Vi è responsabilità penale dei medici chirurghi, laddove, attese le condizioni indiscusse ed indiscutibili della paziente (affetta da neoplasia pancreatica con diffusione generalizzata, alla quale restavano pochi mesi di vita e come tale da ritenersi “inoperabile”), non era possibile fondatamente attendersi dall’intervento, pur eseguito in presenza di consenso informato,un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. I chirurghi pertanto avevano agito in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico

Cassazione Penale – Sez. IV, Sent. N. 13746 del 07.04.2011

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Roma con sentenza in data 28 maggio 2009 confermava la sentenza emessa il 20 marzo 2008 dal Tribunale monocratico di Roma con la quale, concesse le attenuanti generiche, erano condannati:

1. H.C. alla pena di UN anno di reclusione;

2. N.C., alla pena di mesi DIECI di reclusione;

3. M.A., alla pena di mesi OTTO di reclusione;

quali responsabili del delitto di cui all’art. 589 c.p., commesso, con apporti di cooperazione cabale differenti (in relazione alle rispettive qualità: l’ H. in veste di primario chirurgo dell’Ospedale X. ;

il N. ed il M., in veste di medici chirurghi con qualifica di aiuti, in servizio nella stessa divisione) in danno della paziente L.G. cui cagionavano, nel corso di intervento chirurgico di laparoscopia – prima – e di laparotomia – dopo – lesioni non tempestivamente identificate, alla milza ed al legamento falciforme, dalle quali derivava un sanguinamento che determinava nella paziente – malata terminale per plurime affezioni neoplastiche – una conseguente emorragia letale.

Fatto verificatosi in X. .

La Corte d’appello di Roma, recependo e facendo propria la motivazione della sentenza di primo grado (che aveva condiviso le conclusioni formulate dal collegio dei periti nominati dal GIP in sede di incidente probatorio) ha individuato la causa mortis della L. (sopravvenuta ad ore 1,00 dell’X.  in costanza di ricovero ospedaliero) in un’insufficienza cardio- circolatoria sopravvenuta in paziente affetta da neoplasia pancreatica con diffusione generalizzata (metastasi plurime in corrispondenza del peritoneo, dei cavi pleurici, dell’intestino, delle ovaie, del fegato e dei polmoni) operata di ovariectomia e di asportazione di massa neoplastica presigmoidea con decorso post – operatorio complicato dal sanguinamento per lesioni al legamento falciforme e per la lacerazione del polo inferiore della milza.

Sulla base dell’esame autoptico, era emerso che i chirurghi operatori, dopo averne acclarato la inoperabilità, mediante esplorazione della cavità addominale della paziente per via laparoscopica, a causa della presenza di multiple affezioni neoplastiche interessanti vari organi e soprattutto di lesioni neoplastiche diffuse ai visceri addominali ed alle ovaie, avevano deciso di procedere ad una laparotomia tradizionale per asportare le ovaie e parte della massa neoplastica coinvolgente il sigma allo scopo di determinare la stadiazione della malattia. L’esecuzione della manovra di isolamento della coda pancreatica, indispensabile per verificare, in sede laparoscopica, le eventuali condizioni di operabilità della donna, provocava tuttavia una lacerazione del polo inferiore della milza ed una parziale disinserzione del legamento falciforme; da qui la causazione di un rilevante sanguinamento. Ora le lesione splenica, assai frequente in sede di preparazione dell’intervento di resezione pancreatica, secondo l’esperienza professionale dei periti medico – legali, obbliga talvolta il chirurgo, per ottenere l’emostasi, ad asportare la milza. Nel caso concreto, i chirurghi operanti, pur avendo in seguito proceduto all’asportazione in laparotomia delle ovaie, non si erano minimamente accorti della piccola lacerazione splenica; ciò perchè, come spiegato dai periti, una volta rimosso l’apparecchio visore necessario per la laparoscopia, il chirurgo, nel momento in cui aveva deciso di accedere per via tradizionale all’addome, non ebbe più la possibilità di accorgersi del sanguinamento e di esaminare la zona.

