Il Procuratore regionale della Corte dei Conti per la Regione Lombardia ha citato in giudizio un dipendente del SSN per ottenerne la condanna al pagamento della somma di euro 567.569,86 a titolo di risarcimento del danno arrecato ad una Azienda ospedaliera. Il convenuto ha prestato servizio come medico pediatra dal 1990 al  2009 presso l’A.O. nonostante fosse privo del diploma di laurea in medicina, così come di quello di specializzazione in pediatria e di qualsiasi diploma di laurea.

Dalle indagini svolte in sede penale è emerso che tutta la documentazione a suo tempo prodotta dall’interessato per ottenere l’assunzione era falsa.

Il procedimento penale, durante il quale il falso medico ha reso piena confessione dei reati a lui ascritti, si è concluso con sentenza di patteggiamento e applicazione all’imputato della pena di mesi sei di reclusione ed euro 600 di multa in relazione ai reati contestati di truffa aggravata di rilevante entità in danno di ente pubblico, uso di atto falso in relazione a certificati e autorizzazioni amministrative, esercizio abusivo della professione medica.

Ad avviso del Procuratore regionale presso la Corte dei Conti, la condotta dolosa avrebbe arrecato all’ente di appartenenza innanzi tutto un rilevante danno patrimoniale diretto, corrispondente all’ammontare netto delle retribuzioni corrisposte durante il periodo in cui lo stesso ha illecitamente prestato servizio come medico pur essendo privo di qualsiasi qualificazione professionale oltre che danno all’immagine della P.A.

Corte dei Conti – Sez. Giur. Lombardia: Sent. n. 321 del 13.06.2012

FATTO

Il Procuratore regionale della Corte dei Conti per la Regione Lombardia ha citato in giudizio il sig. X. X. X. per ottenerne la condanna al pagamento della somma di euro 567.569,86 a titolo di risarcimento del danno arrecato all’Azienda ospedaliera G. X. di X. Milanese.

Espone l’attore che il convenuto ha prestato servizio come medico pediatra dal 05/11/1990 al 05/09/2009 presso la suddetta Azienda ospedaliera nonostante fosse privo del diploma di laurea in medicina, così come di quello di specializzazione in pediatria e di qualsiasi diploma di laurea.

Dalle indagini esperite in sede penale è infatti emerso che tutta la documentazione a suo tempo prodotta dall’interessato per ottenere l’assunzione presso l’azienda ospedaliera era falsa.

Il procedimento penale, durante il quale il X. ha reso piena confessione dei reati a lui ascritti, si è concluso con sentenza di patteggiamento con la quale all’imputato è stata applicata la pena di mesi sei di reclusione ed euro 600 di multa in relazione ai reati contestati di truffa aggravata di rilevante entità in danno di ente pubblico, uso di atto falso in relazione a certificati e autorizzazioni amministrative, esercizio abusivo della professione medica.

Ad avviso del Procuratore regionale, tale condotta dolosa avrebbe arrecato all’ente di appartenenza innanzi tutto un rilevante danno patrimoniale diretto, corrispondente all’ammontare netto delle retribuzioni corrisposte al X. durante il periodo in cui lo stesso ha illecitamente prestato servizio come medico pur essendo privo di qualsiasi qualificazione professionale.

A questo riguardo, il Procuratore regionale ha svolto argomentazioni, supportate da richiami giurisprudenziali, circa la non valutabilità, in termini di utilità comunque percepita dall’ente, delle prestazioni lavorative rese dal cd. funzionario putativo, nell’ipotesi, che ricorre nella fattispecie, di un profilo professionale per il quale è richiesto il possesso di un titolo di studio.

Nel caso specifico, peraltro, tale utilità, che dovrebbe comunque essere provata dal convenuto, sarebbe insussistente non solo sotto il profilo giuridico, ma anche in fatto, come sarebbe dimostrato da alcune richieste risarcitorie rivolte all’azienda ospedaliera da alcuni pazienti.

Altra posta della pretesa risarcitoria è costituita dal danno all’immagine subito dall’ente pubblico per effetto della condotta illecita del X..

