La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal medico contro la sentenza di appello che aveva confermato la condanna alla pena di 8 mesi di reclusione per il reato di omissione di atti d’ufficio.

Il medico era imputato perché, in turno di reperibilità, quale dirigente medico del reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale Civile fino alle ore 14,00, alla richiesta di aiuto, rivoltagli da una collega specializzata in ginecologia, rifiutava di assisterla nell’esecuzione di urgente intervento di taglio cesareo riferendo, mentre era intento a guardare una partita in televisione, di aver già timbrato l’uscita ed ingiuriando la predetta collega, di fronte alla degente ed al personale paramedico.

La Suprema Corte ha affermato che la nozione di rifiuto implica un atteggiamento di diniego a fronte di una qualche sollecitazione esterna, e, laddove non sia espressamente prevista la necessità di un richiesta o di un ordine, questa, sollecitazione può essere costituita dall’evidente sopravvenienza in sé dei presupposti oggettivi che richiedono l’intervento.

Nella specie, a fronte di una urgenza sostanziale impositiva dell’atto, resa evidente dai fatti oggettivi posti all’attenzione del soggetto obbligato ad intervenire, l’inerzia omissiva, rafforzata da un suo esplicito rifiuto, è stata giustamente ricondotta nella condotta punita dall’art. 328 c.p..

Nel caso di specie, la consapevolezza che l’atto (intervento di taglio cesareo in un quadro di arresto del feto) doveva essere compiuto senza ritardo, ben poteva ricavarsi dal tenore delle richieste formulate al sanitario da altro sanitario. Il giudice può al riguardo sindacare l’uso della discrezionalità tecnica da parte del medico, tanto più che, come nella vicenda concreta, la richiesta di intervento era stata formulata, allo specialista ospedaliero, da parte di altro medico, specializzato nella stessa disciplina, e il medico – richiesto dell’intervento – neppure si era curato di verificare, personalmente, la fondatezza o meno della gravità della situazione, nei termini che gli erano con urgenza prospettati dalla giovane collega. Usando l’espressione dei giudici di merito: “non poteva rimanere a vedere la partita, ritenendo a distanza che non vi fosse urgenza”. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]

Cassazione  Penale – Sezione VI, Sent. n. 27840 del 07.07.2009

omissis

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il fatto ed i motivi di ricorso.

Il D. ricorre avverso la sentenza della Corte di appello di Catanzaro in data 18 settembre 2008 che ha confermato la sentenza 18 aprile 2007 del Tribunale di Paola, di condanna alla pena di mesi 8 di reclusione per il reato di omissione di atti d’ufficio.

Il ricorrente è imputato del reato p. e p. dall’art. 328 c.p., comma 1, perchè, in turno di reperibilità, quale dirigente medico del reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale Civile fino alle ore 14,00, alla richiesta di aiuto, rivoltagli dalla dott.ssa specializzata in ginecologia, S.A.M. (ore 13.00 circa), rifiutava di assisterla nell’esecuzione di urgente intervento di taglio cesareo sulla paziente D.S., riferendo, mentre era intento a guardare una partita in televisione, di aver già timbrato l’uscita, ingiuriando la predetta collega, di fronte alla degente ed al personale paramedico, e dicendole inoltre “se non sei capace, chiamati il Dr. V.”, In X. .

Con un unico motivo di impugnazione la difesa dell’imputato deduce vizio di motivazione e violazione di legge in ordine alla scorretta applicazione delle norme di cui agli artt. 507 e 603 c.p.p., art. 435 c.p.p., comma 2 e art. 192 c.p.p..

In particolare il ricorso lamenta:

a) la mancata audizione quale teste – sia in primo grado che in appello – della dr.ssa M., primario del reparto di ostetricia la cui audizione avrebbe comportato una diversa conclusione in punto di responsabilità del D.;

b) la mancata acquisizione di copia autentica della sentenza (esibita peraltro in udienza) del Giudice del lavoro del Tribunale di Paola, relativa alla vertenza tra l’imputato e l’Ospedale di X.  (concernente tra l’altro anche i fatti oggi in giudizio), e conclusasi con l’accoglimento del ricorso del D.;

c) l’omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale senza che vi sia stata adeguata motivazione, in quanto, laddove si fosse esaminata la dr.ssa M., si sarebbe potuta escludere l’urgenza dell’intervento, necessaria per integrare il delitto de quo.

In proposito, va subito chiarito che, in relazione al carattere eccezionale della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, il mancato accoglimento della richiesta, volta ad ottenere detta rinnovazione, in tanto può essere censurato in sede di legittimità in quanto risulti dimostrata (indipendentemente dall’esistenza o meno di una specifica motivazione sul punto nella decisione impugnata), la oggettiva necessità dell’adempimento in questione e, quindi, l’erroneità di quanto esplicitamente o implicitamente ritenuto dal giudice di merito, circa la possibilità di “decidere allo stato degli atti”, come previsto dall’art. 603 c.p.p., comma 1. Ciò significa che deve dimostrarsi l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento (come previsto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. a) e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in sede di appello (Cass. Penale sez. 1, 9151/1999, 213923).

Inoltre, per risalente giurisprudenza, l’esercizio della facoltà del giudice di appello di disporre la rinnovazione del dibattimento non è nella disponibilità delle parti processuali, alle quali incombe solo l’onere di allegazione: di indicare cioè al giudice gli elementi di prova senza i quali si ritiene che egli non possa essere in grado di decidere.

Deve pertanto ritenersi impropria la sollecitazione – fatta nell’appello – per l’esercizio dell’attività discrezionale di integrazione dell’istruttoria in funzione meramente critica del materiale già raccolto, e quindi ablatoria dei risultati raggiunti, giacché in tal caso si finirebbe con lo smentire quello che è, il principio-guida dell’istituto, vale a dire la presunzione di completezza dell’istruttoria compiuta nel primo grado di giudizio (Cass. Penale sez. 1^, 320/1991, P.G. in proc. Sacco ed altri).

Inoltre, l’eccezionalità dell’istituto può essere superata soltanto in due casi: – quando i dati probatori già acquisiti siano “incerti”; – quando l’incombente richiesto rivesta “carattere di decisività”, nel senso che lo stesso possa eliminare le eventuali suddette incertezze, ovvero sia di per sè oggettivamente idoneo a inficiare ogni altra circostanza (Cass. Pen. sez. 3^, 14 giugno-18 settembre 2000, in ric. Lo Manto; sez. 3^, 6 novembre-18 dicembre 1998, in ric. Salvini).

Nella specie, come puntualmente motivato, il materiale probatorio versato in atti era ragionevolmente più che sufficiente per la decisione d’appello, per l’assorbente ed espressa argomentazione che i mezzi di prova proposti non assumevano la presumibile e ragionevole attitudine ad influire sulla decisione di responsabilità dell’appellante.

Rilievo penale della condotta del sanitario e suo inquadramento dogmatico nella fattispecie disciplinata dall’art. 328 c.p., comma 1.

Quanto alla condotta, addebitata al medico, va richiamata la pacifica giurisprudenza di questa sezione, per la quale la nozione di rifiuto implica un atteggiamento di diniego a fronte di una qualche sollecitazione esterna, e, laddove non sia espressamente prevista la necessità di un richiesta o di un ordine, questa, sollecitazione può essere costituita dall’evidente sopravvenienza in sè dei presupposti oggettivi che richiedono l’intervento.

Nella specie, a fronte di una urgenza sostanziale impositiva dell’atto, resa evidente dai fatti oggettivi posti all’attenzione del soggetto obbligato ad intervenire, l’inerzia omissiva del medesimo imputato, rafforzata da un suo esplicito rifiuto, è stata giustamente ricondotta nella condotta punita dall’art. 328 c.p..

Inoltre va ribadito – trattandosi di precisazione che si attaglia al caso di specie e che risponde ad una censura difensiva – che quello che non rientra più nella previsione della norma è l’inosservanza in sé di obblighi, pur se astrattamente previsti come urgenti, ove non ricorra un’emergenza di natura oggettiva, rappresentativa di un’urgenza sostanziale, di fronte alla quale l’ingiustificata inosservanza assurga univocamente a diniego dell’atto dovuto. In questo caso – che non è quello di specie – può integrarsi la fattispecie di cui all’art. 340 c.p. (Cass. Pen. sez. 6, U.P. 20.2.98 Buzzanca).

Passando ora ai profili soggettivi, va ribadito che il dolo è generico e comprende la consapevolezza di agire in violazione di doveri imposti (in questo senso rileva l’avverbio indebitamente), senza che sia così richiesto il fine specifico di violare tali doveri (Cass. pen. sez. 6, U.P. 25.1.00 Di Stefano e Purpura). La consapevolezza di agire in violazione dei doveri imposti tende a delimitare la rilevanza penale alle sole forme di diniego – come quella di specie – che non trovano alcuna plausibile giustificazione.