Hanno quindi i Giudici di secondo grado ravvisato la sussistenza del nesso di causa nell’omessa, tempestiva identificazione delle lesioni (soprattutto di quella splenica) causa dell’emorragia, avuto riguardo anche alle condizioni cliniche della paziente (rese manifeste dalla diagnosi di plurime affezioni neoplastiche formulate anche da un chirurgo ricercatore straniero che si occupava di cancro del pancreas) già note prima dell’intervento e soprattutto dei valori ematici nonchè della sintomatologia di anemizzazione che la stessa aveva presentato (ipotensione, senso di oppressione, ecc.) nel decorso post – operatorio, anteriormente all’esecuzione del primo massaggio cardiaco (ovvero tra le ore 20,00 e le ore 22,30) come pure nell’aver omesso di allertare il Reparto di guardia chirurgica, presidiato, quel pomeriggio, dal dr. A.. In particolare ha sottolineato la Corte d’appello che, come delineato nel capo di imputazione, all’imputato N. risaliva un contributo più rilevante nella causazione dell’evento finale. Questi, intervenuto al letto della paziente la sera del giorno del decesso, reintervenendo sulla donna senza anestesia e pur avendo rilevato la presenza di sangue nel peritoneo, avrebbe dovuto in primo luogo accertare da dove aveva origine il sanguinamento e quindi procedere a bloccare l’emorragia in atto, asportando la milza ovvero procedere all’emostasi con punti di sutura applicati al legamento falciforme.

Hanno infatti sostenuto i periti d’ufficio, formulando un giudizio medico – legale condiviso dalla Corte distrettuale, che, ove fossero state fatte le necessarie manovre di emostasi, l’emorragia sarebbe stata arrestata e probabilmente la paziente non sarebbe morta.

Il prioritario profilo di colpa in cui versavano gli imputati è stato evidenziato dalla stessa Corte nella violazione delle regole di prudenza, applicabili nella fattispecie, nonchè delle disposizioni dettate dalla scienza e dalla coscienza dell’operatore. Nel caso concreto, attese le condizioni indiscusse ed indiscutibili della paziente (affetta da neoplasia pancreatica con diffusione generalizzata, alla quale restavano pochi mesi di vita e come tale da ritenersi “inoperabile”) non era possibile fondatamente attendersi dall’intervento (pur eseguito in presenza di consenso informato della donna quarantaquattrenne, madre di due bambine e dunque disposta a tutto pur di ottenere un sia pur breve prolungamento della vita) un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. I chirurghi pertanto avevano agito in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico.

Ricorrono per cassazione tutti gli Imputati.

Il difensore di H.C., con il primo motivo di ricorso, deduce la violazione degli artt. 521, 522 e 604 c.p.p. assumendo la nullità della sentenza impugnata. I Giudici di merito hanno ravvisato elementi di colpa anche nella decisione di voler effettuare l’intervento chirurgico: addebito non contestato nel capo di imputazione, in ordine al quale lo stesso non ha avuto la piena possibilità di difendersi.

La Corte d’appello, inoltre, in violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. d), ha denegato l’ammissione, quale prova decisiva, di un CD – ROM contenente la videoriproduzione di un intervento laparoscopico, con contestuale lacerazione della milza per cm. 0,7, atto a dimostrare l’inverosimiglianza della tesi dell’accusa – mutuata dall’opinione espressa dai periti d’ufficio – secondo cui, in tali condizioni, si sarebbe verificata una fuoriuscita impercettibile (e quindi non accertabile) di sangue; circostanza direttamente integrante un profilo di colpa ascritto all’imputato, in termini omissivi.

