Con ricorso notificato ai soggetti in epigrafe indicati in data 21 luglio 2014 e depositato il successivo 6 agosto, i ricorrenti insorgono contro il provvedimento con il quale la Regione nel disporre il riordino dei Consultori ha, in sostanza, adottato alcune prescrizioni configgenti a loro dire che la libertà di coscienza come nel prosieguo verrà indicato.
Lamentano che la conseguenza pratica di tale provvedimento è che i medici obiettori di coscienza sarebbero spinti a non chiedere l’assunzione in un Consultorio familiare pubblico della Regione Lazio o a dimettersi da esso o a violare il dettato della propria coscienza.
2. Avverso il provvedimento impugnato i ricorrenti deducono: 1) Violazione dell’art. 9 in relazione all’art. 5 della Legge 22 maggio 1978, n. 194, 2) Violazione dell’art. 9 primo e terzo comma in relazione all’obbligo imposto anche al personale obiettore di prescrivere e somministrare “contraccettivi post-coitali”, 3) Violazione di legge, sviamento di potere, violazione dell’art. 2 della legge n. 194/1978; 4) Violazione degli articoli 2, 19 e 21 della Costituzione e 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (divenuta diritto vigente per effetto dell’art. 6 del Trattato di Lisbona).
Concludono con istanza cautelare e per l’accoglimento del ricorso.
3. La Regione Lazio si è costituita in giudizio contestando tutte le prospettazioni e rassegnando conclusioni opposte a quelle dei ricorrenti.
4. Alla Camera di Consiglio dell’8 ottobre 2014 l’istanza cautelare è stata respinta.
5. Sono intervenuti ad adiuvandum l’Associazione Giuristi per la Vita e l’Associazione Pro – Vita Onlus che hanno sostenuto in maniera più approfondita le argomentazioni proposte con le doglianze del ricorso principale e ne hanno quindi chiesto l’accoglimento.
6. Il Consiglio di Stato con ordinanza n. 588 del 5 dicembre 2015 ha riformato parzialmente la cautelare con riferimento alla fondatezza del ricorso nella parte in cui contesta il dovere del medico operante presso il Consultorio familiare di attestare, anche se obiettore di coscienza, lo stato di gravidanza e la richiesta della donna di voler effettuare l’IVG, ai sensi dell’art. 5, comma 4 della legge n. 194 del 1978.
7. Previo scambio di ulteriori memorie tra le parti costituite il ricorso, infine, è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 5 luglio 2016.
DIRITTO
1. Si prescinde dalle eccezioni proposte dalla Regione atteso che il ricorso è infondato e va pertanto respinto.
Con esso la Federazione ricorrente, con l’intervento ad adiuvandum dell’Associazione Giuristi per la Vita e dall’Associazione Pro Vita Onlus, impugna la il d.C.A. del 12 maggio 2014 n. 152 con il quale la Regione Lazio ha dettato la ridefinizione ed il riordino delle attività dei Consultori familiari regionali.
In particolare non concordano sulla disposizione relativa all’obiezione di coscienza e del seguente tenore: “In merito all’esercizio dell’obiezione di coscienza fra i medici ginecologi, che dati recenti pongono al 69,3% in Italia (Relazione Ministeriale sullo Stato di attuazione della legge n. 194/1978…) si ribadisce come questa riguardi l’attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell’interruzione volontaria di gravidanza, di seguito denominata IVC. Al riguardo si sottolinea che il personale operante nel Consultorio Familiare non è coinvolto direttamente nella effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare IVG.
Per analogo motivo il personale operante nel Consultorio è tenuto alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia routinaria che in fase post coitale, nonché all’applicazione di sistemi contraccettivi meccanici,…”.
