Un sanitario era stato condannato in primo grado per il reato di cui all’art. 328 c.p., per avere, nella veste di medico addetto al servizio di guardia medica, con orario di servizio dalle ore 20 alle ore 8, indebitamente rifiutato di compiere atti del proprio ufficio che, per ragioni di sanità, dovevano essere compiuti senza ritardo, e segnatamente per avere omesso di presentarsi presso l’ambulatorio (ove era atteso da numerosi pazienti tra i quali uno, che, dopo avere atteso per circa due ore, si era dovuto recare in ospedale per farsi medicare le ferite riportate a seguito di una caduta), presentandovisi soltanto dopo le ore 23, senza comunicare eventuali impedimenti né alle autorità locali né al direttore sanitario.

Tenendo presenti le omissioni perpetrate e ” come le stesse avessero lo specifico scopo di evitare indebite interruzioni nell’espletamento del servizio di assistenza sanitaria, non c’è dubbio che egli, unico incaricato del servizio di Guardia Medica , ne ha sicuramente e consapevolmente prodotto, con la sua condotta omissiva, l’interruzione. Con tale condotta è stato chiaramente integrato il delitto di cui al comma 1 dell’art. 340 c.p..

Tale figura criminosa, invero, per il suo carattere residuale, di reato comune e di fattispecie causalmente orientata, si presta ad abbracciare oggi le condotte omissive, produttive dell’evento interruttivo ivi contemplato, che trovavano in precedenza collocazione nella più ampia previsione del vecchio art. 328 c.p.. e che non sono più inquadrabili nella nuova formulazione di tale norma.”

App. Lecce, Sent., 20-04-2016

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DI APPELLO DI LECCE

Sezione Promiscua

composta dai signori:

Dr. Maurizio PETRELLI – Presidente

Dr. Consiglia INVITTO – Consigliere Rel.

Dr. Massimo ORLANDO – Consigliere

all’udienza del 6 aprile 2016

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel procedimento penale a carico di:

L.G. n.(…) a P. ed ivi residente via (…) P. , 41;

Presofferto: negativo;

– LIBERO PRESENTE –

IMPUTATO

in ordine al reato di cui all’art. 328 c.p., per avere, nella veste di medico addetto al servizio di guardia medica di Ugento, con orario di servizio dalle ore 20,00 alle ore 8,00, indebitamente rifiutato di compiere atti del proprio ufficio che per ragioni di sanità dovevano essere compiuti senza ritardo, in particolare per avere omesso di presentarsi presso l’ambulatorio, ove era atteso da numerosi pazienti tra cui M.C. (il quale, dopo aver atteso per circa due ore, dalle 20,00 alle 22,00, si recava poi presso il P.S. dell’Ospedale di Casarano per farsi medicare le ferite riportate a seguito di una caduta), recandosi presso l’ambulatorio solo dopo le ore 23,00, senza comunicare eventuali impedimenti né alle autorità locali né al proprio direttore sanitario;

in Ugento, il 29.5.2009;

APPELLANTE

avverso la sentenza del Tribunale di Lecce emessa in data 20.5.2011, che così provvedeva: dichiara L.G. responsabile del reato a lui ascritto e per l’effetto lo condanna alla pena di mesi 6 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Dichiara L. interdetto dai pubblici uffici per la durata della pena. Condanna L.G. al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, da liquidarsi in separata sede, nonché alla rifusione delle spese relative all’esercizio in questa sede dell’azione civile, liquidate in Euro 1100 per ciascuna parte civile oltre accessori di legge.

La Corte di Appello di Lecce, con sentenza emessa in data 26 giugno 2014, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Lecce, in data 20.05.2001, appellata da L.G., riqualifica il fatto nel delitto di cui all’art. 340 c.p. e ridetermina la pena inflittagli in quella di tre mesi di reclusione. Conferma nel resto la sentenza appellata e condanna L.G. a pagare alla parte civile ASL di Lecce, in persona del presidente pro-tempore, le spese di questo grado di giudizio che liquida in 1700,00 Euro, oltre rimborso spese forfettarie, iva e c.a. come per legge.