Con il terzo ed il quarto motivo, deduce il ricorrente il vizio di difetto, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. La Corte d’appello non ha tenuto in alcun conto (non verificando peraltro le relative risultanze probatorie) la circostanza, di indubbia rilevanza, concernente l’incertezza diagnostica dell’origine del tumore, al cui accertamento mirava l’intervento di laparoscopia diagnostica, fermo il fatto, confermato anche dai periti d’ufficio, che la paziente, pur affetta da neoplasie in fase avanzata, non presentava condizioni di grave compromissione degli apparati cardiocircolatorio e respiratorio o delle funzioni del sistema nervoso centrale. In caso di tumore a partenza pancreatica (come purtroppo poi acclarato) non residuavano significative speranze di sopravvivenza; mentre nel caso di tumore di origine ovarica, le aspettative di vita potevano raggiungere i tre anni. Illogicamente disattendendo quanto sostenuto dai periti della difesa a rettifica di giudizi in precedenza espressi e dallo stesso imputato, i Giudici d’appello hanno ascritto agli imputati di non essersi colposamente accorti del cospicuo sanguinamento provocato alla milza durante la fase laparoscopica. In verità se fosse stata causata una siffatta lesione il sangue avrebbe invaso il campo operatorio (peraltro ingrandito otto volte dall’apposito visore) tanto più che la paziente (come ammesso poi al dibattimento dal perito prof. F.) era in posizione anti – Trendelemburg vale a dire con la testa in alto e le gambe in basso. Nè, passando dalla laparoscopia alla laparotomia, erano stati tolti i trocars, come accertato dall’ottica a fine intervento.

La Corte d’appello ha altresì omesso di valutare criticamente che alla condotta dell’imputato non poteva risalire la produzione di una lesione splenica di cm. 1,5 sia perchè, come chiarito dai periti della difesa, per accedere al pancreas, fu sezionato un breve tratto del legamento gastrocolico, in una sede distante dalla milza (tant’è vero che nell’esame autoptico non si accennava alla mobilizzazione della flessura splenica) sia perchè una sì rilevante lesione, provocando un cospicuo sanguinamento, non poteva passare inosservata, a fortiori dopochè l’intervento laparotomico, aveva avuto luogo una nuova esplorazione laparoscopica del tutto ignorata dai periti e dai Giudici di merito. Inoltre nessuno dei sintomi tipici di un’emorragia splenica (tachicardia, sudorazione fredda, caduta di pressione, ecc.) era stato registrato dall’anestesista, nel corso dell’intervento e neppure nel primo decorso post – operatorio, nella paziente, veduta invece da taluni testi chiacchierare con un’amica ed in buone condizioni e senza dolori, non potendo ritenersi sufficiente in contrario il solo dato, evidenziato dalla Corte d’appello, relativo all’emocromo. A smentire ancora l’assunto della Corte d’appello in ordine alla sussistenza di una lesione alla milza causata dall’imputato, evidenzia il ricorrente, valgono sia il fatto che, come attestato dal teste dr. G., medico di guardia, il materiale ematico aveva fatto la sua prima comparsa nei drenaggi solamente ad ore 22,30 circa del giorno dell’intervento (conclusosi in mattinata) durante le manovre rianimatorie sia la circostanza, emersa dall’esame autoptico, del rinvenimento, all’interno dello sfondato della loggia splenica, di una piccola raccolta di sangue, in parte coagulato, di 200 cc. Il che non poteva dirsi compatibile con una lesione della milza verificatasi al momento dell’intervento. Come emerso in dibattimento, non era comunque possibile che, anche ove vi fosse stata fuoriuscita di sangue dal legamento falciforme (che presenta, anatomicamente, vasi microscopici), da ciò sarebbe derivata un’emorragia mortale; donde l’errata affermazione di responsabilità degli imputati cui era pervenuta la Corte d’appello sul punto.

Con argomentazioni illogiche e criticamente non condivisibili, i Giudici di secondo grado hanno poi escluso le prospettazioni alternative avanzate dalla difesa, che aveva individuato la causa dell’emorragia, nel caso fortuito dovuto all’imprevedibile cedimento delle clips metalliche applicate per suturare i vasi sezionati durante l’ovariectomia; cedimento a sua volta cagionato dalle cattive condizioni generali dei tessuti della paziente, affetta da neoplasia.

