Omessa compilazione cartella di paziente trasferito

La condotta del primario ospedaliero che ometta di redigere la cartella clinica relativa ad un paziente temporaneamente sottoposto a cure di mantenimento e in attesa di trasferimento ad altra, più attrezzata, struttura ospedaliera, trattandosi di un atto d’ufficio da compiere senza ritardo per ragioni di sanità, integra il reato di cui all’art. 328, comma primo, cod. penale.

Motivi della decisione

A S.B. è contestata la violazione dell’art. 328 c.p., per aver, quale primario del reparto di pediatria di (OMISSIS), indebitamente omesso la compilazione della cartella clinica, relativa al neonato T.F. (trasferito dall’ospedale di (OMISSIS) al Policlinico di (OMISSIS)), atto che doveva essere compiuto senza ritardo per ragioni di sanità. p.1) le sentenze dei giudici di merito.

T.R. e F.F., parti civili nel procedimento a carico di S.B., ricorrono avverso la sentenza 23 gennaio 2006 della Corte di appello di Messina, che ha confermato la sentenza 16 dicembre 2004 del Tribunale di Barcellona Pozzo Gotto (appellata dal Procuratore della Repubblica), di assoluzione dello S., primario del reparto di pediatria di (OMISSIS), perchè il fatto non sussiste, dall’imputazione ex art. 328 c.p., per l’indebita omessa compilazione della cartella clinica, relativa al neonato T.F., atto che doveva essere compiuto senza ritardo per ragioni di sanità.

Secondo il Tribunale, in definitiva, pur senza appuntarlo in alcuna cartella clinica, “l’imputato riferì tutto quello che c’era da sapere sul bambino” e agì secondo un modus operandi conforme alla prassi generalmente seguita nei casi d’urgenza, ed è anzi da ritenere – annota la sentenza assolutoria – che, dovendo affrontare un’emergenza, l’imputato non si sia neppure potuto consapevolmente rappresentare che, omettendo la compilazione della cartella clinica, sarebbe incorso in un evento contra ius.

La Corte d’appello, affermata – contrariamente al primo giudice – la persistenza dell’obbligo a carico del primario di redigere la cartella clinica – ha invece aderito alle altre argomentazioni della decisione appellata, ribadendo:

  • che l’apprezzamento delle circostanze del fatto impedisce di affermare che la compilazione della cartella clinica dovesse essere, per ragioni di sanità, compiuta senza ritardo, sicchè l’omissione di tale atto non riveste penale rilevanza;
  • che, nella specie, vi è stata sicuramente una negligenza, dato che esiste un vuoto di informazioni nel decorso clinico del piccolo T.F., che ha frustrato il legittimo desiderio dei genitori di sapere e trovare una spiegazione della tragedia che li ha colpiti;
  • che, tuttavia, non vi sono estremi di rilevanza penale nella condotta dell’imputato e che il comportamento antidoveroso può essere censurabile e sanzionabile in altre sedi, costituendo esso una violazione, non già degli obblighi inerenti alla funzione di medico, ma dei doveri inerenti un profilo amministrativo, relativo al rapporto tra Primario e Ospedale;
  • che la circostanza che il medico legale – chiamato successivamente da un diverso Giudice per accertare le cause della grave ipossia, con conseguenze permanenti, subita dal neonato – abbia avuto difficoltà nel ricostruire l’iter della malattia del bimbo e le terapie praticate, non può, con motivazioni “ex post”, rendere penalmente rilevante una condotta che in quel momento non lo era.

I giudici di merito hanno quindi ritenuto che la mancata compilazione della cartella clinica, nella immediatezza del ricovero, non integra l’indebito rifiuto di un atto dell’ufficio, che, per ragioni di sanità, si sarebbe dovuto compiere senza ritardo. L’intenzione del legislatore infatti, con la previsione dell’art. 328 c.p., non andrebbe individuata in quella di colpire qualsiasi omissione, ma soltanto di sanzionare quella che pervenga ad un atto che debba essere compiuto “senza ritardo” e il cui rifiuto sia “indebito”.

Quanto al profilo soggettivo, gli stessi giudici ne hanno ritenuto la carenza, atteso che, in assenza di un “ricovero” vero e proprio, il primario si adeguò a quella che era una prassi consolidata in casi del genere. Il trasferimento del neonato, dall’Ospedale di (OMISSIS) al Policlinico di (OMISSIS), infatti venne concordato telefonicamente tra il dott. M. (che seguiva il neonato presso il P.O. di (OMISSIS)) e il prof. S., su suggerimento di quest’ultimo che era stato informato delle condizioni cliniche del neonato e che successivamente ebbe a contattare l’Unità operativa di (OMISSIS).

Sul punto la Corte distrettuale rileva che l’imputato, prima di trasferire il neonato, ha contattato il medico del Policlinico di (OMISSIS), ottenendo di parlare con quella che era un suo canale preferenziale, la dott. ssa G., all’epoca responsabile dell’Unità operativa di terapia intensiva neonatale, riferendole dei problemi del neonato, di quanto finora gli era stato fatto, e di quelle che erano le sue “sensazioni cliniche, trasferendole tutti gli elementi che aveva acquisito, sia dal punto di vista terapeutico, sia dal punto di vista clinico. Tanto sarebbe stato riscontrato dalle dichiarazioni rese dalla G. nel corso dell’esame testimoniale. p.2) l’impugnazione della parte civile e la decisione della Corte.

Con un unico motivo di impugnazione la difesa delle parti civili chiede l’annullamento della gravata sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione, sostenendo a tale effetto:

  1. che la Corte distrettuale ha riconosciuto l’obbligo del primario di redigere la cartella clinica;
  2. che la cartella clinica in questione non è mai stata compilata dall’imputato, neppure in tempo successivo al riferito “transito ospedaliero del neonato”;
  3. che non può fungere da valido surrogato alla cartella, l’avvenuta informativa telefonica dello S. al collega di (OMISSIS), dove il neonato venne trasferito;
  4. che la plurioffensività del reato comporta anche la tutela penale dell’interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza della Pubblica amministrazione;
  5. che il danno arrecato dalla predetta omissione è stato quindi duplice ed ha quindi errato la Corte di appello nel non valutare, oltre al danno connesso alla impossibilità per il consulente tecnico di parte del Pubblico ministero, dr. Ge., di rispondere al quesito sulla congruità degli interventi medici praticati, il danno alla Pubblica amministrazione.

Il motivo è fondato nei termini che si propongono ed il suo accoglimento comporta l’annullamento senza rinvio, agli effetti civili, della decisione impugnata con sostituzione della formula assolutoria “perchè il fatto non sussiste”, con la diversa formula “perchè il fatto non costituisce reato”. Conclusione questa che impone brevi considerazioni sulla cartella clinica della cui omessa compilazione si discute.

Per consolidata giurisprudenza, la cartella clinica, redatta da un medico di un ospedale pubblico e quale conseguenza di un ricovero, anche di breve durata, è caratterizzata:

  • dalla produttività di effetti incidenti su situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica (sez. 5^, 9423/1983 Rv. 161097 Pozzan);
  • dalla documentazione di attività compiute dal pubblico ufficiale che ne assume la paternità;
  • da una incontestabile natura di atto pubblico che esplica la funzione di diario del decorso della malattia e degli altri fatti clinici rilevanti (Cass. Penale sez. 5^, 1098/1997 Rv. 209682, P.M. c. Noce);
  • dalla acquisizione del carattere di definitività in relazione ad ogni singola annotazione, in quanto il documento esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata (Cass. Penale sez. 5^, 35167/2005, Rv. 232567 Pasquali).

In particolare, la cartella clinica, nella quale i fatti devono essere annotati contestualmente al loro verificarsi, assicura l’essenziale e tempestivo onere informativo di documentare a chiunque, e soprattutto ai sanitari che si succedono nella cura del paziente, l’andamento della malattia, i medicamenti somministrati, le terapie e gli interventi praticati, l’esito della cura e la durata della degenza dell’ammalato. Si tratta quindi di un “servente cartaceo insostituibile” nell’assistenza e cura sanitaria, il quale prescinde dalla contingente necessità della sua redazione e che si accompagna ad ogni presenza ospedaliera, in un singolo reparto o divisione di cura, indipendentemente dalla consistenza cronologica della degenza stessa.

Quanto poi alla relazione che corre tra stesura della cartella clinica ed obblighi sanzionati dall’art. 328 c.p. in tema di rifiuto ed omissione di atti di ufficio, sicuramente la redazione della cartella clinica – per le sue connotazioni peculiari – rientra nel novero degli atti di ufficio da compiere per ragioni di “sanità”.

Si tratta infatti:

  • di atto avente carattere di indifferibilità, considerato che la tardiva annotazione di dati clinici, con la conseguente loro non- conoscenza da parte di medico, successivamente intervenuto, può rendere impraticabili od inefficaci accertamenti strumentali e/o terapie;
  • di atto doveroso di natura propriamente sanitaria, o comunque strettamente funzionale alla realizzazione degli obbiettivi di salvaguardia della salute (cfr. sull’atto di ufficio per ragioni di sanità: Cass. Penale sez. 6^, 19039/2006, Rv. 234614 P.G. c. Panarello).