La Corte Suprema di Cassazione, con sentenza del 3 giugno 2015, annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il L. era stato condannato in primo grado per il reato di cui all’art. 328 c.p., per avere, nella veste di medico addetto al servizio di guardia medica di Ugento, con orario di servizio dalle ore 20 alle ore 8, indebitamente rifiutato di compiere atti del proprio ufficio che, per ragioni di sanità, dovevano essere compiuti senza ritardo, e segnatamente per avere omesso di presentarsi presso l’ambulatorio (ove era atteso da numerosi pazienti tra i quali uno, che, dopo avere atteso per circa due ore, si era dovuto recare in ospedale per farsi medicare le ferite riportate a seguito di una caduta), presentandovisi soltanto dopo le ore 23, senza comunicare eventuali impedimenti né alle autorità locali né al direttore sanitario.

Con sentenza in data 26.6.2014 la Corte d’Appello di Lecce, in parziale riforma della citata sentenza, pronunciata il 20.5.2011 dal Tribunale di Lecce ed appellata dall’imputato L.G., ha riqualificato il fatto ascrittogli nel delitto di cui all’art. 340 c.p., cosi rideterminando la pena a lui infitta in mesi tre di reclusione e confermando nel resto la condanna pronunciata nei suoi confronti in primo grado.

Detta sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione dal L.G., affidato a tre motivi di gravame, con il primo dei quali ha lamentato vizio di motivazione in punto di affermazione della sua responsabilità.

Il L., invero, ribadendo di avere tardato a raggiungere l’ambulatorio a seguito di un guasto subito dalla sua autovettura, come documentato nel Registro delle Presenze del maggio 2009 e nel Registro delle Prestazioni del servizio di Guardia Medica di Ugento del 29-5-2009, e di avere avvisato di ciò il collega S., al quale aveva chiesto se poteva sostituirlo, evidenziava come a fronte di tali risultanze, i testi dell’Accusa fossero, per altro, caduti in tali e tante contraddizioni, da non poter essere considerati attendibili.

Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, invece, l’inconciliabilità tra il dispositivo della sentenza impugnata (che si è limitato a riqualificare il fatto contestato ai sensi dell’art. 340 c.p. e a rideterminare la pena inflitta) e la motivazione della decisione, che ha ritenuto altresì sussistente l’aggravante di cui all’art. 61 n. 9 c.p..

Con il terzo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento all’eccessività della pena inflitta per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

Con sentenza n. 26827/2015 del 3.6.2015, depositata il 25.6.2015, la Corte di Cassazione ha accolto l’impugnazione, ritenendo fondato il primo profilo di gravame, sicché ha annullato la sentenza della Corte di Appello di Lecce.

Ha affermato, invero, la Corte la fondatezza del primo motivo di ricorso, in quanto “La Corte di Appello di Lecce si e(ra) limitata a sinteticamente smontare l’assunto difensivo in riferimento alla contraddizioni in cui sarebbero incorsi i testi dell’Accusa (metà pag. 2) e a riportare per esteso una sentenza di questa Corte di Cassazione (pagg. 3-6) per riqualificare il fatto ascritto al prevenuto ai sensi dell’art. 340 c.p. Nessuna reale risposta risulta(va) fornita ai rilievi svolti nei motivi di gravame, sostanzialmente ribaditi nell’odierno ricorso”.

Concludeva il Giudice di legittimità evidenziando ” un quadro di mancanza assoluta di motivazione, che impone l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce”.

Pertanto la Corte ha annullato la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Lecce per colmare le riscontrate alcune motivazionali.

All’odierna udienza, quindi, al termine della discussione orale del processo, il p.g. ed il difensore hanno concluso come da verbale in atti.

L’appello è fondato per quanto di ragione.

L’onere motivazionale da compiere in questa sede di rinvio riguarda in modo specifico, alla luce della decisione emessa dalla Suprema Corte, la rivalutazione dei motivi di doglianza proposti dal L. avverso al sentenza di primo grado, su cui la Corte, con la sentenza annullata, non avrebbe congruamente motivato.

