Nel giudizio introdotto dal medico nella situazione in cui la specializzazione non è indicata come comune a tutti gli stati membri o anche a due o più di essi, occorre accertare se la prospettata equivalenza si configuri oppure no.

Tale accertamento implica anche riscontri fattuali, cioè l’accertamento delle concrete modalità di svolgimento del corso, al fine della verifica del se esso corrisponda oppure no alle modalità ed ai contenuti del corso indicato come comune da due o più stati membri nell’art. 7.

Per il medico attore tanto comporta un onere di allegazione evidenziatore dei fatti giustificativi dell’equivalenza.

Corrispondentemente, a carico dello Stato convenuto, l’attività di contestazione della sussistenza dell’equivalenza non si connota soltanto come attività di difesa in iure, cioè supponente soltanto la rilevazione della mancanza di indicazione della denominazione del corso fra quelli indicati dall’art. 7, ma suppone anche un’attività di difesa e, dunque, di contestazione, in fatto delle modalità di svolgimento del corso, diretta ad evidenziare l’insussistenza dell’invocata equivalenza e postulante i necessari accertamenti.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 15-11-2016, sentenza n. 23201


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11356/2014 proposto da:

S.M., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO MIRABELLO 25, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO RINALDI, rappresentato e difeso dall’avvocato RENZO OPPI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

REPUBBLICA ITALIANA, MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA (OMISSIS), UNIVERSITA’ STUDI FIRENZE;

– intimati –

nonchè da:

UNIVERSITA’ STUDI FIRENZE in persona del Rettore p.t., MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA (OMISSIS), in persona del Ministro p.t., REPUBBLICA ITALIANA, in persona del Presidente del Consiglio p.t., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende per legge;

– ricorrenti incidentali –

contro

S.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 637/2012 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 03/05/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/07/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato ROBERTO RINALDI per delega;

udito l’Avvocato FABRIZIO FEDELI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale e rigetto del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo

p.1. S.M. ha proposto ricorso per cassazione contro la Repubblica Italiana, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica e l’Università degli Studi di Firenze, avverso la sentenza del 3 maggio 2012, con cui la Corte d’Appello di Firenze ha rigettato l’appello da lui proposto avverso la sentenza resa in primo grado inter partes nel 2005 dal Tribunale di Firenze, che aveva rigettato la domanda da lui introdotta nel 2003 per ottenere, in relazione alla frequenza di un corso di specializzazione medica nella situazione di inadempimento statuale dell’obbligo di recepimento della direttiva 82/76/CEE, il risarcimento del danno derivatogli dalla mancata consecuzione dell’adeguata remunerazione.

p.2. Al ricorso, che prospetta un unico complesso motivo, hanno resistito con congiunto controricorso le amministrazioni intimate, che hanno svolto nel loro controricorso un complesso motivo di ricorso incidentale condizionato.

p.3. Le resistenti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

p.1. Il ricorso incidentale dev’essere trattato congiuntamente al principale, in seno al quale è stato proposto.

p.2. Con l’unico motivo di ricorso principale è dedotta “violazione e falsa applicazione dell’art. 2935 c.c. in relazione agli artt. 2946 e 2947 c.c.. Errore di diritto. Art. 360 c.p.c., n. 3, in ordine alla decorrenza e alla durata del termine di prescrizione del diritto azionato”.

Vi si censura la sentenza impugnata, là dove essa, dopo avere rilevato che Cass. n. 9147 del 2009 aveva individuato la qualificazione del diritto degli specializzandi come relativa ad una responsabilità contrattuale e riconosciuto in conseguenza l’applicabilità della prescrizione decennale, ha fatto decorrere il relativo termine prescrizionale dalla data della conclusione da parte del ricorrente del corso di specializzazione e, conseguentemente ha ritenuto prescritto il suo diritto, in quanto quella data risaliva al 12 dicembre 1986 e le amministrazioni erano state messe in mora il 13 luglio 2001.

