che si erano specializzati prima del ’91, con effetto dunque interruttivo della prescrizione, ma accompagnato dalla persistente volontà di non adempiere (se non nei confronti di chi aveva ottenuto sentenza favorevole del TAR).

Questo giudice non condivide i suriportati enunciati.

Non è così certo che, prima della sentenza Francovich, non fosse già evincibile dal nostro ordinamento la regola per cui lo Stato, se inadempiente rispetto ad obblighi assunti in sede internazionale, è tenuto a risarcire i danni che conseguono al suo inadempimento: il principio per cui anche gli obblighi imposti agli Stati membri da norme comunitarie possono fondare diritti soggettivi in capo ai singoli cittadini, da essi direttamente azionabili, era stato affermato dalla Corte di Giustizia comunitaria almeno fin dal 1963 (sentenza Van Gend); e ad esso è strettamente connesso l’altro per cui, se è individuabile un diritto soggettivo e questo è violato, il titolare ha diritto ad un risarcimento.

Quanto al secondo argomento sviluppato nella sentenza della Corte di Cassazione, esso non trova concorde questo giudice.

L’inadempimento dello Stato ha sicuramente natura permanente, come avviene in ogni ipotesi in cui il debitore che sia tenuto ad una prestazione non la esegue; e finché non la esegue, il suo inadempimento provoca un danno ai creditore. Ma ciò non significa che il creditore non possa agire per il risarcimento del danno, anzi il perdurare dell’inadempimento è proprio la ragione che fonda l’azione.

Ora, tra prescrizione ed esercizio del diritto vi è una diretta correlazione, nel senso che la prescrizione inizia a decorrere fin dal primo momento in cui un diritto può essere fatto valere: e allora, se si afferma che la prescrizione non ha ancora iniziato a decorrere, si afferma contemporaneamente che il relativo diritto non può essere esercitato.

Ma nei confronti dei singoli medici specializzandi il danno c’è già per intero nel momento in cui il rapporto di specializzazione giunge alla sua conclusione, avendo il medico fornito tutte le prestazioni che gli erano richieste senza che gli sia stato riconosciuto quel diritto alla retribuzione che gli sarebbe spettato.

Affermare che la prescrizione ha iniziato a decorrere solo con l’approvazione della L. 370/99, significa dire che, pur dopo le sentenze Vari Gend e Francovich, nessun medico specializzato avrebbe potuto chiedere il risarcimento del danno allo Stato Italiano – contraddicendo, nella sostanza, il contenuto stesso delle sentenze della Corte di Giustizia – perché avrebbe dovuto attendere che l’inadempimento dello Stato si consolidasse, mediante l’adozione di un atto – futuro, incerto – che rendesse inequivocabile la volontà del debitore di non eseguire la prestazione dovuta.

Si potrebbe allora ipotizzare che anche l’attuale azione proposta dagli attori sia inammissibile o improponibile perché lo Stato Italiano potrebbe sempre adottare un altro provvedimento legislativo che riconosca il loro diritto: ma sarebbe conclusione non condivisibile.

Un simile obbligo di attesa non era e non è configurabile; e non si vede cosa avrebbe potuto impedire l’accoglimento di una domanda di risarcimento proposta all’indomani della scadenza del termine assegnato agli Stati membri per dare attuazione alle direttive citate – o, per lo meno, di ritenerla ammissibile e proponibile; ma se era esercitabile il diritto al risarcimento, la sua prescrizione era in corso.

La prescrizione che non ha mai iniziato a decorrere, né dopo l’approvazione della L. 257/91 né dopo la L. 370/99, è quella che si riferisce al diritto alla remunerazione, negato ai soggetti esclusi e dunque da essi non azionabile: ma quella riferita al diritto al risarcimento era bensì esercitabile (e dunque correva la prescrizione) almeno fin dalla pubblicazione della sentenza della Corte di Giustizia (Francovich).

Né è possibile affermare che la L. 370/99 ha rappresentato il riconoscimento dei diritti dei medici specializzati prima del ’91, con conseguente interruzione della prescrizione: la limitazione del diritto a coloro che avevano ottenuto sentenza favorevole del TAR comporta, precipuamente, il disconoscimento del diritto degli altri, e non il loro riconoscimento.

Nel nostro caso, attori ed intervenuto si sono specializzati entro il 1991 e la prescrizione decennale, per quanto fin qui affermato, deve essere fatta decorrere dal conseguimento della specializzazione o, al più tardi, dallo stesso anno 1991, allorché era già scaduto il termine per l’attuazione della direttiva ed era stato affermato il diritto dei cittadini ad ottenere dallo Stato il risarcimento per inadempimento di obblighi comunitari.

In tal senso, in termini assai convincenti, si è espressa anche la Suprema Corte (Cass. 5842/10).

L’azione giudiziale è stata introdotta nel luglio 2008; e le lettere di messa in mora agli atti non possono avere effetto nella presente causa, posto che esse riguardano tutte un diritto (alla remunerazione) diverso da quello ritenuto astrattamente fondato nel presente giudizio (al risarcimento); parte attrice afferma che risarcimento e remunerazione sarebbero solo diverse qualificazioni dello stesso bene giuridico oggetto della domanda e, a tale proposito, richiamano pronuncia giurisprudenziale (Cass. 25570/11).

Chi giudica non condivide l’assunto: come detto, remunerazione e risarcimento hanno presupposti di fatto antitetici: la prima implicherebbe l’adempimento comunitario e si risolverebbe, a sua volta, in una domanda di adempimento di obbligo assunto dallo Stato con propria legge, il secondo al contrario implica l’inadempimento.

Si deve concludere che il diritto è ormai prescritto, essendo trascorsi più di 10 anni tra il momento in cui il diritto al risarcimento poteva essere esercitato ed il primo atto di esercizio.

Le stesse considerazioni valgono per la domanda di arricchimento.

La domanda è respinta. Le spese del processo possono essere compensate, stante la specialità della materia e l’articolato quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.

P.Q.M.

Il Tribunale di Firenze, definitivamente pronunciando, così provvede: rigetta le domande e compensa tra le parti le spese del processo.

Firenze, 24 febbraio 2014

Il giudice

dr. Niccolò Calvani