Con il primo motivo di appello proposto il L. invero, chiedeva, in riforma della sentenza del Tribunale di Lecce, in data 20.5.2011, l’assoluzione dall’imputazione contestata, perché il fatto non sussisteva, posto che aveva fornito la prova documentale e testimoniale del ritardo con cui si era presentato alla Guardia Medica, ove era giunto, a suo dire, alle 22.00 anziché alle 20.00, laddove, invece, il tribunale, trascurando del tutto ed ingiustificatamente dette emergenze, aveva, invece, dato credito esclusivamente ai testi d’accusa, M. e N., nonostante le ampie contraddizioni contenute nelle rispettive dichiarazioni.

Rileva la Corte che le rilevate contraddizioni in cui sarebbero incorsi i testi d’accusa ( relative per esempio alla presenza alle ore 20.00 del figlio del M., sopraggiunto dopo, anziché di un dipendente del supermercato presso cui il M. era caduto e che lo aveva accompagnato), appaiono assolutamente trascurabili ed insufficienti a scardinare l’impianto accusatorio, che su tali dichiarazioni poggia, posto che concernono circostanze del tutto marginali e prive di specifica significanza, sul piano probatorio, mentre i testi sono assolutamente convergenti e granitici sul dato centrale su cui poggia, invece, l’impianto accusatorio, e segnatamente il fatto che il dr. L. comunque non si sia presentato presso l’ambulatorio della Guardia Medica almeno fino alle 23.00/23.30, per essere i testi rimasti lì insieme ad altre persone ( il N. personalmente ed il M. per averlo appreso dal figlio) almeno fino a quell’ora senza vederlo arrivare.

Aggiungasi poi che i testi concordano assolutamente anche nel riferire che dalle ore 19-45/20.00 e almeno fino alle ore 23.00/23.30 il dr. L. non si sia presentato in ambulatorio e che questo non era chiuso, ma presentava la luce accesa all’interno ed all’esterno un cartello con l’indicazione “visita domiciliare”. Di qui l’attesa prolungata (…) del medico. Dette deposizioni sono determinanti per accertare il lasso di tempo in cui il medico era assente dal posto di lavoro, e le contraddizioni su particolari assolutamente di contorno della vicenda sono certamente irrilevanti né sembrano alla Corte tali da inficiare complessivamente l’intera deposizione. Del resto la mancata memorizzazione di particolari del tutto trascurabili e secondari è anche comprensibile sia in ragione del tempo trascorso tra i fatti e la deposizione resa a dibattimento, sia del fatto che comunque il ricordo si focalizza di regola sui dati salienti di una vicenda, tralasciando elementi di contorno del tutto insignificanti, che possono essere dimenticati, senza da ciò potersi inferire una totale inaffidabilità del ricordo.

E’ provato, pertanto, con certezza ed al di là di ogni ragionevole dubbio, sulla scorta delle ricordate deposizioni, assunte a dibattimento in prime cure, che il dr. L. non fosse presente in ambulatorio alle ore 20.00 come avrebbe dovuto e almeno fino alle ore 23.30.

A fronte di tale dato fondante la responsabilità del prevenuto, le giustificazioni dallo stesso addotte non paiono, di contro, né sufficientemente provate, né idonee a scardinare l’impianto accusatorio.

In primo luogo, va osservato che la deposizione del dr. S., se conferma di essere stato contattato effettivamente dal L. alle ore 20.30 del 29.5.2009 per sostituirlo, non riferisce le ragioni della richiesta, avendogli il L. in quella sede addotto genericamente la presenza di problemi che gli avrebbero impedito di raggiungere la sede di lavoro.

Del resto del guasto tecnico alla vettura non viene fornita alcuna prova: assume il L. di essere partito da Presicce alle ore 19.55 per recarsi in Ugento e che giunto a Gemini avrebbe avuto un guasto alla sua vettura, tanto che, non potendo arrivare ad Ugento, avrebbe prima chiamato il S. per essere sostituito e quindi, stante la risposta negativa di questi, si sarebbe attivato, tornando a Presicce,per reperire altra vettura, con cui giungere in ambulatorio, se pur in ritardo, ma non indica né chi avrebbe contattato per soccorrerlo, né come sarebbe rientrato a Presicce, né chi qui gli avrebbe fornito la vettura sostitutiva, con cui poi a suo dire alle 21.45 sarebbe giunto a Ugento.