Con il quinto ed il sesto motivo i ricorso, lamenta la difesa che la Corte d’appello, incorrendo nel vizio di violazione della legge penale, ha erroneamente ravvisato profili di colpa a carico dell’imputato nonchè la sussistenza del nesso di causa quando invece, in capo all’imputato H., non poteva ravvisarsi alcuna condotta penalmente rilevante. A fronte della reale ed imprevedibile causa dell’emorragia e della obiettiva gravità della neoplasia al pancreas allo stadio 4^, di cui la L. era portatrice, significativamente rilevante, per escludere il nesso di causa, è l’ulteriore fattore alternativo costituito da quanto affermato dai medici specialisti canadesi (interpellati dalla donna nell’agosto 2001) secondo i quali, in caso di tumore di origine pancreatica, alla stessa restavano circa sei mesi di vita; sicchè la morte della paziente sarebbe comunque sopravvenuta nel mese di dicembre, solo in dipendenza dell’ormai inarrestabile peggioramento della malattia.

Invoca da ultimo ed in subordine il ricorrente l’annullamento della sentenza per esser il reato estinto per maturata prescrizione.

Censura con distinto ricorso, il difensore dell’imputato M. la sentenza d’appello deducendo un unico motivo per contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo della stessa sentenza impugnata ovvero dagli altri atti del processo, specificamente indicati.

Erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto integrasse gli estremi della colpa l’aver deciso di sottoporre la paziente ad intervento chirurgico attesochè sia l’incertezza obiettiva della diagnosi circa l’origine del tumore (dovuta anche agli accertamenti eseguiti all’epoca, solamente tramite la TAC) sia la comprovata grande manualità di cui disponeva il prof. H. (riconosciuta anche dal perito d’ufficio prof. T.) potevano non escludere che un intervento radicale, pur presentando la paziente un quadro clinico di indubbia gravità, avrebbe portato ad un aumento della sopravvivenza e ad un miglioramento della qualità della vita.

Si duole altresì il ricorrente che i Giudici d’appello abbiano ritenuto, in contrasto con le risultanze dibattimentali, comunque valutate illogicamente, che la lesione che ebbe a causare il sanguinamento emorragico sia stata provocata nel corso dell’intervento chirurgico eseguito al mattino e che quindi alla lesione splenica ed a quella del legamento falciforme sia fatta risalire la causa dell’evento morte. Posto che le lesioni alla milza provocano notevole sanguinamento; che tale evento si era verificato solamente tra le ore 23 e le ore 1,00 (ora della morte), rendendo necessari due svuotamenti dei drenaggi; che al tavolo autoptico erano stati rinvenuti solamente 200 cc di sangue contenuti nello stomaco, la logica e sinergica valutazione di tali circostanze avrebbe dovuto condurre (contrariamente agli infondati assunti dei Giudici d’appello) ad affermare l’insussistenza della lesione emorragica provocata in precedenza, nel corso dell’intervento chirurgico.

Poichè il sanguinamento si era manifestato solo dopo le ore 22,30 a seguito della manovra rianimatoria, a questa non poteva che farsi risalire anche la lesione della milza (organo attinto da un vaso nel quale scorrono circa cinque litri di sangue al minuto, come chiarito dai periti) attesa la particolare violenza del massaggio cardiaco cui la paziente, per circa venticinque minuti, era stata sottoposta tanto da cagionarle la frattura dello sterno e di due coste tanto più che i valori dell’emoglobina erano rimasti buoni fino alle ore 23,14, dopochè avevano avuto inizio le pratiche rianimatorie. Denunzia da ultimo la difesa la violazione del disposto dell’art. 521 c.p.p. – pur ribadendo il vizio di manifesta illogicità della motivazione – in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nei ritenere l’imputato M. responsabile anche dell’intervento chirurgico eseguito dal dr. N. ad ore 0,5 del 12 dicembre 2001, direttamente al letto della paziente, quando invece era dato di fatto assolutamente incontrovertibile che il dr. M. non aveva preso parte a tale fase chirurgica, non essendo tale addebito oggetto di contestazione allo stesso; contestazione limitata alla mancata identificazione, per colpa generica – sia durante l’atto operatorio sia successivamente, prima del termine dello stesso – della lesione della milza, provocata dai tre sanitari nel corso dell’intervento chirurgico dagli stessi compiuto In equipe.