E’ altresì noto che la consapevolezza che l’atto (intervento di taglio cesareo in un quadro di arresto del feto) doveva essere compiuto senza ritardo, ben può ricavarsi dal tenore delle richieste formulate al sanitario da altro sanitario ed il giudice può al riguardo sindacare l’uso della discrezionalità tecnica da parte del medico (Cass. pen. sez. 6, U.P. 14.7.98 Vitale; Conforme 27.5.99 Truiolo; 21.6.99 Tedeschi), tanto più che, come nel caso di specie, la richiesta di intervento sia formulata, allo specialista ospedaliero, da parte di altro medico, specializzato nella stessa disciplina, e il medico – richiesto dell’intervento – neppure si curi di verificare, personalmente, la fondatezza o meno della gravità della situazione, nei termini che gli erano con urgenza prospettati dalla giovane collega. Per usare l’espressione dei giudici di merito:

“il D. non poteva rimanere a vedere la partita, ritenendo a distanza che non vi fosse urgenza”.

Tale condotta infatti, già di per sè mette il soggetto agente in una condizione di potenziale inadempienza – apprezzabile agli effetti della norma applicata – considerato che in tal modo il medico ospedaliero si sottrae acriticamente all’obbligo minimale della salvaguardia dello stato di salute del paziente. Obbligo di preliminare verifica che diventa tanto più consistente, e quindi tanto più grave in ipotesi di acritica inadempienza, allorquando, come nella vicenda, la “richiesta di intervento non procrastinabile” non proviene “dai familiari o dal personale paramedico”, ma proviene da “medico, professionista, specializzato” nella medesima disciplina e che dispone pertanto di specifica competenza per la patologia in questione.

Correttamente quindi è stata ritenuta la responsabilità dell’imputato e altrettanto bene i giudici di merito hanno motivato sul punto, utilizzando come criterio finale, di tenuta e verifica logica della “necessaria urgenza” dell’intervento sollecitato, la circostanza inoppugnabile che il sanitario (nella specie il Dr. V.), giunto dopo il rifiuto del ricorrente D., ha dato immediato corso proprio all’intervento che la giovane specializzata aveva invano richiesto e sollecitato al dr. D..

Circostanza quest’ultima che “ex se” corrobora di ulteriore pacifica correttezza la negazione della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, ed esclude altresì, in radice, ipotesi rilevanti ex art. 606 c.p.c., comma 1, lett. d) (peraltro non formalmente evocate), in quanto l’esame del teste richiesto e l’acquisizione della decisione del Giudice del lavoro, non potevano in alcun modo eliminare, né offrire copertura, neppure limitata, all’originaria ingiustificabile inadempienza del ricorrente, a fronte di una realtà oggettiva, che gli eventi successivi hanno confermato essere quella della “gravità ed urgenza, invano segnalategli dalla dr.ssa S. ed alla quale aveva doverosamente e successivamente provveduto il ginecologo-ostetrico dr. V..

Decisiva infatti è solo quella prova che, confrontata con le ragioni poste a sostegno della decisione, risulti determinante per un esito diverso del processo, e non anche quella che possa incidere solamente su aspetti secondari della motivazione ovvero sulla valutazione di affermazioni testimoniali da sole non considerate fondanti della decisione prescelta” (Cass. Sez. 1, sent. n. 4836 del 5/4/1994 dep. 28/4/1994 rv. 198620, Cass. Penale sez. sez. 2, 16354, rv. 234752, 28 aprile-12 maggio 2006, Maio).

In altri termini, il vizio della sentenza di cui all’art. 606 c.p.p., lett. d), (mancata assunzione di una prova decisiva quando la parte ne ha fatto richiesta a norma dell’art. 495 c.p.p., comma 2) consiste in una sorta di “error in procedendo”, ravvisabile solamente quando la prova, richiesta e non ammessa, confrontata con le argomentazioni formulate in motivazione a sostegno ed illustrazione della decisione, risulti tale che, se esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; perché si configuri il vizio “de quo” deve cioè necessariamente sussistere la certezza della decisività della prova ai fini del giudizio e dell’idoneità dei fatti che ne sono oggetto ad inficiare le ragioni poste a base del convincimento manifestato dal giudice”, (cfr. Cass. Penale sez. sez. 2, 16354, rv. 234752, 28 aprile-12 maggio 2006, imputato Maio; Cass. Sez. 2^, sent. n. 2380 del 27/1/1995 dep. 9/3/1995 rv. 200980).

Niente di tutto ciò si è realizzato nella vicenda di specie, attesa la compiutezza delle argomentazioni sviluppate sul punto dai giudici di merito, con lineare consequenzialità e giuridica correttezza, che rendono insindacabili in questa sede le valutazioni adeguatamente formulate.

Il ricorso va quindi rigettato ed il ricorrente condannato alle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2009.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2009