2. Premessa una cospicua ricostruzione dei fondamenti umani, giuridici e costituzionali della obiezione di coscienza, della funzione consultoriale e degli effetti della cd. pillola del giorno dopo, con la prima censura rappresentano che nella misura in cui il decreto regionale intenda obbligare gli obiettori di coscienza ad effettuare le procedure per l’aborto di cui all’art. 5 della legge ne viola direttamente le disposizioni dell’art. 9 stante il quale: “Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione di gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione.”.
Con una ulteriore doglianza lamentano che la disposizione con la quale il personale operante nel Consultorio è comunque tenuto alla prescrizione dei contraccettivi ormonali anche post coitali, secondo parte ricorrente è comunque adottata in violazione dell’art. 9, commi primo e terzo.
Col terzo mezzo osservano ancora che la funzione consultoriale non è quella di preparare l’interruzione di gravidanza ma di fare il possibile per evitarla.
Con l’ultima doglianza parte ricorrente lamenta che col decreto commissariale la Regione pretende di limitare in via amministrativa l’estensione dell’obiezione di coscienza in contrasto col suo carattere di diritto fondamentale.
3.1 Come del tutto correttamente rilevato dalla Regione, col ricorso le parti tentano di rimettere in discussione posizioni abortiste ed antiabortiste che hanno già trovato una loro composizione nella legge n. 194 del 1978 le cui disposizioni sono state confermate più volte dalla Corte Costituzionale in sede di pronunce sulla ammissibilità dei relativi referendum abrogativi: Corte Costituzionale, ordinanza del 10 febbraio 1981, n. 26 e ordinanza del 10 febbraio 1997, n. 35.
Ciò premesso nel merito parte ricorrente fonda il ricorso estrapolando la disposizione di cui all’art. 9, comma 1 della legge n. 194 del 1978 e dandole un valore assoluto, avulso dal contesto in cui essa è collocata.
In particolare non pare tener conto che se il comma 1 consente al medico o all’operatore sanitario obiettori di coscienza di non prendere parte alle attività di cui ai successivi articoli 5 e 7, il comma 3 del medesimo articolo 9 individua il rapporto tra l’obiezione di coscienza e l’impegno prestato eventualmente dal medico o dall’operatore in un Consultorio: “L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”.
E cioè, nella estrema delicatezza dell’argomento trattato, mentre il medico o l’operatore di un Consultorio che abbiano proposto la preventiva dichiarazione di obiezione di coscienza devono essere esonerati dal compimento delle procedure e delle attività volte a dare “specificamente e necessariamente” pratica attuazione all’interruzione di gravidanza, non sono invece esonerati “dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”.
Nel caso in specie dunque la disposizione del decreto commissariale impugnato con la quale si è consentito che il medico obiettore di coscienza rilasci il certificato dello stato di gravidanza della donna interessata o ne attesti la volontà di interrompere la gravidanza, comportano adempimento ai doveri professionali implicando quella serie di conoscenze mediche specialistiche che caratterizzano più propriamente la professione medica e non appaiono determinare la compressione della libertà di coscienza, laddove non siano rivolte ad attuare “specificamente e necessariamente” l’interruzione di gravidanza, ma a prestare la necessaria “assistenza antecedente e seguente all’intervento”, posto soprattutto che la decisione relativa alla interruzione della gravidanza pure in presenza di detta certificazione spetta all’interessata che può recedere da tale proposito.
Oltre a ciò è pure da osservare che il confine dell’obiezione di coscienza nelle procedure per l’interruzione della gravidanza è costituito dalla individuazione delle fattispecie di cui all’art. 328 c.p. e cioè del reato di omissione o abuso di atti di ufficio, confine che la giurisprudenza sull’argomento individua nell’atto “direttamente ed astrattamente idoneo a produrre l’evento interruttivo” non potendosi dunque risolvere in una “attività preparatoria e fungibile non dotata di rilevanza causale e diretta” all’aborto. Anche di recente la Cassazione penale ha affermato il principio per cui: “Integra il delitto previsto e punito dalla norma di cui all’art. 328 c.p. il rifiuto del medico di guardia, obiettore di coscienza, di intervenire per prestare necessaria assistenza alla degente nella fase successiva all’aborto indotto per via farmacologica da altro sanitario (cd. secondamento), e dunque in una fase non diretta a determinare l’interruzione della gravidanza. Il diritto di obiezione di coscienza, invero, non può intendersi in modo tale da esonerare il medico dall’intervenire durante l’intero procedimento di interruzione volontaria della gravidanza, in quanto si tratta di interpretazione che non trova alcun appiglio nella disciplina di cui alla legge n. 194 del 1978, la quale prevede che il diritto di obiezione di coscienza trova il suo limite nella tutela della salute della donna.” (Cassazione penale, sezione III, 2 aprile 2013, n. 14979).
Risultano chiaramente individuati i termini entro i quali la libertà di coscienza di cui è espressione l’obiezione del medico ginecologo di un consultorio va coniugata col diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione.
Sostanzialmente quindi è da escludere che l’attività di mero accertamento dello stato di gravidanza richiesta al medico di un Consultorio si presenti come atta a turbare la coscienza dell’obiettore, trattandosi, per quanto sopra chiarito, di attività meramente preliminari non “legate in maniera indissolubile, in senso spaziale, cronologico e tecnico” al processo di interruzione della gravidanza secondo quanto dalla giurisprudenza penale anche risalente è pure specificato.
3.2 . Ma non può essere condivisa neanche la seconda censura.
Con essa sostanzialmente le ricorrenti e le intervenienti Associazioni fanno valere la illegittimità dell’obbligo dettato dal decreto in parola di prescrivere e somministrare “contraccettivi post coitali” in quanto tale espressione comprenderebbe sicuramente preparati contenenti sostanze idonee a provocare la morte dell’embrione già formato, rendendo inospitale l’endometrio.
Anche tale posizione trova la sua contestazione nella giurisprudenza del Giudice delle leggi che nella sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975 ha escluso “l’equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”, come sostenuto in un giudizio sulla legittimità costituzionale dell’art. 546 c.p. sul reato, allora ancora esistente, di aborto di donna consenziente.
Analogamente in un giudizio di risarcimento del danno derivante da una nascita indesiderata per la mancata corretta diagnosi di accertamento di una malformazione congenita del concepito, la Corte di Cassazione ha rilevato che “nel bilanciamento tra il valore (e la tutela) della salute della donna e il valore (e la tutela) del concepito l’ordinamento consente alla madre di autodeterminarsi ricorrendone le condizioni richieste ex lege a richiedere l’interruzione della gravidanza.” (Cassazione civile, sezione III, 2 ottobre 2012, n. 17754).
Ma altri argomenti sulla legittimità dell’attività sanitaria ed assistenziale correlata alla somministrazione della cd. “pillola del giorno dopo” possono trarsi dalla stessa pronuncia addotta da parte ricorrente a sostegno della sua posizione e nella quale il TAR, nel decidere della legittimità di un decreto ministeriale di autorizzazione alla immissione in commercio di uno dei farmaci riportati in ricorso e considerati come abortivi, pur parzialmente accogliendo il ricorso del Movimento per la Vita, ha rilevato che le stesse “norme di rango costituzionale invocate (diritto alla esistenza e alla salute) non recano una nozione certa circa il momento iniziale della vita umana e l’estensione dell’ambito di tutela nel corso del suo sviluppo;” (cfr. Tar Lazio, sezione I, 12 ottobre 2001, n. 8465). Ha specificato ancora il TAR che: “l’esame sistematico della regolamentazione dettata dalla legge n. 194/1978….induce a ritenere che il legislatore abbia inteso quale evento interruttivo della gravidanza quello che interviene in una fase successiva all’annidamento dell’ovulo nell’utero materno. Tale conclusione è avvalorata dall’art. 8 della legge n. 194/1978 che in dettaglio prende in considerazione le modalità interruttive della gravidanza e ne impone l’effettuazione con l’intervento di un medico specialista ed all’interno di strutture ospedaliere o case di cura autorizzate, circostanze non peculiari alle metodiche anticoncezionali i cui effetti si esplicano in una fase anteriore all’annidamento dell’ovulo” (TAR Lazio, sez. I n. 8465/2001 cit.).
Tale decisione consente pure di rigettare il profilo della censura con cui parte ricorrente fa riferimento a due specifiche specialità medicinali attualmente in commercio che sortirebbero l’effetto di un aborto chimico, poiché non sarebbe possibile escludere che abbiano effetto anche in un momento successivo al concepimento, causando la perdita dell’embrione umano già formatosi, e tanto oltre che per le superiori considerazioni, anche perché l’aspetto di doglianza risulta affidato ad affermazioni apodittiche.
Per il resto occorre fare integrale riferimento alle controdeduzioni della Regione Lazio che, al contrario delle prospettazioni di parte ricorrente, sono affidate alle risultanze degli studi della Società Italiana della Contraccezione e della Società Medica Italiana della Contraccezione. Ed appaiono superate pure dalle decisioni assunte dall’AIFA con delibera del 21 aprile 2015 in ordine ad uno dei ridetti farmaci in particolare, del quale l’Agenzia ha modificato il regime di dispensazione, escludendo anche per la c.d. “pillola dei cinque giorni dopo” la necessità di prescrizione medica per le pazienti maggiorenni e mantenendo l’obbligo di prescrizione per le sole pazienti minorenni e tanto sulla base del provvedimento dell’Agenzia Europea dei Medicinali – Ema assunta a sua volta sulla base del parere del Comitato per i medicinali di uso umano (CHMP), con ciò dovendosi ritenere rigettata la doglianza in tutti i suoi aspetti.
3.3 La terza censura con cui i ricorrenti e gli intervenienti fanno valere l’incoerenza dell’operato della Regione che, col provvedimento esaminato, pone ostacoli alla presenza nei consultori degli obiettori di coscienza, quando, invece, la funzione consultoriale è quella di fare tutto il possibile per evitare l’interruzione di gravidanza, introduce nel dibattito un argomento ad esso del tutto estraneo in specie laddove, anche nelle premesse in fatto del ricorso, si rappresenta che la conseguenza pratica del provvedimento sarebbe quella che “il personale medico e sanitario che ritiene l’aborto quale uccisione di un essere umano, che considerano esistente l’essere umano sin dal suo concepimento e che quindi sono obiettori di coscienza sarebbero spinti a non chiedere l’assunzione in un Consultorio familiare pubblico della Regione Lazio e a dimettersi da esso per non violare il dettato della propria coscienza”.
Fermo restando che l’argomento introdotto appare proprio deviante rispetto alla rilevante tematica principalmente sollevata col gravame, va osservato che la circostanza che ben il 69,3% dei medici ginecologi in Italia è obiettore di coscienza, secondo quanto pure dal provvedimento esaminato è posto in rilievo, la rende del tutto inattendibile.
Specie se poi si considerano le funzioni dei Consultori familiari come sono state disegnate dal D.P.C.M. 29 novembre 2001 sui Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e stanti i quali sono ad essi attribuite le seguenti attività: “Assistenza sanitaria e socio – sanitaria alle donne, ai minori, alle coppie e alle famiglie; educazione alla maternità responsabile e somministrazione e dei mezzi necessari per la procreazione responsabile; tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento, assistenza alle donne in stato di gravidanza; assistenza per l’interruzione volontaria della gravidanza, assistenza ai minori in stato di abbandono o in situazione di disagio, adempimenti per affidamenti ed adozioni”.
Secondo quanto sopra osservato in ordine alla funzione di accertamento dello stato di gravidanza richiesta al medico di un Consultorio a fini di tutela della salute della donna non pare proprio che tale funzione certificativa, siccome rientrante nelle attività prettamente assistenziali del Consultorio ai sensi della legge istitutiva n. 405 del 29 luglio 1975, costituisca un baluardo insormontabile all’esercizio dell’obiezione di coscienza del medico ginecologo che aspiri a svolgere la professione all’interno di tale struttura. Anzi le attività di attestazione dello stato di gravidanza e di certificazione della richiesta di effettuare l’IVG inoltrata dalla donna, e che, per quanto visto sopra non possono essere considerate direttamente causative dell’interruzione di gravidanza, costituiscono momenti dell’iter da seguire per l’accesso alle pratiche abortive che, con quegli atti non iniziano, potendo la donna discostarsene come sopra considerato, con la conseguenza che la regolare erogazione del servizio di IVG in ogni Regione non può non passare per tale attività consultoriale, che va garantita anche a causa del massiccio ricorso all’obiezione di coscienza nelle strutture ospedaliere deputate all’erogazione della prestazione de qua.
3.4 Non può essere condiviso neppure il quarto motivo di ricorso, secondo cui il decreto regionale appare contrastare pure con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE.
La problematica ha costituito il panorama nell’ambito del quale il Comitato europeo dei diritti sociali ha adottato la decisione recentemente resa in data 11 aprile 2016 nell’ambito del sistema della Carta sociale europea del Consiglio di Europa.
Il Comitato ha accolto il ricorso proposto da una sigla sindacale italiana nel 2013 ed ha accertato la violazione dell’art. 11 (che protegge il diritto alla salute) letto unitamente all’art. E (che stabilisce il divieto di discriminazione), dell’art. 1 par. 2 primo profilo (che tutela le condizioni di lavoro) e dell’art. 26 par. 2 della Carta (che protegge la dignità sul lavoro).
Ancorchè il ricorso tendesse a tutelare la posizione della minoranza dei medici italiani non obiettori di coscienza, come applicazione del principio di non discriminazione sul luogo di lavoro, il Comitato ha, fra l’altro, osservato la persistenza di carenze nella fornitura del servizio di aborto in Italia a causa dell’obiezione di coscienza ed ha dunque sottolineato che queste situazioni possono comportare notevoli rischi per la salute e il benessere delle donne, in contrasto, dunque, con il diritto alla tutela della salute, come garantito dall’art. 11 della Carta sociale europea.
E tutto ciò senza pretermettere i precedenti della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno affermato l’obbligo positivo degli Stati di strutturare il servizio sanitario in modo da non limitare in alcun modo le reali possibilità di ottenere l’aborto e per altro verso di assicurare che l’obiezione di coscienza dei medici non impedisca in concreto l’accesso ai servizi abortivi cui le pazienti hanno diritto: CEDU P. e S. v. Portogallo 20 ottobre 2012; CEDU RR v. Polonia 20 novembre 2011; CEDU Tysiac v. Polonia 20 marzo 2007; CEDU A.B.C. c. Irlanda 16 dicembre 2010.
A tale scopo è preposta in Italia la legge 22 maggio 1978, n. 194 che dunque appare rispondere ai principi enucleati sulla questione dalla Corte di Giustizia Europea, oltre che ribaditi dal Comitato europeo per i diritti sociali, assicurando da un lato il bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nella vicenda, permettendo cioè ad alcuni di astenersi dal proprio ufficio e garantendo però la continuità del servizio cui gli obiettori sarebbero preposti e dall’altro tutelando così il diritto alla salute della donna, bilanciamento cui appare rispondere il provvedimento impugnato anche con riferimento alle più recenti incrementate percentuali di obiezione di coscienza (nel Lazio si giungerebbe ad oltre l’80% di ginecologi obiettori di coscienza), con conseguente reiezione del ricorso in ogni sua censura.
5. La delicatezza delle questioni trattate consente di ritenere giusti i motivi per la compensazione delle spese di giudizio ed onorari tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 luglio 2016 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Sapone,Presidente
Pierina Biancofiore,Consigliere, Estensore
Alfredo Storto,Consigliere