Tale danno sarebbe di particolare gravità, considerando: 1) la natura e la durata dei reati che hanno leso direttamente il buon andamento della P.A. e l’interesse pubblico a che il Servizio Sanitario e la professione medica in generale sia svolta esclusivamente da soggetti professionalmente preparati secondo precise tecniche e metodologie; 2) le modalità con cui si é estrinsecato il gravissimo comportamento posto in essere dal X., il quale ha utilizzato certificati di laurea, di specializzazione, di abilitazione falsi, senza alcuna considerazione dei gravi rischi per l’integrità fisica e della salute dei pazienti; 3) il grande clamore destato, soprattutto nell’ambiente sanitario locale e regionale, dalla notizia del “falso medico”, diffusa ed amplificata con grande evidenza e con grande risalto dalla stampa quotidiana, che ha ingenerato ulteriormente l’indubbio discredito della menzionata Azienda Ospedaliera.

Il danno all’immagine sarebbe da considerare risarcibile pur in ipotesi di commissione di reati diversi da quelli previsti dal capo I, titolo II, libro II c.p. ogni qual volta l’attività delittuosa concreti lesione degli interessi costituzionalmente protetti della P.A., compendiati nell’art. 97 della Costituzione.

Circa l’importo di tale posta di danno, il Procuratore regionale, ritenuta la necessità di procedere alla sua quantificazione in via equitativa, l’ha determinato nel 50% degli emolumenti percepiti dal X. per le prestazioni rese in regime libero professionale presso l’azienda ospedaliera.

In sede cautelare, nei confronti del X. è stato autorizzato, con decreto presidenziale del 10 maggio 2011, un sequestro conservativo di beni immobili e crediti fino alla concorrenza del danno per cui si procede, confermato con ordinanza n. 122/2011 del giudice designato, il quale ha peraltro declinato la giurisdizione di questa Corte a ricevere la dichiarazione dei terzi debitori. La Sezione Lombardia, accogliendo il reclamo proposto dal Procuratore regionale con ordinanza n. 154/2011, ha affermato la competenza della Corte dei conti a ricevere le dichiarazioni di terzo; ha tuttavia revocato il sequestro conservativo sui crediti del X. nei confronti della Banca Intesa San Paolo, confermato quello sui crediti del medesimo nei confronti della Banca di Legnano nei limiti del 50% delle somme giacenti sui conti correnti a lui cointestati insieme a persona estranea, in essere presso la filiale di Pero della suddetta Banca, e ha per il resto confermato il sequestro conservativo disposto sugli immobili.

Il convenuto si è costituito a ministero degli avvocati Maurizio BOIFAVA e Tommaso DELLA VALLE, i quali hanno formulato le seguenti conclusioni:

IN VIA PRINCIPALE: respingere la richiesta di condanna al pagamento della somma di € 567.569,86 perché infondata sia in fatto che in diritto;

IN VIA SUBORDINATA PRINCIPALE: in considerazione delle ragioni esposte nella memoria di costituzione, ridurre la condanna per danno patrimoniale diretto nella minore somma di € 152.308,36 e per danno all’immagine nella minore somma di € 10.000,00, il tutto per complessive € 162.308,36, salvo ridurre ulteriormente la stessa ex art. 52 R.D. 1214/1934.

In estrema sintesi, la difesa ritiene applicabile la compensatio tra retribuzioni percepite dal falso medico e prestazioni da questi rese, risultando elementi, dedotti e documentati, che comproverebbero la validità sotto il profilo professionale del servizio espletato dal X..

In subordine, si chiede che lo stimato danno erariale sia ridotto in una misura non inferiore al 75% di quello richiesto in restituzione.

Per quanto concerne il danno all’immagine, nella produzione dello stesso avrebbe concorso il comportamento colposo della stessa amministrazione, che avrebbe omesso, non solo all’epoca dell’assunzione del X., ma anche nel corso della prestazione lavorativa durata ben 19 anni, di svolgere qualsivoglia controllo sulla veridicità dei titoli di studio e delle dichiarazioni dallo stesso rese, concorrendo così a cagionare il danno, che andrebbe quindi ridotto equitativamente in misura non superiore ad € 10.000,00.

Per quanto concerne infine la richiesta di esercizio del potere di riduzione dell’addebito, la stessa troverebbe fondamento nella situazione di maggior rischio derivante in alcuni settori di azione dei pubblici poteri, dall’esercizio di attività potenzialmente di danno, quale sarebbe nel caso di specie l’attività medica pur putativa, che tuttavia non ha dato luogo a fenomeni di malasanità.