Il ricorrente adduce l’erroneità della individuazione del dies a quo della prescrizione, invocando l’orientamento di questa Corte (viene citata Cass. n. 17350 del 2011), secondo cui invece quel termine si doveva ritenere decorso solo dal 27 ottobre 1999.

p.2.1. Il motivo è fondato, ma solo nei riguardi della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Con le sentenze gemelle nn. 10813, 10814, 10815 e 10816 del 2011 (nel cui solco si pone la sentenza n. 17350 del 2011) questa Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “A seguito della tardiva ed incompleta trasposizione nell’ordinamento interno delle direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari – realizzata solo con il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257 – è rimasta inalterata la situazione di inadempienza dello Stato italiano in riferimento ai soggetti che avevano maturato i necessari requisiti nel periodo che va dal 1 gennaio 1983 al termine dell’anno accademico 1990-1991. La lacuna è stata parzialmente colmata con la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, che ha riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto in favore dei beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo; ne consegue che tutti gli aventi diritto ad analoga prestazione, ma tuttavia esclusi dal citato art. 11, hanno avuto da quel momento la ragionevole certezza che lo Stato non avrebbe più emanato altri atti di adempimento alla normativa europea. Nei confronti di costoro, pertanto, la prescrizione decennale della pretesa risarcitoria comincia a decorrere dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore del menzionato art. 11”.

Tale principio è stato poi costantemente ribadito dalla giurisprudenza successiva della Corte di Cassazione, fra cui, ex multis, dalle sentenze n. 3653 del 2016, n. 24075, 11034, 11221 e 11220 del 2015, e n. 23635 del 2014. L’unica voce dissonante, cioè Cass. n. 9071 del 2013, non solo risulta espressa senza considerare gli ampi argomenti delle sentenze gemelle e della successiva copiosa giurisprudenza, ma, inoltre, è stata confutata da Cass. n. 16104 del 2013.

Pertanto, il termine di prescrizione decennale, alla stregua di un orientamento consolidato, non decorreva dal momento di conclusione del corso di specializzazione, come del tutto erroneamente ha reputato la corte fiorentina, ignorando l’orientamento di questa Suprema Corte.

Ne consegue che del tutto erroneamente la Corte ha respinto la domanda attoree, perchè il termine prescrizionale, essendo iniziato il suo decorso il 27 ottobre 1999, non era ancora maturato non solo alla data di proposizione della messa in mora, ma neppure alla data di proposizione della domanda giudiziale (il che rende irrilevante la prospettazione della difesa erariale circa la non riferibilità della lettera di messa in mora alla Presidenza del Consiglio dei ministri.

La sentenza impugnata – tenuto conto di quanto si dirà sulla sorte del ricorso incidentale – deve essere, in conseguenza, cassata, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Perugia, comunque in diversa composizione. Il giudice di rinvio considererà la pretesa dei ricorrenti, qualificata alla stregua delle citate sentenze gemelle e della richiamata consolidata giurisprudenza, come non prescritta.

In proposito si rammenta che Cass. n. 1917 del 2012, seguita da conforme e costante giurisprudenza, ebbe anche ad affermare l’ininfluenza sul termine prescrizionale della L. n. 183 del 2011, art. 4, comma 43, statuendo che: “Il diritto al risarcimento del danno da inadempimento della direttiva n. 82/76/CEE, riassuntiva delle direttive n. 75/362/CEE e n. 75/363/CEE, insorto in favore dei soggetti che avevano seguito corsi di specializzazione medica iniziati negli anni dal 1 gennaio 1983 all’anno accademico 1990-1991 in condizioni tali che, se detta direttiva fosse stata attuata, avrebbero acquisito i diritti da essa previsti, si prescrive nel termine di dieci anni decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11. In riferimento a detta situazione, nessuna influenza può avere la sopravvenuta disposizione di cui alla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 4, comma 43 – secondo cui la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da mancato recepimento di direttive comunitarie soggiace alla disciplina dell’art. 2947 c.c. e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato – trattandosi di norma che, in difetto di espressa previsione, non può che spiegare la sua efficacia rispetto a fatti verificatisi successivamente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2012).

Si aggiunge che le considerazioni svolte nel controricorso e nella memoria dalla difesa erariale, con le quali si auspica un ripensamento circa le argomentazioni svolte a suo tempo dalle sentenze gemelle del 2011 ai fini della individuazione del dies a quo del corso della prescrizione, non sono in alcun modo idonee a giustificarlo, mentre, riguardo all’evocazione della sentenza della Corte di Giustizia resa il 19 maggio 2011 nella causa C-452, questa Corte si già pronunciata, dimostrandone l’irrilevanza, fin dalla sentenza n. 17868 del 2011 e, successivamente, ribadendola ripetute volte (come ad esempio proprio nella citata Cass. n. 1917 del 2012).

p.2.2. La fondatezza del motivo si configura, tuttavia, soltanto nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, che è il legittimato passivo in senso sostanziale rispetto alla pretesa creditoria.

Detta pretesa non si configurava nei confronti del Ministero e dell’Università (si vedano già Cass. n. 10814 e 17682 del 2011), bensì nei confronti della presidenza del Consiglio dei ministri quale rappresentante dello Stato legislatore. Essendo il dispositivo di rigetto della domanda quanto al Ministero ed all’Università conforme a diritto sotto tale profilo, la sentenza non dev’essere cassata con riguardo a dette parti, ma si deve solo correggere la sua motivazione a norma dell’art. 384 c.p.c., u.c..

p.3. Si deve a questo punto passare all’esame del ricorso incidentale condizionato delle Amministrazioni.

Esso, con riferimento alla posizione del Ministero e dell’Università rimane assorbito in ragione del consolidamento del rigetto della domanda nei loro confronti, mentre va esaminato riguardo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

p.4. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, si prospetta “improponibilità della domanda dei ricorrenti ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, dell’art. 2043 c.c., degli artt. 5 e 189 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, dell’art. 10 del Trattato istitutivo della Comunità Europea (Trattato di Roma) nella versione consolidata (GUCE n. C 325 del 24 dicembre 2002), dell’art. 117 comma 1 della Costituzione, dell’art. 16 della Direttiva CEE 82/76, nonchè degli artt. 5 e 7 della Direttiva “riconoscimento” 75/362/CEE del Consiglio, del 16 giugno 1975, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3″.

La doglianza è diretta a censurare la sentenza impugnata per non aver considerato che la disciplina comunitaria che prevede il diritto all’adeguata remunerazione degli specializzandi trova applicazione soltanto alle specializzazioni comuni a tutti gli Stati membri o a due o più di essi, menzionate negli artt. 5 e 7 della Direttiva 75/362/CEE, mentre il medico ricorrente avrebbe conseguito la specializzazione nella materia della “tossicologia medica”, ossia in una disciplina diversa da quelle ricomprese nel suddetto elenco di cui agli artt. 5 e 7. Da ciò deriverebbe, ad avviso del ricorrente incidentale, l’improponibilità della domanda dei ricorrenti principali ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3.

Il ricorso in tal modo prospetta una censura che concerne un punto su cui la sentenza impugnata non si è pronunciata, avendo evidentemente ritenuto dirimente la questione di prescrizione come questione c.d. più “liquida”.

Il punto su cui la sentenza impugnata non si è pronunciata, inerendo – secondo la prospettazione della difesa erariale – ai fatti costitutivi della domanda in iure, secondo l’ordine logico delle questioni, si connotava come preliminare rispetto alla questione della prescrizione, integrante un fatto estintivo del diritto azionato e, dunque, un’eccezione di merito.

Non essendosi il giudice di merito pronunciato sul detto punto si dovrebbe ritenere che la censura potrebbe riprospettarsi ed essere esaminata dal giudice di rinvio.

La difesa erariale postula, però, che si tratti di questione che questa Corte potrebbe decidere ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, cioè come questione evidenziante che la domanda non avrebbe potuto essere proposta.

Poichè, quando ricorre una simile questione, la rilevazione del non poter essere proposta la domanda è possibile direttamente d’ufficio da parte della Corte, in sede di esame del ricorso ed indipendentemente dal se sia stata prospettata con il ricorso ed anzi anche quando la questione non fosse prospettabile, perchè contraria al suo interesse, dal ricorrente, non è possibile negare che al potere di ufficio della Corte, riconosciuto dal terzo comma dell’art. 382 c.p.c., si debba accompagnare anche il potere di critica nella stessa direzione della parte intimata.

Tale potere deve ritenersi esercitabile necessariamente con un ricorso incidentale (non conoscendo la disciplina del ricorso per cassazione un istituto come quello dell’art. 346 c.p.c., per l’appello).

Il ricorso incidentale in questo caso è ammissibile ancorchè della questione il giudice di merito non risulti essersi occupato e, dunque, non risulti diretto contro una statuizione della sentenza. Fermo restando che siffatto ricorso soggiace agli stessi limiti che individuano il potere della Corte di cui all’art. 382 c.p.c., comma 3 e, particolarmente, a quello del riscontro della c.d. improponibilità della domanda senza necessità di accertamenti di fatto e sulla base, dunque, di come la vicenda processuale risulti pervenuta davanti alla Corte di Cassazione.

Per queste ragioni il motivo di ricorso incidentale tbc ritenersi ammissibile, salvo la concreta verifica della effettiva prospettazione con esso – come suggerisce l’intestazione del motivo, con cui la difesa erariale si è appunto posta nella logica dell’art. 382 c.p.c., comma 3 – di una questione a tale norma riconducibile.

p.4.1. Il motivo di ricorso incidentale, ferma la sua ammissibilità in tesi, è inammissibile in concreto.

Lo è, perchè è volto a sollevare una questione che, avendo anche una natura fattuale, non è riconducibile all’àmbito del terzo comma dell’art. 382 c.p.c., cioè alla questione di mero diritto della proponibilità della domanda, id est della sussistenza di una astratta previsione normativa che la giustifichi.

p.4.2. Nel caso di specie non è sostenibile, come invece adduce la memoria della difesa erariale, che si sarebbe in presenza di una mera quaestio iuris non comportante accertamenti di fatto, cioè di una questione risolvibile solo sulla base dell’applicazione di un paradigma normativo.

Infatti, lo stabilire se la specializzazione in tossicologia medica era ricompresa fra quelle in cui lo Stato Italiano era tenuto a legiferare in adempimento delle direttive nn. 75/362 e 75/363, siccome integrate dalla direttiva c.d. di coordinamento 82/76, nei vari sensi imposti dalla loro disciplina e segnatamente in funzione del riconoscimento dell’adeguata remunerazione, non è, al contrario di quanto opina la difesa erariale, una mera questione di diritto, cioè una questione che sia scrutinabile in questa sede di legittimità, procedendo alla mera applicazione di norme e segnatamente degli artt. 5 e 7 della direttiva c.d. di riconoscimento 75/362, con una mera attività di individuazione del se esse trovino o meno applicazione alla situazione fattuale esistente in causa per come consolidata nei gradi di merito.

Infatti, posto che alla Corte la difesa erariale ha prospettato come elemento di fatto introdotto nel giudizio di merito la circostanza che il corso di specializzazione seguito dal medico ricorrente era di “tossicologia medica” (circostanza, del resto, emergente dalla narrativa della sentenza e pacifica), non è possibile verificare se in iure tale circostanza di fatto giustifichi oppure no la spettanza del diritto risarcitorio per non avere conseguito l’adeguata remunerazione in ragione del tardivo adempimento statuale delle note direttive, procedendo alla mera applicazione della disciplina degli artt. 5 e 7 della citata direttiva 75/362.

La ragione risiede nel fatto che, mentre la prospettiva che alla verifica si possa procedere, semplicemente riscontrando se in tali norme comunitarie era indicata quella specializzazione, è corretta ed esaustiva del ragionamento in iure con riguardo all’art. 5, che indicava le specializzazioni comuni a tutti gli stati cui la direttiva trovava applicazione, viceversa non lo è in alcun modo con riguardo all’art. 7 della direttiva.

Esso, infatti, prevedeva che l’estensione della disciplina imposta dal diritto comunitario tramite la direttiva di riconoscimento e, quindi, tramite quella di coordinamento del 1982 (che riconobbe il diritto all’adeguata remunerazione) fosse dovuta anche in relazione ai corsi di specializzazione comuni pure a due soli stati membri o a più, ed indicati come tali nell’elenco di cui all’art. 7.

Questa disposizione implicava, secondo la logica sottesa alla direttiva in cui era contenuta, quella c.d. di riconoscimento, che ognuno degli stati cui la direttiva trovava applicazione dovesse riconoscere, secondo il principio di libera circolazione, nel proprio ordinamento i titoli di studio ed i diplomi inerenti le specializzazioni indicate come comuni a due o più stati e non a tutti.

Sopravvenuta la direttiva c.d. di coordinamento, tuttavia, come emerse dalla sentenza della Corte di Giustizia CEE resa nella causa Carbonari (e, poi venne ribadito in quella resa nella causa Gozza), l’imposizione agli stati soggetti all’efficacia della direttiva di assicurare certe modalità di esecuzione dei corsi di specializzazione medica, e fra esse quella della corresponsione dell’adeguata remunerazione, divenne operante, con riferimento alle specializzazioni indicate come comuni solo a due o più stati membri, anche con riguardo a quelle specializzazioni conosciute da un singolo stato che, pur non essendo state da esso indicate fra quelle, tuttavia, secondo un accertamento effettuato dal giudice dell’ordinamento interno, fossero ritenute sostanzialmente equivalenti ad una di quelle indicate come comuni a due o più stati diversi dall’art. 5.

p.4.3. Tanto si desume dalla motivazione della sentenza resa nella causa Carbonari, dove si legge quanto segue: “24 Occorre in primo luogo individuare l’ambito di applicazione dell’art. 2, n. 1, lett. c), nonchè del punto 1 dell’allegato della direttiva “coordinamento”, come modificata dalla direttiva 82/76, al fine di determinare le specializzazioni mediche per le quali i medici specializzandi possono avvalersi del diritto a una remunerazione adeguata nel periodo di formazione. 25 I ricorrenti nella causa principale sostengono che, benchè talune delle specializzazioni di cui trattasi non siano menzionate nella direttiva “riconoscimento” come comuni a tutti gli Stati membri o a due o più di essi, discende dal principio della parità di trattamento – da applicarsi ci situazioni identiche o analoghe – nonchè dal principio del riconoscimento delle specializzazioni che tale circostanza non può far venir meno l’obbligo di versare una remunerazione adeguata avente la stessa natura di quella prevista dalla normativa comunitaria. 26 11 governo spagnolo e la Commissione ritengono, per contro, facendo riferimento alla sentenza 6 dicembre 1994, causa C-277/93, Commissione/Spagna (Racc. pag. 1-5515), che il diritto ad una remunerazione nel corso del periodo di formazione riguardi esclusivamente le specializzazioni previste dagli artt. 5 e 7 della direttiva “riconoscimento”. 27 E’ sufficiente ricordare in proposito che la Corte ha già dichiarato, nella citata sentenza Commissione/Spagna, punto 20, che l’obbligo di retribuire i periodi di formazione relativi alle specializzazioni mediche, prescritto dall’art. 2, n. 1, lett. c), della direttiva “coordinamento”, s’impone soltanto per le specializzazioni mediche comuni a tutti gli Stati membri o a due o più di essi e menzionate dagli artt. 5 o 7 della direttiva “riconoscimento”. 28 Poichè le dette disposizioni elencano, per le formazioni specialistiche di cui trattasi, tanto le denominazioni vigenti negli Stati membri quanto le autorità o gli enti competenti, spetta al giudice a quo determinare, tra i ricorrenti nella causa principale, quelli che appartengono alla categoria dei medici iscritti ad una di tali formazioni specialistiche, che possono avvalersi – in forza della direttiva “coordinamento”, come modificata dalla direttiva 82/76 – del diritto ad una remunerazione adeguata nel loro periodo di formazione.

Come si vede, la Corte di Giustizia, con il paragrafo 28, pur richiamando le considerazioni svolte nella sentenza del 1994, che decise la causa C-277/93 – nella quale effettivamente si sottolineava solo che il diritto all’adeguata remunerazione esigeva che la specializzazione trovasse riscontro negli elenchi degli artt. 5 e 7 della direttiva di riconoscimento – nella sentenza Carbonari non si è limitata a ripetere quell’affermazione. E la spiegazione è agevolmente individuabile perchè nella causa C-277/93 la prospettazione in discussione non concerneva l’equivalenza delle specializzazioni per cui era stata denunciata l’inadempienza dello Stato Spagnolo ad alcuna delle specializzazioni indicate come comuni a due o più stati, ma solo la mancanza di corrispondenza con una specializzazione indicata nelle direttive (si veda il paragrafo 21).

Nella decisione resa sulla causa Carbonari (e la stessa cosa dicasi in quella Gozza), invece era oggetto di discussione l’equivalenza di alcuni corsi di specializzazione presenti nello Stato Italiano a corsi di specializzazione indicati come comuni da altri paesi e figuranti come tali nell’art. 7 della direttiva.

Con il sopra ricordato paragrafo 28 la Corte di Giustizia ha sancito che di siffatta equivalenza era demandato l’accertamento al giudice interno.

D’altro canto, nella stessa sentenza resa sulla causa C-277/93, la Corte di giustizi, nel paragrafo 15, aveva osservato che “Per quanto riguarda le specializzazioni mediche specifiche di uno Stato membro o quelle che questo stesso Stato membro non ha incluso nell’elenco di cui all’art. 7 della direttiva “riconoscimento”, l’art. 8 di questa direttiva stabilisce soltanto un riconoscimento il quale non è automatico, nè obbligatorio, in quanto lo Stato membro ospitante è tenuto soltanto ad esaminare le domande di riconoscimento caso per caso. Ed in quel caso si imputava, invece, allo Stato spagnolo di non avere proceduto al riconoscimento automatico.

La previsione del riconoscimento non automatico ma tramite accertamento demandato al giudice interno, per le specializzazioni equivalenti a quelle indicate da due o più stati membri, d’altro canto, trovava rispondenza nell’art. 9, comma 3, della direttiva 75/363, dove si disponeva in questi termini: “Ciascuno Stato membro riconosce come prova sufficiente per i cittadini degli Stati membri i cui diplomi, certificati ed altri titoli di medico specialista non rispondono alle denominazioni di cui agli artt. 5 e 7, i diplomi, i certificati e gli altri titoli rilasciati da tali Stati membri, accompagnati da un certificato di equivalenza rilasciato dalle autorità o enti competenti.”.

Questa previsione, alludendo all’obbligo di riconoscimento, da parte di ciascuno Stato, sulla base di un certificato di equivalenza, della corrispondenza del titolo conseguito ad uno indicato nella direttiva, evidenziava che tra gli impegni assunti dagli Stati membri cui la direttiva si applicava vi era quello di attribuire, sulla base di quel certificato, valore a quel titolo di specializzazione, a condizione che, pur non essendo esso indicato nella direttiva, e segnatamente nell’art. 7, fosse stato attestato equivalente ad uno indicato dall’art. 7 come comune a due o più stati membri.

Ebbene, sopravvenuta la direttiva c.d. di coordinamento ed introdotto l’obbligo degli stati aderenti di assicurare agli specializzandi talune condizioni di svolgimento del corso di specializzazione e, fra esse, il riconoscimento di un’adeguata remunerazione, risultava evidente che tale riconoscimento certamente riguardava le specializzazioni comuni a tutti gli stati ed indicate nell’art. 5, nonchè gli specializzandi che avessero conseguito negli stati di appartenenza una specializzazione indicata come comune da due o più stati.

Risultava, tuttavia, palese anche un’altra implicazione.

Poichè gli stati membri che avevano indicato una specializzazione come comune ai sensi dell’art. 7, erano obbligati, ai sensi dell’art. 9, comma 3, citato, a riconoscere nel loro ordinamento i titoli conseguiti in altri stati che quella specializzazione non avevano indicato ed a farlo sulla base dell’attestazione di equivalenza rilasciata dallo Stato in cui la specializzazione fosse stata conseguita, la forza precettiva della direttiva di coordinamento quanto all’innovazione rappresentata dalla imposizione di regole di svolgimento e di regole di trattamento, fra cui l’adeguata remunerazione, comuni, non poteva che riguardare anche i corsi di specializzazione interni ad uno stato la cui denominazione non trovava corrispondenza in quanto indicato dall’art. 7 ma che si caratterizzavano come equivalenti a quelli indicati dallo stesso art. 7.

Tale conseguenza, infatti, appariva implicazione necessaria perchè, se si fosse opinato il contrario, allo specializzato che nel proprio stato avesse conseguito un titolo equivalente ad uno di quelli contemplati nell’art. 7 ma indicati da due o più altri stati, sarebbe stato consentito di rivendicare l’equivalenza in essi e ai frequentanti lo stesso corso di non beneficiare, nonostante l’equivalenza, dell’adeguata remunerazione.

Una diversa interpretazione, che avesse comportato il non ritenere ciascuno stato membro onerato dalle direttive, una volta sopravvenuta quella di coordinamento, di riconoscere a tutti gli effetti ai medici che avessero frequentato nell’ordinamento interno dello stato corsi accertati in concreto come equivalenti a quelli indicati come comuni dall’art. 7 a due o più stati diversi, avrebbe comportato la conseguenza dell’avallo di una evidente situazione di diseguaglianza agli effetti del trattamento dovuto fra il medico che avesse frequentato nell’ordinamento interno il corso equivalente ad uno di quelli indicati dall’art. 7 ed il medico che, avendo frequentato lo stesso corso, avesse invocato il riconoscimento del titolo nell’ordinamento di altro stato siccome equivalente ad uno di quelli indicati da esso nell’art. 7 e comuni ad altro stato od a più stati.

p.4.4. Dalle svolte considerazioni consegue l’individuazione del seguente principio di diritto: allorquando nell’ordinamento italiano un medico specializzatosi, nella situazione di inadempimento statuale alle direttive in materia di medici specializzandi 75/362, 75/363 e 82/76, in un corso di specializzazione non indicato fra quelli indicati come comuni a tutti gli stati membri nell’art. 5 della direttiva 75/363 ed assunto però come equivalente ad un corso di specializzazione comune solo a due o più altri stati membri e come tale indicato nell’art. 7 della direttiva, avesse fatto valere il diritto al risarcimento del danno per il detto inadempimento, il giudice italiano era tenuto a verificare in concreto se quella equivalenza vi fosse, in quanto il diritto comunitario di cui alle dette direttive, ove fosse stato tempestivamente adempiuto dallo Stato Italiano, avrebbe dovuto attribuire al medico che avesse conseguito la specializzazione per il corso non indicato, il diritto di esigere l’adeguata remunerazione, nel presupposto dell’equivalenza del corso ad uno di quelli indicati come comuni soltanto a due o più stati membri, sebbene solo dopo verifica in concreto dell’equivalenza stessa.

Ne deriva che nel giudizio che fosse stato introdotto dal medico nella descritta situazione occorreva accertare se la prospettata equivalenza si configurasse oppure no.

Tale accertamento implicava anche riscontri fattuali, cioè l’accertamento delle concrete modalità di svolgimento del corso, al fine della verifica del se esso corrispondesse oppure no alle modalità ed ai contenuti del corso indicato come comune da due o più stati membri nell’art. 7.

Per il medico attore tanto comportava un onere di allegazione evidenziatore dei fatti giustificativi dell’equivalenza.

Corrispondentemente, a carico dello Stato convenuto, l’attività di contestazione della sussistenza dell’equivalenza non si connotava soltanto come attività di difesa in iure, cioè supponente soltanto la rilevazione della mancanza di indicazione della denominazione del corso fra quelli indicati dall’art. 7, ma supponeva anche un’attività di difesa e, dunque, di contestazione, in fatto delle modalità di svolgimento del corso, diretta ad evidenziare l’insussistenza dell’invocata equivalenza e postulante i necessari accertamenti.

Tanto comporta la conclusione che quella sollevata dal resistente con il ricorso incidentale non si profila come una mera quaestio iuris, ma come una quaestio iuris basata su accertamenti di fatto, che si sarebbero dovuti indicare come non necessari, perchè già effettuati o già consolidatisi nei gradi di merito. Accertamenti riguardo ai quali si sarebbe dovuta indicare le sede dei gradi di merito da cui emergevano e, prima ancora, il modo in cui si erano formati.

Ne segue che si è in presenza della prospettazione di una questione che non può avere ingresso nel presente giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3.

Essa sarà semmai da esaminarsi dal giudice di rinvio, che, naturalmente vi procederà sulla base della situazione delle allegazioni e delle contestazioni già esistenti ed introdotte nei gradi merito e senza che sia consentito di introdurne di nuove, nonchè considerando il principio di diritto che sopra si è affermato e, dunque, verificando se del caso, sulla base delle risultanze in atti e, quindi, tenendo conto dell’atteggiarsi della difese delle parti, ivi compreso l’eventuale atteggiamento di non contestazione della difesa erariale (che potrebbe rendere superfluo l’accertamento stesso) se la specializzazione in tossicologia medica meritasse equivalenza ad una di quelle indicate nell’art. 7 della direttiva 75/362.

p.4.5. Il ricorso incidentale è, dunque, dichiarato inammissibile, perchè ha riguardato una questione, non decisa dal giudice di merito, che non era riconducibile all’art. 382 c.p.c., comma 3, in quanto supponente accertamenti di fatto che in ipotesi doveva compiere il giudice di merito iuxta alligata et probata e che non risultano compiuti.

Nella specie riprende vigore la regola per cui il ricorso incidentale non è proponibile nemmeno in via condizionata quanto alle questioni non esaminate dal giudice di merito, ma solo riguardo a questioni che ha deciso in modo sfavorevole all’intimato riuscito vittorioso secondo il tenore della decisione.

p.5. La sentenza è cassata in accoglimento del ricorso principale nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri. Il giudice di rinvio si designa nella Corte di Appello di Firenze in diversa composizione, con rimessione del regolamento delle spese del giudizio di cassazione.

Le spese del giudizio di cassazione, nel rapporto fra ricorrente da un lato e Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e Università di Firenze, si intendono compensate per giusti motivi, ravvisabili nell’oggettiva incertezza giurisprudenziale, che ha per lungo tempo connotato la questione di legittimazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso principale contro la Presidenza del Consiglio dei ministri. Lo rigetta nei confronti del Ministero e dell’Università. Dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione. Compensa le spese del giudizio di cassazione nel rapporto processuale fra ricorrente e Ministero e Università.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 15 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2016