Una paziente ha proposto domanda di risarcimento del danno nei confronti dell’Azienda USL e la Regione a seguito di un intervento chirurgico di ernia discale.

La donna ha addebitato ai sanitari e alle strutture ospedaliere imperizia e negligenza professionale.

Il Tribunale ha accolto la domanda, condannando la Regione a pagare in risarcimento dei danni, ma in appello il giudizio di responsabilità è stato radicalmente ribaltato con l’esclusione di colpa medica

Cassazione Civile – Sez. III; Sent. n. 12229 del 17.07.2012  

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

R.G. ha proposto domanda di risarcimento dei danni contro l’Azienda USL di Parma e la Regione Emilia Romagna a seguito di un intervento chirurgico di ernia discale, a cui è stata sottoposta il X.  presso gli Ospedali Riuniti di Parma.

L’attrice ha addebitato ai sanitari ed alle strutture ospedaliere imperizia e negligenza professionale.

La Regione ha chiesto ed ottenuto di chiamare in causa la s.p.a.

Assitalia per esserne garantita.

Il Tribunale di Parma ha accolto la domanda, condannando la Regione a pagare in risarcimento dei danni la somma di Euro 60.993,79, oltre rivalutazione ed interessi ed ha respinto le altre domande, ivi inclusa quella di manleva.

Proposto appello principale dalla Regione e incidentale dalla R., a cui ha resistito Assitalia, restando contumace la AUSL, con sentenza n. 1415/2009, depositata il 2 dicembre 2009 e notificata il 23 luglio 2010, la Corte di appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, ha escluso ogni responsabilità dei sanitari, rigettando integralmente le domande attrici e compensando le spese dell’intero giudizio.

Con atto notificato il 1- 4 ottobre 2010 la R. propone due motivi di ricorso per cassazione.

Resistono con separati controricorsi la Regione Emilia Romagna, la AUSL di Parma e la s.p.a. Assitalia.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- La Corte di appello ha escluso ogni responsabilità dei sanitari, con la motivazione che il Tribunale: a) è incorso in ultrapetizione, poichè ha ravvisato una colpa dei sanitari nella fase operatoria, mentre l’attrice aveva fondato la sua domanda solo sulla negligenza dimostrata nel trattamento postoperatorio; b) non ha sufficientemente motivato sulla responsabilità nella fase operatoria, che ha attribuito a “manipolazione chirurgica diretta”, senza ulteriori specificazioni, c) ha ritenuto che la condotta dei medici si sia svolta nel rispetto delle: regole della professione, quanto al dovere di vigilanza sulla salute della paziente nella fase postoperatoria poichè “…la sig.ra R. si rivolse, successivamente all’intervento, come le era stato prescritto nel foglio di dimissioni, all’operatore della struttura sanitaria, prof. N., in più occasioni: dapprima in data 30 dicembre 1992, a distanza di meno di un mese dall’intervento, allorchè veniva da costui inviata per una consulenza al servizio di Anestesia di Parma-Sezione Antalgica per i trattamenti del caso; poi in data 26 gennaio 1993, allorchè le veniva prescritto un antidolorifico…, e ancora in data 3 marzo 1993, dove nel corso di una ulteriore visita il professore proponeva altri tre mesi consecutivi di riposo, diagnosticando una “artrodesi spontanea sul setto vertebrale-lombare”; infine in data 25 maggio 93 il prof. N. “convinto che i problemi della R. fossero legati ad una instabilità rachidea, suggeriva di programmare un intervento di artrodesi con placca e viti”.

2.- Con il primo motivo, denunciando violazione di varie norme di legge, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, la ricorrente lamenta:

a) violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte erroneamente ritenuto che il tribunale sia incorso in extrapetizione affermando anche una responsabilità professionale nella fase dell’intervento chirurgico.

Assume che non si è trattato di ultrapetizione, ma della mera interpretazione della domanda da parte del Tribunale, sulla base delle allegazioni delle parti; ed essa attrice aveva chiesto l’accertamento della responsabilità del fatto, così come descritto nelle premesso e con riguardo ad ogni profilo rilevante;

b) violazione dell’art. 1218 c.c., dell’art. 1176 c.c., comma 2, degli artt. 2727, 2729 e 2697 cod. civ., sul rilievo che la Corte di appello sarebbe incorsa nella violazione dei principi che regolano la responsabilità del medico e della struttura ospedaliera, a norma dei quali si tratta di responsabilità contrattuale, derivante da contratto o da “contatto sociale” insito nell’essersi il paziente di fatto rivolto alle cure dei sanitari; che ciò comporta che il danneggiato abbia il solo onere di dimostrare il nesso causale fra le cure a cui è stato sottoposto ed il danno subito, restando a carico delle controparti l’onere di dimostrare di avere correttamente e diligentemente eseguito la prestazione;

c) vizi di insufficienza e di illogicità della motivazione, nella parte in cui la Corte ha ritenuto che le controparti abbiano esattamente adempiuto alle prestazioni a loro carico, disattendendo gli accertamenti contenuti nella consulenza tecnica di ufficio esperita in primo grado.

3.- Le censure sub a) e b) non sono fondate.

3.1.- Quanto ad a), la Corte di appello si è posta il problema della determinazione del contenuto della domanda attrice ed, interpretando la stessa, nell’esercizio dei suoi poteri di valutazione del merito, ha ritenuto che essa non investisse anche i danni derivanti dal comportamento dei sanitari nella fase operatoria.

A fronte della decisione la censura da porre non era quella di violazione dell’art. 112 c.p.c. – violazione che palesemente non sussiste, poichè rientra fra i poteri del giudice di merito quello di procedere all’interpretazione della domanda – ma se mai quella di vizio motivazione nell’esercizio dell’attività interpretativa, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass. n. 24495/2006).

Tali vizi non sono stati dedotti nè illustrati dalla ricorrente.

3.2.- Quanto ab), la Corte di appello non è incorsa nella violazione dei principi che regolano la responsabilità in materia sanitaria, principi che ha correttamente richiamato, affermando che il paziente che agisca per il risarcimento del danno è tenuto a dimostrare la fonte, negoziale o legale, della sua pretesa ed ad allegare l’inadempimento della struttura ospedaliera, dimostrando l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento), ed il relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari; restando a carico dell’obbligato – sia esso il sanitario o la struttura – la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (cfr. pag. 7 e 8 della sentenza, che richiama Cass. civ. Sez., 3, 16 gennaio 2009 n. 975, sulla traccia peraltro di consolidata giurisprudenza anche delle sezioni unite di questa Corte:

cfr. Cass. civ. S. U., 11 gennaio 2008, n. 577).

Non sussistono, quindi, le denunciate violazioni di legge.

3.3.- Sono fondate, invece, le censure sub e) di vizio di motivazione, nella parte in cui la Corte di appello ha escluso la responsabilità dei sanitari per la fase post-operatoria, trascurando fra l’altro di prendere in esame le risultanze della consulenza tecnica.

4.- La censura va esaminata congiuntamente al secondo motivo, con cui la ricorrente lamenta violazione degli art. 61, 62, 191, 196 e 197 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, per avere l’impugnata sentenza disatteso le conclusioni a cui è pervenuto il CTU in merito alla responsabilità professionale dei sanitari nella fase post-operatoria.

La motivazione risulta effettivamente insufficiente ed illogica.

La Corte di appello ha escluso che vi sia stata incuria e negligenza nella fase post operatoria, sul mero rilievo che anche un intervento correttamente eseguito “non avrebbe conseguito una completa restituito in integrum della salute della ricorrente, risultando statisticamente provata, in persone operate di discectomia, la persistenza di ricorrenti dolori lombari con screzio sciatalgico”, e che il comportamento del medico-chirurgo sarebbe stato improntato al rispetto di tutti gli accorgimenti della scienza medica, come attestato dalla costante sorveglianza sulla paziente dopo l’operazione.

Trattasi di motivazione che risulta sostanzialmente apodittica e priva di ogni riscontro oggettivo, a fronte delle circostanze di fatto circa l’evoluzione dei disturbi, prospettate dalla danneggiata e confermate dal CTU. In primo luogo risulta, ed il CTU ha confermato, che gli esiti dell’intervento non sono consistiti in meri strascichi di sciatalgia, ma in un vero e proprio deficit motorio ed in una grave sintomatologia dolorosa protrattasi per quasi tre anni, esiti ben diversi da quelli normali e protrattisi fino a quando la paziente non ha avuto occasione di rivolgersi – di sua iniziativa e non su indirizzo del chirurgo che l’ha operata – ad altro chirurgo ortopedico di Lione, che l’ha nuovamente operata il X. , rimettendola in grado di riprendere le normali attività.

La prima argomentazione della Corte di appello è quindi intrinsecamente contraddittoria, rispetto agli accertamenti in fatto ed alle risultanze probatorie.

Risulta altresì dimostrato che il peggioramento dello stato di salute della R. dopo l’intervento, con conseguente “lombosciatalgia destra e deficit completo E.P.A., E.C.D. e T.A.” è stato constatato nella stessa cartella clinica, e che ciò nonostante la paziente è stata dimessa solo tre giorni dopo l’operazione, a disturbi ancora in corso; che l’asserita, diligente assistenza medica nella fase postoperatoria è consistita solo nell’effettuazione di non più di quattro visite mediche a distanza di mesi l’una dall’altra – fra il 30 dicembre 1992 ed il maggio 1993 – con la mera prescrizione di antidolorifici e senza alcuna indicazione idonea ad indirizzare la paziente verso la soluzione del problema: soluzione a cui la stessa è giunta di sua iniziativa solo nel 1995, allorchè si è rivolta al medico francese presso l’Ospedale di X. .

Tali circostanze trovano riscontro negli accertamenti del CTU, il quale ha concluso che “se il difetto di motricità è stato interpretato come manipolazione chirurgica, ma anche se dovuta a sanguinamento, non credo si possa escludere una qualche responsabilità dell’operatore”…….”pur ammettendo l’accidentalità dell’inconveniente c’è da chiedersi se non vi sia stata una certa leggerezza nel condurre la fase postoperatoria. Una paziente che esce dalla sala operatoria con un deficit totale dello SPE e dello SPI, a nostro avviso richiedeva una particolare attenzione e studio delle cause; invece il X.  (in terza giornata), è stata dimessa con appuntamento a distanza di un mese”.

Di tali valutazioni la Corte di appello non ha tenuto alcun conto.

E’ noto che le valutazioni espresse dal c.t.u. non hanno efficacia vincolante per il giudice, che può legittimamente disattenderle attraverso il suo giudizio critico, sempre che un tale giudizio sia ancorato alle risultanze processuali e risulti congruamente e logicamente motivato.

Il giudice deve indicare, in particolare, gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero le risultanze probatorie, i criteri di valutazione e gli argomenti logico – giuridici per addivenire alla decisione contrastante con il parere del CTU (Cass. civ., Sez. 1, 14 gennaio 1999 n. 333).

Nulla di ciò risulta dalla motivazione della Corte di appello.

5.- In accoglimento del primo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, e del secondo motivo, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, affinchè decida la controversia con congrua e logica motivazione.

5.- Il giudice di rinvio deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte di cassazione accoglie il primo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, ed il secondo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Bologna, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 24 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2012