In questa ottica, di funzionali scambi informativi, va quindi affermata la regola che la mera presenza (“ad horas”) del paziente, in un ambiente ospedaliero, che abbia, come nella specie, comportato anche il solo apprestamento di cure di mantenimento, in attesa dello spostamento del paziente stesso ad altro nosocomio, più attrezzato, impone la redazione della cartella clinica. Invero, anche la semplice attestazione dello stato del paziente, nei suoi parametri vitali (al momento della sua “permanenza non momentanea nella struttura ospedaliera per il transito ad altra”), sia pure nella conferma del mantenimento della terapia (che risulta praticata al momento dell’arrivo-ricezione), è evento rilevante per la comprensione del decorso clinico della malattia e per le indicazioni sulle successive terapie od interventi da praticarsi nel nosocomio di destinazione.

Nella specie quindi gravava sullo S., una volta “ricevuto” il neonato, l’obbligo di redigere la cartella clinica, o comunque un atto formale equipollente, nel quale far annotare e quindi documentare per iscritto quanto sostanzialmente egli ebbe ad accertare sulle condizioni del neonato stesso, e che peraltro egli – come risulta – puntualmente riferì telefonicamente alla dr.ssa G., del Policlinico di (OMISSIS), destinataria finale del “trasporto assistito stesso”.

Ciò posto, va peraltro escluso – come argomentato dalla Corte distrettuale – che in tali contesti operativi la condotta dello S. fosse supportata dal necessario elemento psicologico, sotto il profilo della consapevolezza della sua indebita omissione formale.

Il dolo generico, che informa la condotta ex art. 328 c.p., comprende infatti la consapevolezza di agire in violazione di doveri imposti (ed in questo senso rileva l’avverbio indebitamente), pur non richiedendosi il fine specifico di violare tali doveri (Cass. Penale sez. 6^, 25 gennaio 2000 Di Stefano e Purpura).

Quindi, la consapevolezza di agire in violazione dei doveri imposti tende a delimitare la rilevanza penale alle sole forme di diniego che non trovino alcuna plausibile giustificazione (Cass. Penale sez. 6^, 3 luglio 2000, De Riso e Esposito): nella specie quindi la Corte distrettuale ha argomentato correttamente quando ha rilevato la carenza della chiesta soggettività, ma ha tuttavia adottato una formula di proscioglimento inadeguata, in quanto ha ritenuto innanzitutto insussistente l’elemento oggettivo, che, invece, per le ragioni già dette, nella specie non poteva essere escluso. Infatti, la formula assolutoria, ampiamente liberatoria, “perchè il fatto non sussiste” presuppone che nessuno degli elementi, integrativi della fattispecie criminosa contestata, risulti provato; quando invece, come nella specie, sia stata accertata, sotto l’aspetto fenomenico, la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato (quando cioè dalle risultanze processuali emerga che un fatto – corrispondente alla figura tipica di reato – sussiste), sicchè la sentenza si limiti ad affermare che nella condotta dell’imputato non si ravvisa l’elemento soggettivo, la formula da assumere è quella “perchè il fatto non costituisce reato” (Cass. Penale sez. 4^, 31479/2002, Rv. 222208;

7557/1992, Rv. 191335, P.M. in proc. Talpo).

La decisione impugnata va quindi annullata senza rinvio agli effetti civili, e la formula assolutoria adottata “perchè il fatto non sussiste” va sostituita con la diversa formula “perchè il fatto non costituisce reato”.

Quanto alla regolazione delle spese tra le parti, è noto che il regime adottato dal legislatore in via ordinaria, con l’art. 541 cod. proc. pen., comma 1, per il pagamento delle spese processuali in favore della parte civile costituita, attesa la sua pertinenza ad una domanda privatistica innestata nel giudizio penale, è fondato sul criterio di soccombenza, in analogia con quanto disposto all’art. 91 cod. proc. civ.. Tale analogia si estende peraltro alla possibilità di disporre la compensazione parziale o totale delle spese, quando ricorrano giusti motivi (ultima parte del citato art. 541 c.p.p., comma 1), così come previsto nel rito civile dall’art. 92 cod. proc. civ., comma 2.

Orbene, avuto riguardo all’odierna fattispecie, appare opportuna una totale compensazione delle spese, considerata la peculiarità della situazione, idonea ad incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti (cfr. in tale senso anche SS.UU. civili, 20598/2008, Rv. 604398).

P.Q.M.

annulla senza rinvio agli effetti civili la sentenza impugnata, sostituendo alla formula assolutoria adottata quella che il fatto non costituisce reato. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2009