Con memoria depositata il 23/02/2012, il Procuratore regionale ha ulteriormente argomentato in ordine alla ammissibilità e al fondamento della domanda risarcitoria riferita al danno all’immagine, sulla base di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 17, comma 30-ter del dl n. 78/2009, pur dopo le sentenze della Corte costituzionale n. 355/2010 e delle SSRR di questa Corte n. 13/2011.

Nell’udienza del 14 marzo 2012, fissata per la discussione della causa, il rappresentante del Pubblico ministero ha integralmente confermato le conclusioni.

Il difensore del convenuto ha eccepito la nullità della citazione per violazione del termine di trenta giorni previsto dall’art. 7 della L. 27 marzo 2001 n. 97, come richiamato dall’art. 17, comma 30-ter del d.l. n. 78/2009. Per il resto, ha confermato le conclusioni difensive.

Il Pubblico ministero ha replicato controeccependo la tardività dell’eccezione di nullità, in quanto proposta oltre il termine fissato per la costituzione in giudizio del convenuto. L’eccezione sarebbe comunque da considerare infondata, dovendosi ritenere che il termine di trenta giorni invocato dalla difesa, che ha natura ordinatoria, sia divenuto perentorio, per effetto della norma che ha sanzionato di nullità gli atti posti in essere in violazione dell’art. 17, comma 30-ter del d.l. n. 78/2009, trattandosi di profili affatto diversi.

Dopo una breve controreplica del difensore, la causa è stata spedita a decisione.

DIRITTO

Va innanzi tutto esaminata l’eccezione di nullità sollevata in udienza dal difensore del convenuto.

Contrariamente all’avviso espresso dal Pubblico ministero, l’eccezione va considerata ammissibile.

Essa è stata infatti proposta in conformità alla disposizione di cui all’art. 17, comma 30-ter del d.l. n. 78/2009, secondo cui “Le procure della Corte dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge. Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata già pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta”.

La norma, come affermato dalle Sezioni riunite di questa Corte nella sentenza n. 13/QM/2011, ha introdotto una speciale disciplina processuale per azionare la nullità in questione. Nella citata sentenza, le SSRR hanno però esplicitamente evitato di affrontare la questione se la dedotta nullità, ove fatta valere, come nel caso di cui ci si occupa, nella forma dell’eccezione sollevata nell’ambito del connesso giudizio di responsabilità, debba o meno soggiacere alle ordinarie preclusioni processuali.

La Sezione reputa maggiormente persuasiva l’opzione interpretativa più favorevole alla parte convenuta, considerando, per un verso, che la norma ammette espressamente la possibilità di far valere il vizio di nullità “in ogni momento” e, per altro verso, che la riconosciuta specialità del procedimento induce a ritenere che la disposizione deroghi anche per tale aspetto al rito ordinario, il quale non consente di proporre eccezioni di parte dopo che sia decorso il termine assegnato per la costituzione in giudizio.

Ciò detto, l’eccezione, anche se ammissibile, si palesa però infondata.

La norma invocata dalla difesa, come richiamata dall’art. 17, comma 30-ter del d.l. n. 78/2009, stabilisce che “la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nel confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale é comunicata al competente procuratore regionale della Corte del conti affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nel confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.

Non è possibile stabilire se il procedimento di responsabilità di cui ci si occupa sia stato promosso dall’attore nel termine di legge, non essendo nota la data nella quale la Procura regionale ha ricevuto notizia del passaggio in giudicato della sentenza penale di applicazione della pena nei confronti del X.. Tuttavia, un approfondimento istruttorio al riguardo si palesa inutile, considerato che, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte, alla quale anche la Sezione aderisce, il termine in questione ha natura ordinatoria e al mancato rispetto di esso non è collegata alcuna sanzione di ordine processuale (Sezione 1^ di appello, n. 508 del 25/11/2008; idem, n. 132 del 12/06/2006; Sezione Lombardia, n. 576 del 29/09/2005). Orientamento che non si ha motivo di rivedere neppure per effetto del richiamo operato dall’art. 17 comma 30-ter cit., per le ragioni esplicitate dal Pubblico ministero in udienza (non potendosi ritenere che la norma sopravvenuta abbia mutato la natura del termine in questione).

L’eccezione va pertanto rigettata.

La Sezione ritiene invece di non poter esaminare la nullità della citazione sotto il diverso profilo della inerenza del danno all’immagine addebitato al convenuto ad un reato diverso da quelli indicati dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97, considerato che in relazione a tale aspetto la parte convenuta non ha formulato alcuna eccezione.