Con memoria depositata nell’imminenza dell’odierna udienza, il difensore del M., oltre ad insistere nell’accoglimento del proposto ricorso, ha altresì evidenziato, quale motivo nuovo, la sopravvenuta estinzione del delitto ascritto all’Imputato, per maturata prescrizione.

Con distinto ricorso redatto personalmente,l’imputato N., lamenta, in primo luogo, la nullità della sentenza di condanna emessa in grado d’appello stante il difetto di correlazione tra accusa contestata e fatto in essa ritenuto, con specifico riferimento alla decisione di procedere all’intervento ed alla sua condotta nei drammatici momenti dell’arresto cardiaco e del suo intervento in corsia. La mancata contestazione formale al N.; l’omissione di ogni indagine su tale decisione in occasione dell’interrogatorio dell’imputato; l’assenza di formulazione di quesiti sul punto ai periti nominati in sede di incidente probatorio costituiscono altrettante dimostrazioni del fatto che all’imputato è stata preclusa ogni attività difensiva.

Censura, in secondo luogo, il ricorrente l’illogicità delle argomentazioni con cui la Corte d’appello ha denegato l’acquisizione di un CD – ROM, richiesta dalla difesa ad illustrazione degli effetti di una lesione splenica ed a smentita degli infondati assunti dei periti secondo i quali una siffatta lesione, ancorchè lieve ed ancorché minima, avrebbe potuto causare un sanguinamento “cospicuo, ma lento”.

Denunzia in terzo luogo il ricorrente il difetto, la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione “nel merito” per essersi la Corte d’appello limitata a far proprie acriticamente le opinioni espresse dai periti d’ufficio, talvolta previo travisamento delle deduzioni dei consulenti della difesa. Costoro invero, contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, hanno dimostrato scientificamente l’infondatezza delle tesi d’accusa, unicamente fondate sul giudizio espresso dai periti d’ufficio, in ordine:

  • all’impossibilità della produzione di un’emorragia, in conseguenza della disinserzione del legamento falciforme;
  • alla inevitabile causazione di cospicuo ed abbondante sanguinamento per effetto di una lesione splenica, neppure essendo ipotizzabile che di esso gli operatori non si fossero immediatamente accorti giacchè il sangue avrebbe invaso massicciamente il campo operatorio tanochè, ove non rapidamente arrestata, una siffatta emorragia avrebbe condotto a morte la paziente molto rapidamente e non certamente dopo sei o sette ore come ritenuto nel caso di specie.

Motivi della decisione

L’impugnata sentenza, in applicazione del disposto dell’art. 129 c.p.p. va annullata senza rinvio essendo il reato ascritto agli imputati, estinto per maturata prescrizione, come evidenziato da tutte le parti anche in esito all’odierna discussione.

Risalendo la consumazione del delitto di cui all’art. 589 c.p. all’X. , il termine massimo di prescrizione di anni sette e mesi sei – tenuto conto delle interruzioni sopravvenute nel corso del procedimento – benché ulteriormente prolungato di mesi due e giorni quattro a motivo del periodo di sospensione compreso tra il 14 novembre 2006 ed il 18 gennaio 2007, a seguito del rinvio del procedimento di primo grado, disposto in dipendenza dell’astensione dei difensori dalle udienze si è definitivamente compiuto il 15 agosto 2009. Nella fattispecie, pur essendo entrata in vigore, in data 8 dicembre 2005, la L. n. 251 del 2005, il suddetto termine di prescrizione, benché calcolato secondo diversi parametri in applicazione delle due differenti discipline dell’istituto succedutesi nel tempo, dopo la data di consumazione del reato (art. 2 c.p.) non ha subito variazioni di durata, avuto riguardo al titolo del reato ed alla entità della pena detentiva prevista, atteso in particolare, ex art. 157 c.p., comma 1, n. 4 e comma 2, nel testo previgente, l’avvenuto riconoscimento a tutti gli imputati delle attenuanti generiche.