Trattasi di dati certamente fondamentali per suffragare la tesi difensiva che tuttavia restano sforniti di riscontro.

Certo è, di contro, che nessun teste lo abbia visto arrivare, come egli asserisce, alle ore 21.45/22.00 in ambulatorio, pur essendo presenti sul posto i pazienti che lo attendevano.

In tal senso milita la deposizione di N.P., che assume di essere rimasto in ambulatorio fino alle 23.30 in compagnia del figlio del M., e di M.C., che assume di essere rimasto in ambulatorio dalle 20.00 alle 22.00 e di essersi quindi recato al PS di Casarano per farsi medicare le ferite riportate a seguito di una caduta.

Così come singolare è anche l’indicazione da parte del prevenuto di un tal M.L., cui il L. sarebbe andato ad effettuare una visita domiciliare alle ore 22.30, e che tuttavia non è stato rintracciato e di cui nei registri delle prestazioni non è indicato altro se non il nome, e quindi neppure la patologia riscontrata e le ragioni per la visita domiciliare e (…) indicazioni terapeutiche effettuate.

Né prova idonea a scardinare l’impianto accusatorio può ricavarsi dalle indicazioni contenute nel Registro delle Presenze del maggio 2009 e nel Registro delle Prestazioni del servizio di Guardia Medica di Ugento del 29-5-2009, dove si attesterebbe che il dr. L. sarebbe giunto in ambulatorio con un ritardo di due ore ( alle 22.00 anziché alle 20.00) posto che le suddette indicazioni sono vergate a mano dallo stesso dr. L. e non certificate nella loro veridicità da alcuno né in alcun modo. Il fatto poi che tali attestazioni provenienti dalla parte siano assunte dalla ASL a base delle retribuzioni del medico è inerente al rapporto fiduciario della Amministrazione con il dipendente, ma non vale a conferire a tali atti di parte alcuna efficacia probatoria, valida in questa sede a scardinare il complessivo corredo acquisito agli atti.

Ad ogni buon conto, ove pure volesse – e non è – darsi credito alla tesi difensiva dell’imputato, e cioè che a causa di un guasto sia giunto in ambulatorio alle ore 21.45, comunque resta insuperabile,ai fini dell’affermazione di responsabilità del L.,il fatto storico, certamente provato in atti, per quanto già detto, che almeno fino alle ore 23.00/23.30 i pazienti, che pure lo attendevano in ambulatorio, N.P. e M.C., non lo abbiano visto qui arrivare, sicché manca comunque una seria giustificazione dell’assenza del L. dal posto di lavoro almeno dalle 21.45 – quando assume di essere arrivato – alle 23.30, orario in cui i testi escussi hanno deciso di lasciare l’ambulatorio. Né tale lasso temprale può essere colmato dalla visita domiciliare al M., vuoi perché non vi è riscontro, non essendo stato il suddetto M. individuato e rintracciato, vuoi perché comunque prima di recarsi in visita domiciliare il L. avrebbe dovuto passare per l’ambulatorio ( la visita è segnata alla 22.30 e l’arrivo del L. è da lui indicato alle 21.45/22.00), a tacer della singolare circostanza che l’indicazione di “medico in visita domiciliare” fosse già presente sulla porta dell’ambulatorio sin dalle 20.00 quanta il dr. L. era ancora all’incrocio per Gemini con l’auto in panne.

Non residuano, quindi, dubbi sulla responsabilità del prevenuto in ordine alla condotta allo stesso contestata.

Alla stregua di quanto esposto, non hanno importanza, per la valutazione del comportamento dell’imputato, le questioni relative alla esistenza o meno di una causa di giustificazione dell’assenza/ ritardo, posto che ciò che è pacifico, e che rileva ai fini della dell’omesso espletamento dell’assistenza, è l’assenza dal servizio non accompagnata dalla immediata nomina del sostituto né dalla tempestiva informazione alla USL dell’eventuale impossibilità di assicurare tale sostituzione.

Giova a questo punto esaminare la doglianza esposta dal L. nel secondo motivo di appello con cui invoca l’assoluzione, in quanto la condotta omissiva contestata non integra gli estremi del reato di rifiuto di atti di ufficio di cui all’art. 328, comma 1, c.p. come risultante dalla modificazione di tale norma a seguito della riforma introdotta con la L. 26 aprile 1990 n. 86, che impone che l’atto debba essere compiuto senza ritardo, per non essere il fatto più previsto dalla legge penale come reato.

Il principale problema che si pone è dunque se la condotta posta in essere dal L. configuri o meno la fattispecie delittuosa del “rifiuto” di cui all’art. 328 c.p. che, in relazione alla esigenza, sottolineata nell’ultima parte del comma 1 dell’art. 328 c.p., che un atto, nell’ambito di determinate materie, debba, secondo l’ordinamento, essere compiuto “senza ritardo”, così penalmente rilevando, in rapporto ad esso, anche la semplice omissione.

Ad avviso del Collegio, non c’è dubbio che la nozione di rifiuto, di cui al comma 1 dell’art. 328, come novellato dalla L. n. 86 del 1990, implica, per sè, un atteggiamento di diniego (esplicito o implicito) a fronte di una qualche sollecitazione “esterna”, dall’altro il pregnante rilievo dato dalla norma alla oggettiva impellenza di determinati interventi induce a ritenere che la sollecitazione stessa, ove non sia espressamente prevista la necessità di una richiesta o di un ordine, possa anche essere costituita dalla evidente sopravvenienza in sè dei presupposti oggettivi che richiedono l’intervento.

A fronte di un’urgenza sostanziale impositiva dell’atto, resa evidente dai fatti oggettivi posti all’attenzione del soggetto obbligato ad intervenire, non c’è dubbio che l’inerzia omissiva del medesimo assuma intrinsecamente valenza di rifiuto e integro quindi la condotta punita dalla norma scaturente dalla novella. Ciò che sicuramente non rientra più, invece, nella previsione della norma de qua è l’inosservanza in sè di obblighi, pur se astrattamente previsti come urgenti, da parte del P.U. o dell’incaricato di p.s. ove non ricorra una sollecitazione soggettiva ovvero un’emergenza di natura oggettiva, rappresentativa di un’urgenza sostanziale nel senso indicato (di fronte alla quale l’ingiustificata inosservanza assurga univocamente a diniego dell’atto dovuto).

Applicando tali principi alla fattispecie di causa, deve rilevarsi che in relazione alle prestazioni richieste da N.P. ( la prescrizione di alcuni farmaci) e dal M.C. ( la medicazione di una ferita non grave ) non sussisterebbe effettivamente il requisito di una “urgenza ” tale da essere qualificabili come atti che dovevano essere compiuti “senza ritardo”, sicché gli obblighi gravanti sul medico di base impossibilitato a prestare la sua opera (immediata nomina di un sostituto ovvero immediata comunicazione alla USL dell’impossibilità di provvedere a tale sostituzione), e a cui il prevenuto è venuto meno, hanno evidentemente lo scopo di evitare indebite interruzioni nell’espletamento del relativo servizio di assistenza sanitaria.

La ragione “sostanziale” di igiene e sanità che conferisce a tali obblighi una possibile rilevanza penale agli effetti del comma 1 dell’art. 328 c.p. è, tuttavia, chiaramente data dall’esigenza di scongiurare i pregiudizi individuali e collettivi che possono rivenire alla popolazione dalle interruzioni suddette. Non ogni violazione degli obblighi stessi può dunque integrare il delitto omissivo de quo, ma solo quella che avvenga in dispregio della esigenza suddetta, che, in mancanza di una specifica sollecitazione da parte dell’autorità competente o di diretti interessati, può anche essere resa evidente da fatti obiettivi (ad es. notizie di concreti problemi sanitari per gli assistiti) venuti alla cognizione del sanitario.

Nel caso di specie non risulta che il L. abbia tenuto la sua condotta omissiva in funzione di risposta negativa a sollecitazioni soggettive od oggettive nel senso illustrato. Ne consegue, alla stregua dei principi suesposti, che la stessa non può configurare la fattispecie delittuosa contestata di cui all’art. 328 c.p..

La condotta stessa non è pero priva di rilevanza penale.

Tenendo presenti gli obblighi a cui il L. ha omesso di adempiere e come gli stessi avessero lo specifico scopo di evitare indebite interruzioni nell’espletamento del servizio di assistenza sanitaria, non c’è dubbio che egli, unico incaricato, il 29.5.2009, del servizio di Guardia Medica in Ugento, ne ha sicuramente e consapevolmente prodotto, con la sua condotta omissiva, l’interruzione. Con tale condotta, quindi, pienamente ricompresa nel capo d’imputazione, è stato chiaramente integrate il delitto di cui al comma 1 dell’art. 340 c.p..

Tale figura criminosa, invero, per il suo carattere residuale, di reato comune e di fattispecie causalmente orientata, si presta ad abbracciare oggi le condotte omissive, produttive dell’evento interruttivo ivi contemplato, che trovavano in precedenza collocazione nella più ampia previsione del vecchio art. 328 c.p.. e che non sono più inquadrabili nella nuova formulazione di tale norma.

I fatti di cui al capo di imputazione vanno dunque qualificati come reato previsto e punito dall’art. 340 c.p.. ( v. sul punto anche Cass. 20.2.1998 n. 5482 nella specie, di medico della Usl provvisoriamente incaricato di medicina generale per convenzione, che, assentatosi dal lavoro, aveva omesso di farsi sostituire fin dall’inizio dell’assenza e di dare tempestiva informazione alla Usl di non essere riuscito ad assicurare la propria sostituzione, secondo quanto previsto dall’art. 9 D.P.R. 8 giugno 1987, n. 289).

Consegue quindi la condanna del prevenuto per tale reato.

Va esclusa, comunque, la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 9 c.p. erroneamente ritenuta dalla Corte nella sentenza annullata come contestata in fatto nella parte in cui si attribuisce all’imputato la mancata comunicazione dell’impedimento all’Autorità competente con violazione dei suoi doveri, non potendo accedersi ragionevolmente a siffatta ricostruzione della condotta contestata al prevenuto, come comprendente anche l’indicata aggravante.

L’esclusione della aggravante in scrutinio, tuttavia, non incide sulla esclusione della interdizione temporanea dai pubblici uffici, applicata in primo grado e che va confermata, conseguendo comunque la stessa alla commissione di reati in danno della PA, come nella specie, anche indipendentemente dalla ricorrenza della aggravante di cui all’art. 61 n. 9 c.p., ritenuta dal giudice di appello.

Sul punto relativo alla concessione delle attenuanti generiche, negate in prime cure e pure oggetto di gravame, può, invece, pervenirsi, al riconoscimento del beneficio di cui all’art. 62 bis cod. pen. fondandosi il giudizio prognostico positivo della capacità a delinquere del prevenuto, che in futuro si asterrà dal commettere reati, sulle condizioni soggettive dell’imputato stesso, che in circa quaranta anni di attività non avrebbe mai violato i doveri connessi all’ufficio svolto e che non ha riportato neppure precedenti penali di altra natura.

Consegue da tanto che il gravame debba essere accolto, anche sul punto, con conseguente concessione delle attenuanti generiche.

Va quindi rideterminato il trattamento sanzionatorio per il reato di cui all’art. 340 c.p., come modificata l’originaria imputazione, risultando congrua la dosimetria della pena contenuta nella sentenza d’appello annullata, in ragione della reale gravità del fatto commesso, previa esclusione dell’aumento di gg. 15 per l’aggravante di cui all’art. 61 n. 9 c.p., erroneamente ritenuta dalla Corte, sicché, in considerazione degli indici previsti dall’art. 133 c.p., deve irrogarsi la pena di mesi due e gg. 15 di reclusione, che tenendo conto della diminuzione di pena per la concessione delle attenuanti generiche, si riduce alla pena complessiva di mesi uno giorni 20 di reclusione, ( che viene così determinata: p.b. mesi due e gg. 15 di recl. – 1/3 ex art. 62 bis c.p. = mesi uno e gg. 20).

La misura della pena irrogata giustifica anche la concessione il beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione, non essendo l’imputato gravato da alcun precedente penale.

Entro tali limiti il gravame può essere accolto, con conseguente conferma nel resto dell’impugnata sentenza.