Le Sezioni riunite di questa Corte, con sentenza n. 13/2011/QM del 3/8/2011 hanno affrontato tale questione, pervenendo alla conclusione (v. punto 1 del dispositivo) che “deve escludersi la rilevabilità di ufficio della questione di nullità nel giudizio di responsabilità, ai sensi dell’art. 17 del decreto-legge n. 78 del /2009 e successive modificazioni”.

A tale divisamento l’organo di nomofilachia è pervenuto per le seguenti considerazioni:

– la norma “richiede un “interesse” specifico e concreto a rilevare la nullità, ovvero la titolarità di interesse giuridicamente qualificato; e presuppone che essa sia “fatta valere” da questo soggetto dinanzi alla “competente sezione giurisdizionale”. Ne consegue che – sebbene la nullità in questione possa essere rilevata da “chiunque” ne abbia interesse – essa non può essere rilevata di ufficio dal giudice, perché quest’ultimo, per definizione, non può avere interesse nella causa (ex art.111 Cost.), e perché la norma individua come condizione della nullità un’iniziativa [che le Sezioni riunite hanno ritenuto possa assumere, sotto il profilo che interessa, indifferentemente la veste dell’azione o quella dell’eccezione] di un soggetto interessato dinanzi alla sezione, senza alcun riferimento ad iniziative officiose;

– neppure può affermarsi che la proponibilità della nullità da parte di “chiunque” ne abbia interesse ne implichi la rilevabilità di ufficio, in quanto le due nozioni sono concettualmente distinte (come dimostra l’espressa previsione dell’art. 1421 cod. civ.), ed il confronto tra l’art. 17 in esame (che prevede solo l’iniziativa di parte) e l’art. 1421 cod. civ. (che prevede l’iniziativa di parte e il rilievo di ufficio) conferma che l’intento del legislatore è quello di legare il rilievo della nullità in questione ad un’iniziativa di parte, soprattutto ove si consideri che la nullità in esame ha natura non solo endoprocessuale ma anche “sostanziale” in senso lato;

– che ciò vale anche nel caso della proposizione in via di eccezione in quanto “la tendenziale correlazione tra rilevabilità di ufficio e rilevabilità “in ogni momento” dell’eccezione (artt. 167, 345 c.p.c.) è univoca, non biunivoca: le disposizioni predette fanno discendere la possibilità di rilevare l’eccezione in ogni momento alla  possibilità di rilevarla di ufficio, e non viceversa. Inoltre, tale correlazione è un mero principio tendenziale, derogabile da norme speciali di legge: e nel caso qui in esame, l’art. 17, comma 30-ter, prevede sì una rilevabilità dell’eccezione “in ogni momento” […], ma correla altresì l’esercizio della nullità all’iniziativa di un soggetto titolare di un concreto interesse e quindi ad un’azione o ad un’eccezione espressa”;

– dal punto di vista teleologico, poi, ben può il convenuto avere un interesse ad una pronunzia non meramente processuale della nullità dell’attività svolta dal P.M., bensì ad un accertamento negativo della mancanza di responsabilità erariale; non solo per motivi non patrimoniali di tutela della propria immagine (comunque di per sé rilevanti), ma anche per concreti motivi economici, legati alla possibilità di ottenere il rimborso delle spese di assistenza legale, ammissibile solo in presenza di un proscioglimento nel merito (e quindi non nel caso della pronunzia di nullità, che è di mero rito), dovendosi quindi ritenere ragionevole che il legislatore abbia voluto demandare l’accertamento della nullità alla disponibilità dell’interessato.

La Sezione, condividendo il principio di diritto enunciato dalle Sezioni riunite, ritiene pertanto di procedere all’esame della domanda nel merito.

I fatti materiali su cui si fonda la domanda attrice sono incontrovertibilmente accertati e non sono stati infatti contestati dal convenuto, il quale obietta però che non ne sarebbe derivato alcun danno patrimoniale per l’ente, posto che egli avrebbe esercitato la professione medica, pur in assenza di titolo, in maniera corretta, come sarebbe comprovato sia dai numerosi attestati di stima ricevuti dai pazienti e dalle loro famiglie, sia dallo sviluppo della sua carriera professionale all’interno dell’azienda ospedaliera. Talché alla retribuzione da lui percepita corrisponderebbe una prestazione conforme all’obbligazione lavorativa (con la conseguenza dell’insussistenza del danno in questione o quanto meno del suo necessario contenimento in misura ampiamente inferiore a quella domandata).

Con riguardo al danno all’immagine, la difesa rileva che alla produzione di esso avrebbe concorso in misura significativa la condotta degli organi dell’azienda ospedaliera che avrebbero colpevolmente omesso per un lungo lasso di tempo di esercitare i dovuti controlli sui titoli del convenuto, così agevolandone la condotta illecita. Talché ne deriverebbe la necessità di una congrua riduzione del danno addebitabile al X..

La Sezione rileva, in relazione alla domanda di risarcimento della prima quota di danno, che si ripropone la questione della valutazione, in termini di utilità per la P.A. che ne usufruisce, di una prestazione lavorativa resa da dipendenti pubblici privi del titolo di studio prescritto per l’accesso alla qualifica.

Al riguardo, è convinzione della giurisprudenza maggioritaria di questa Corte (v. ex multis Sezione 3^ di appello, n. 279 del 26/10/2001; Sezione Sicilia, n. 1158 del 29/03/2011), cui questa Sezione aderisce (v. sentenza n. 627 del 02/11/2010), che da tale prestazione, in quanto non espressione di capacità derivanti dalla preparazione professionale conseguente all’ottenimento del titolo di studio, non possa derivare per l’ente alcuna utilità, se non limitatamente al disbrigo di mansioni lavorative aventi caratteristiche di genericità e fungibilità, per le quali non sono richieste conoscenze specialistiche.

Secondo tale orientamento, il sinallagma tra prestazione e retribuzione deve considerarsi irrimediabilmente e integralmente interrotto perché la prima viene ad essere svolta da un soggetto per il quale il possesso dei requisiti di preparazione e capacità occorrenti non è stato oggetto di un accertamento qualificato condotto con le necessarie garanzie di serietà e correttezza. Talché “l’assenza di titoli culturali e professionali preclude in partenza la possibilità di valutazione dell’utilità delle prestazioni svolte, diversamente dal caso di prestazioni effettuate, in assenza di posto in organico, da sanitari comunque muniti degli adeguati titoli professionali. […] Non rileva in contrario il fatto che lo svolgimento di queste mansioni non abbia dato luogo a censure. Non è infatti l’assenza di censure che si richiede in attività di tal genere ma il fatto che esse possano essere esplicate al meglio” (Sezione 3^ di appello, n. 279/2001 cit.).

L’orientamento suddetto appare conforme a quello della giurisprudenza della Corte di Cassazione (v. Sezione 2^ penale n. 36502 del 21 settembre 2009, in terminis n. 15669 del 2009 e n. 22170 del 2007). Nella prima delle sentenze citate è stata esaminata la posizione di un soggetto, imputato di truffa aggravata ai danni di una P.A., per aver ottenuto l’assunzione in un impiego pubblico con la qualifica di infermiere, pur essendo privo del titolo abilitante (avendo prodotto un falso diploma di infermiere professionale).

La Suprema Corte ha ritenuto sussistente il reato, ravvisando l’elemento sia del profitto conseguito dal reo, sia del danno ingiusto arrecato all’ente pubblico, entrambi coincidenti con le retribuzioni illecitamente percepite dall’imputato.

Infatti, il contratto stipulato con la P.A. doveva ritenersi radicalmente nullo per illiceità della causa in quanto “contraria a norme imperative, tra le quali rientrano certamente le norme fondamentali della Costituzione.

Nella specie la causa del contratto è in aperta violazione dell’art. 32 Cost. che tutela il diritto alla salute.

Sembra superfluo sottolineare come il diritto alla salute del cittadino sia stato leso nel caso in esame, ove si è affidata una funzione sanitaria a personale sprovvisto della specifica qualifica, compromettendo sia il diritto alla salute che il regolare espletamento di un efficace servizio sanitario.

Al riguardo appare illogico l’assunto del Tribunale laddove sostiene che, in ogni caso, il ricorrente ha svolto una regolare attività lavorativa, laddove l’attività svolta non era affatto regolare perché compiuta senza la necessaria abilitazione sanitaria, specificamente prevista per lo svolgimento di funzioni lavorative che investono il diritto alla salute, provvisto di tutela costituzionale.

Gli indagati, infatti, occupavano una posizione professionale specialmente qualificata, attesa la natura parasanitaria della funzione svolta, e la loro attività non poteva in alcun modo corrispondere a quella prevista dal contratto applicato, atteso che la mancanza del titolo abilitativo alla professione li rendeva del tutto inidonei a quella funzione.

La valenza costituzionale del diritto alla salute è presente anche nella attività dell’infermiere, atteso che anche tale professione prevede l’iscrizione obbligatoria all’Ordine Professionale (L. n. 42 del 1999; L. n. 251 del 2000; L. n. 43 del 2006).

Appare perciò fondato il motivo di ricorso nella parte in cui ritiene integrata la truffa in tutti i suoi estremi, atteso che il contratto stipulato tra le parti era nullo per illiceità della causa e, non potendo rientrare nel paradigma dell’art. 2126 c.c., comma 1, privava il ricorrente della tutela accordata al lavoro svolto in via di fatto.

Ne consegue che la retribuzione così percepita assumeva i caratteri dell’ingiusto profitto con correlativo danno per la P.A. parte offesa, che ha provveduto al pagamento di retribuzioni non dovute”.

All’accoglimento della domanda non osta l’obiezione difensiva, secondo cui la stessa Procura attrice avrebbe riconosciuto la possibilità di valutare l’utilità conseguita dall’ente per effetto della prestazione lavorativa del convenuto, laddove ha detratto dal totale delle retribuzioni percepite dal X. quanto introitato dall’Azienda ospedaliera per effetto della attività libero professionale svolta dal falso medico, trattandosi di circostanza, attinente alla quantificazione del danno diretto risarcibile, che non inficia il ragionamento svolto in ordine alla sussistenza di detto danno.

Per le ragioni esposte, il X. va quindi ritenuto responsabile dell’intero danno patrimoniale diretto a lui contestato.

Con riguardo al danno all’immagine, non è discutibile che la vicenda di cui è stato protagonista il convenuto abbia seriamente leso la reputazione dell’ente di appartenenza, dando la rappresentazione di una struttura preposta all’erogazione di un servizio essenziale, attinente ad un diritto di rilevanza costituzionale come quello alla salute, che si avvale di soggetti non professionalmente qualificati, oltre tutto immessi in ruoli di assoluto rilievo nell’ambito dell’azienda (come sottolineato dalla stessa difesa, al X. era stato conferito l’incarico professionale di Alta Specializzazione “DH Allergologia” ed era stato designato quale sostituto direttore nel reparto pediatrico). Quali ricadute sulla credibilità ed affidabilità dell’ente sanitario nei confronti della collettività ne siano derivate, con conseguente gravissima compromissione del valore costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione, è di facile intuizione.

Il relativo danno, il quale, secondo giurisprudenza pacifica, non può che essere quantificato in via equitativa, va posto a carico del convenuto nella misura onnicomprensiva di euro 50.000, al netto delle somme già versate dal X. all’amministrazione.

Sull’importo come sopra determinato non può incidere, come avrebbe voluto la difesa del convenuto, il concorso di colpa dell’amministrazione, in virtù della natura dolosa della condotta illecita tenuta dal X., la quale parimenti esclude radicalmente la possibilità di fare uso del potere di riduzione dell’addebito.

La somma dovuta dal convenuto a titolo di risarcimento del danno patrimoniale diretto deve essere incrementata della rivalutazione monetaria sulla base degli indici ISTAT relativi all’aumento del costo della vita per le famiglie di operai e impiegati, con decorrenza che può essere equitativamente fissata dalla data di cessazione del rapporto tra il X. e l’Azienda ospedaliera. Sulla somma rivalutata vanno poi corrisposti anche gli interessi legali, calcolati a decorrere dalla data di deposito della sentenza e sino al soddisfo.

Sulla somma di euro 50.000 dovuta a titolo di risarcimento del danno all’immagine dovranno invece essere corrisposti i soli interessi legali, da calcolare come sopra.

Dal momento in cui la presente sentenza di condanna diverrà esecutiva, si determinerà l’automatica conversione in pignoramento del sequestro autorizzato nei confronti del convenuto, ex art. 686 c.p.c., con onere dell’amministrazione danneggiata di provvedere ai sensi e nei termini di cui all’art. 156 disp. att. c.p.c.

La condanna alle spese segue la soccombenza.