Tanto premesso, occorre verificare se, avuto riguardo ai motivi dedotti dai ricorrenti (sintetizzati nello svolgimento del processo ed ai quali si rinvia per evitare inutili ripetizioni) in relazione alle argomentazioni svolte dalla Corte d’Appello di Roma nell’impugnata sentenza, i ricorsi stessi presentino profili di inammissibilità per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perché basati su censure non deducibili in sede di legittimità, tali, dunque, da non consentire di rilevare l’intervenuta prescrizione (posto che si tratterebbe di causa originaria di inammissibilità).

Orbene, va detto che nessuno dei proposti ricorsi presenta connotazioni di inammissibilità essendo con essi prospettate censure aventi ad oggetto tematiche non solo relative a prospettati vizi di asserita erronea valutazione degli elementi probatori acquisiti ma anche concernenti questioni tecnico-giuridico, con preminente rilevanza medico – legale.

Per quel che concerne, l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p., comma 2, va ricordato che, in forza dei consolidati principi di diritto enunciati da questa Corte, il sindacato di legittimità, ai fini della eventuale applicazione della surrichiamata disposizione, deve essere circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente, sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini e di ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è Intervenuta, non può essere ritardata. Qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, deve prevalere l’esigenza della definizione immediata del processo (in tal senso cfr., ex plurimis, Sez. Unite, n. 35490/2009, Tettamant).

Nella concreta fattispecie, nella sentenza della Corte d’appello (resa peraltro a conferma della sentenza di condanna di primo grado) non sono riscontrabili elementi di giudizio idonei ad integrare la prova evidente dell’innocenza dei prevenuti, ma sono, anzi, contenute valutazioni di segno diametralmente opposto, logicamente conducenti all’accertamento della responsabilità degli stessi. Non sono pertanto ravvisabili ictu oculi.

I profili di violazione della legge sostanziale e processuale prospettati dai ricorrenti, posto che, avuto riguardo al testo della sentenza impugnata, si rileva che la Corte distrettuale – attraverso il percorso motivazionale sopra ricordato (nella parte relativa allo svolgimento del processo), da intendersi qui integralmente richiamato onde evitare superflue ripetizioni – ha analizzato, secondo i canoni prescritti, gli aspetti concernenti le problematiche relative alla sussistenza della condotta colposa contestata agli imputati e del nesso causale tra la condotta stessa, quale descritta nell’imputazione, e l’evento, non mancando di esprimere le proprie valutazioni al riguardo, con considerazioni che consentono di escludere non solo che possa ritenersi acquisita ovviamente senza la necessità di procedere ad alcun approfondimento nella valutazione del materiale probatorio agli atti – la prova evidente dell’innocenza degli imputati, ma anche che possa parlarsi di compendio probatorio contraddicono o insufficiente tale da legittimare il prevalere della causa di proscioglimento nel merito sulla causa estintiva del reato (cfr. Sez. Unite, n. 35490/2009, Tettamanti).

In linea di principio, sempre alla stregua del ricordato l’insegnamento delle Sezioni Unite, deve escludersi che il giudice di legittimità possa rilevare il vizio di motivazione della sentenza impugnata – che necessariamente condurrebbe all’annullamento con rinvio – essendo invece tenuto a far luogo alla immediata declaratoria di estinzione del reato, giacché la stessa pronunzia preliminarmente avrebbe adottare il giudice di rinvio. Identica conclusione va formulata in relazione alle questioni di nullità prospettate da tutti gli imputati, con le diverse argomentazioni in narrativa evidenziate, In ordine all’asserita violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza, stante, appunto, l’intervenuta declaratoria di prescrizione che comunque non consentirebbe di rilevare alcuna nullità, eventualmente configurabile.

Da ultimo giova rimarcare che, contrariamente a quanto sostenuto dai difensori degli imputati nel corso dell’odierna discussione, intervenuta una causa estintiva del reato, l’eventuale difetto o contraddittorietà od insufficienza della prova della colpevolezza dell’imputato non consente di accedere al proscioglimento nel merito, ex art. 530 c.p.p., comma 2 potendo prevalere la causa di non punibilità, à sensi dell’art. 129 cpv. c.p. e art. 531 c.p.p., comma 1, nel solo caso in cui quest’ultima sia “evidente”, emerga in modo palese, “positivamente” dagli atti processuali.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione