Il rifiuto di atti professionali dovuti per ragioni sanitarie, di cui all’articolo 328, comma 1, del codice penale, deve essere verificato avendo riguardo alla sua natura di delitto doloso, senza valutazioni sulla colpa professionale sanitaria, che esula dalla struttura psicologica del reato.

Per individuare il carattere indebito del rifiuto, è nei poteri del giudice di merito controllare l’esercizio della discrezionalità tecnica da parte del sanitario, con la possibilità di concludere che essa abbia trasmodato nell’arbitrio quando tale esercizio non sia stato sorretto da un minimo di ragionevolezza.  (ad un medico in servizio, il rifiuto è stato addebitato perché, nel corso di ben tre successive telefonate avute con i parenti di un paziente, aveva violato le linee-guida relative all'”intervista” da farsi, per stabilire le condizioni di gravità del richiedente, così eludendo l’obbligo di intervento imposto dalla obiettiva gravità delle condizioni del paziente e limitandosi a suggerirne l’opportunità di far intervenire la guardia medica).

Cassazione penale sez. VI, 16/05/2018 , n.40799

 

omissis

RITENUTO IN FATTO

1. B.R. ricorre per mezzo del suo difensore di fiducia avverso la sentenza in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Messina ha confermato quella di primo grado che l’aveva ritenuta responsabile del delitto di cui all’art. 328 cod. pen. a lei contestato perchè, nella qualità di incaricato di pubblico servizio in quanto operatore della Centrale operativa del 118 di (OMISSIS), indebitamente rifiutava un atto del suo ufficio che per ragioni di sanità doveva essere compiuto senza ritardo.

In particolare, la ricorrente è imputata di avere violato, nel corso di tre conversazioni telefoniche intercorse nel giro di pochi minuti, le regole di condotta previste nelle Linee Guida protocolli e procedure di servizio S.U.E.S. 118 (OMISSIS), non raccogliendo i dati necessari e sufficienti stabiliti dal protocollo operativo e non procedendo alla cosiddetta “intervista”, i cui contenuti sono elencati nelle suddette linee-guida e la cui durata deve avere un tempo medio di 60 secondi, mentre nel caso di specie le tre telefonate hanno avuto al massimo una durata complessiva di 44 secondi.

Secondo la prospettazione accusatoria la ricorrente non attribuiva inoltre un codice di criticità/gravità adeguato alla richiesta di intervento, consigliando ai suoi interlocutori, parenti del paziente L., di rivolgersi alla Guardia medica, ipotesi contemplata dalle linee-guida solo in caso di codice d’urgenza bianco, mentre si trattava di codice d’urgenza rosso, come rilevato dai sanitari successivamente intervenuti presso l’Ospedale “(OMISSIS)” di (OMISSIS).

2. La ricorrente deduce i seguenti motivi di ricorso.

2.1. Erronea applicazione dell’art. 328 cod. pen. e art. 530 c.p.p., comma 2, nonchè delle Linee-guida e del Protocollo sulle regole di comportamento del Servizio 118 della Regione (OMISSIS) poichè la Corte territoriale non ha indicato alcuna prova decisiva a supporto di una condotta dolosa che evidenziasse l’effettiva integrazione del reato contestato, tenuto anche conto che la perizia medico-legale acquisita agli atti individuava una condotta colposa che non aveva inciso sulla verificazione causale della morte di L.S. in termini di alto grado di credibilità razionale. La ricorrente segnala inoltre che l’attribuzione del codice di criticità sulla base delle informazioni ricevute telefonicamente ha carattere presuntivo, sicchè non configurabile appare nel caso di specie il dolo generico richiesto per l’integrazione del reato contestato, non emergendo in alcun modo che la sua condotta fosse attribuibile a un cosciente e volontario rifiuto di prestare soccorso.

2.2. Violazione dell’art. 111 Cost. e art. 546 c.p.p., lett. e), in quanto nel rigettare le prospettazioni difensive la Corte territoriale si è limitata a richiamare la motivazione della sentenza impugnata.

2.3. Erronea applicazione dell’art. 157 c.p. e art. 161 c.p., comma 2, trattandosi di reato estinto col decorso del termine massimo di sette anni e mezzo.

2.4. Con memoria depositata in data 14/5/2018 il difensore-procuratore speciale delle parti civili P.M., L.M., L.F., L.G. e L.A. ha sollecitato in modo del tutto generico l’affermazione di totale infondatezza del ricorso e chiesto la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle suddette parti civili, non specificamente indicate.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

1.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, poichè ripropone censure di merito già puntualmente esaminate dalla Corte territoriale, che le ha respinte con motivazione del tutto congrua e immune da vizi logici e giuridici (pp. 8-9).

La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che il reato di rifiuto di atti di ufficio è un reato di pericolo, onde la violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice al corretto svolgimento della funzione pubblica ricorre ogniqualvolta venga denegato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze prese in considerazione e protette dall’ordinamento, prescindendosi dal concreto esito della omissione (ex plurimis, Sez. 6, n. 39745 del 27/09/2012, Rv. 253547; Sez. 6, n. 3599 del 23/3/1997, Rv. 207545).

Quanto all’elemento oggettivo, è stato affermato che il rifiuto si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio assuma la valenza di rifiuto dell’atto medesimo, tanto che esso non è integrato solo nell’ipotesi, in cui l’atto, pur rispondendo alle ragioni indicate dalla norma incriminatrice, non riveste carattere di indifferibilità e doverosità (Sez. 6, n. 17570 del 13/3/2006, Rv. 233858).

Quanto all’elemento soggettivo, va osservato che il rifiuto di atti professionali, dovuti – come nel caso in esame – per ragioni sanitarie, deve essere verificato avendo riguardo alla sua natura di delitto doloso, ossia con riferimento alla consapevolezza del contegno omissivo, senza tracimare in violazioni sulla colpa professionale sanitaria, che esula dalla struttura psicologica del reato (Sez. 6, n. 1602 del 6/12/95, Rv. 204468).

Orbene, nella fattispecie in esame i giudici del gravame, in sintonia con gli enunciati principi hanno correttamente esaminato e valutato le emergenze processuali alla stregua dei rilievi e delle censure formulate nell’atto di appello e sono pervenuti alla conferma del giudizio di colpevolezza con puntuale e adeguato apparato argomentativo, ritenendo anzitutto estraneo al giudizio sulla condotta dell’imputata la circostanza che il tempestivo intervento dell’autoambulanza non avrebbe salvato la vita di L.S., deceduto poco dopo l’arrivo in ospedale, trattandosi di profilo rilevante per la sussistenza del diverso (ed eventualmente concorrente) delitto di omicidio colposo.

La sentenza impugnata giustifica inoltre puntualmente la ritenuta sussistenza nel caso di specie della connotazione indebita, tanto sotto il profilo oggettivo che soggettivo, attribuibile al rifiuto, là dove indica che la ricorrente non ha esercitato malamente una discrezionalità tecnica, ciò che avrebbe potuto ricondurre la valutazione dell’elemento psicologico della condotta all’ambito della colpa professionale sanitaria, ma si è al contrario semplicemente, consapevolmente e reiteratamente sottratta alla valutazione dell’urgenza dell’atto d’ufficio, peraltro del tutto evidente fin dalla prima chiamata dei familiari del L. (Sezione 6, n. 39745 del 27/09/2012, Rv. 253547), come fatto palese nella specie dall’ostinata mancanza del mirato approfondimento telefonico imposto dalle pertinenti linee-guida e dal meccanico, reiterato ed assolutamente inappropriato invito di rivolgersi alla guardia medica, risultando peraltro smentita la carenza di ambulanze disponibili opposta dalla stessa ricorrente alla seconda e terza chiamata (pp. 8-9).

Il Collegio osserva al riguardo che in ogni caso per individuare il carattere indebito del rifiuto è nei poteri del giudice di merito controllare la discrezionalità tecnica da parte del sanitario (Sez. 6, n. 35526 del 06/07/2011, Rv. 250876), con la possibilità di concludere che essa trasmoda in arbitrio, ove, come nella vicenda in esame, il relativo esercizio non risulta sorretto da un minimo di ragionevolezza ricavabile dal contesto e dai protocolli vigenti per il servizio 118, sicchè congruamente giustificata risulta nella sentenza impugnata la volontarietà ed irragionevolezza dell’accertato rifiuto della prestazione doverosa (Sez. 6, n. 6475 del 04/03/1983, Rv. 159898).

1.2. Manifestamente infondato, per quanto testè esposto sub 1.1., deve ritenersi il secondo motivo di ricorso. Lungi dal limitarsi a richiamare la motivazione della sentenza di condanna di primo grado, la Corte territoriale opera una puntuale e del tutto adeguata valutazione delle censure proposte con l’atto di appello.

1.3. L’art. 129 cod. proc. pen. non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità e non attribuisce al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, Rv. 266818).

L’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude pertanto ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., l’estinzione del reato per prescrizione maturata in data posteriore alla pronunzia della sentenza di appello. Nel caso di specie, il termine massimo di prescrizione si sarebbe in vero maturato, a seguito dei verificatisi atti interruttivi e salvi ulteriori periodi di sospensione, solo in data 5/1/2018 (6 anni dalla commissione del fatto, aumentati di 1/4 ex art. 161 cod. pen.), quindi successivamente alla sentenza impugnata.

1.4. All’inammissibilità del ricorso conseguono a carico del ricorrente le pronunce di cui all’art. 616 cod. proc. pen., in ragione dei profili di colpa emergenti dalla natura delle censure proposte.

1.5. Nel giudizio di legittimità non competono le spese processuali alle parti civili che, come nel caso di specie, dopo avere depositato memoria – peraltro del tutto generica tanto in riferimento alle ragioni a sostegno delle predicate inammissibilità e infondatezza che alla determinazione delle spese di rappresentanza e difesa nel grado – non intervenga nella discussione in pubblica udienza, stante il rinvio disposto dall’art. 168 disp. att. c.p.p. alle norme che disciplinano la condanna dell’imputato soccombente alle spese in favore della parte civile (Sez. 6, n. 17057 del 14/04/2011, Rv. 250062; Sez. 2, n. 52800 del 25/11/2016, Rv. 268768; Sez. 4, n. 30557 del 07/06/2016, Rv. 267690; Sez. 5, n. 47553 del 18/09/2015, Rv. 265918).

 

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2018