Ritiene il Tribunale che nel caso in esame debba trovare adeguato ed autonomo ristoro il danno morale, identificabile nella sofferenza psicologica derivante dalla consapevolezza non tanto di essere affetta da una patologia grave, ma del maggior rischio di recidiva correlato alla ritardata diagnosi (con un tempo di attesa dipanatosi, secondo le valutazioni AIOM, nelle frazioni di due/cinque anni, costituenti notoriamente parametri di riferimento temporale per escludere con alta percentuale il rischio di recidive); la fortunata circostanza che il tempo trascorso abbia eliso il maggior rischio in origine esistente (valutabile ab origine in una perdita di chance del 22%) e che la sofferenza debba oggi dirsi superata per la positiva evoluzione del decorso post terapia, non vale ad escludere che il danno morale patito, per intensità e per sua natura, non possa ritenersi assorbito nelle ordinarie componenti di sofferenza psicologica conseguenti alle lesioni riportate all’integrità fisica, compendiate nel caso in esame nella sola invalidità temporanea parziale.


Tribunale Milano Sez. I, Sent., 21-06-2018

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO

PRIMA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Loretta Dorigo

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 59990/2014 promossa da:

K.A.R.B. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. MONTEMARANO EMANUELE e dell’avv. URGO GIUSEPPINA ((…)) VIA DI S. COSTANZA, 27 00198 ROMA; CANCELLI ALESSANDRA ((…)) PIAZZA IV NOVEMBRE, 6 20124 MILANO; elettivamente domiciliato in VIA DI SANTA COSTANZA, 27 00198 ROMA presso il difensore avv. MONTEMARANO EMANUELE

ATTRICE

contro

AZ. O.F. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. DE PASCALE DARIO, elettivamente domiciliato in CORSO SEMPIONE 9 20100 MILANO presso il difensore avv. DE PASCALE DARIO

AZ. O.I. ORA A.N.M. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. LOMARTIRE GIAMBATTISTA e dell’avv. VETERE KATIA ((…)) VIA BORGONUOVO, 4 20121 MILANO; elettivamente domiciliato in VIA BORGONUOVO, 4 20121 MILANO presso il difensore avv. LOMARTIRE GIAMBATTISTA

M.B.R. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. DE VECCHI GIANALBERICO e dell’avv. CONSONNI ANTONELLA ((…)) CORSO PORTA ROMANA 108 20135 MILANO; elettivamente domiciliato in VIA BRIOSCHI, 33 20136 MILANO presso il difensore avv. DE VECCHI GIANALBERICO

E.G. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. PLACANICA MARIA TERESA, elettivamente domiciliato in VIA CAMILLO HAJECH, 10 20129 MILANO presso il difensore avv. PLACANICA MARIA TERESA

CONVENUTI

X.I. COMPANY SE (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. FEDELI RENATO, elettivamente domiciliato in VIA G. GRIZIOTTI, 1 20145 MILANO presso il difensore avv. FEDELI RENATO

TERZA CHIAMATA

Oggetto: responsabilità medica, risarcimento del danno.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

I

Con atto di citazione notificato rispettivamente in data 9/10/2014, 20/10/2014, 10/10/2014 e 6/10/2014, la signora R.B.K.A., conveniva in giudizio l’Azienda O.F., l’Azienda O.I., la dott.ssa M.B.R. e il dott. E.G., allegando e deducendo che:

-il 7/8/2012 si era sottoposta presso la dott.ssa R. degli ICCP a visita ginecologica ambulatoriale per gravidanza in corso; rilevata una erosione della cervice uterina, il medico indirizzava la paziente presso il più vicino P.S, al fine di eseguire un pap test ed ogni altro utile accertamento diagnostico al fine di accertare se il sintomo, valutato alla luce delle perdite ematiche presentate, dovesse essere ricondotto ad una minaccia di parto prematuro, ovvero ad un problema di diverso tenore;

-ricoverata presso l’O.M.M., presidio dell’O.F., venne trattata come gravida alla 29a settimana con minaccia di parto prematuro; identica diagnosi venne posta in un successivo ricovero presso l’Istituto Mangiagalli, benchè in entrambi i casi non vi fossero indici clinici di minaccia di parto prematuro e fosse necessario procedere ad una diagnosi differenziale;

-visitata nuovamente dalla dott.ssa R. il 12/10/2012, veniva refertava una lesione al collo uterino di dimensioni aumentate; la dottoressa disponeva un nuovo invio in M.M. per ulteriore valutazione non già di parto pre termine, ma per valutazione della lesione alla cervice;

-il dott. G., all’esito della visita, diagnosticava un polpo cervicale, senza disporre alcun ulteriore accertamento;

-il 6/11/2012 l’attrice veniva sottoposta a taglio cesareo;

– nel corso di una nuova visita presso gli I. in data 14/5/2013, veniva sottoposta a colposcopia e a biopsia urgente, con referto di carcinoma squamoso cellulare, diagnosi confermata presso l’Istituto dei Tumori di Milano che procedeva a tre cicli di chemioterapia per la riduzione della lesione neoplasica e alla successiva asportazione chirurgica in data 19/8/2013;

-la condotta dei sanitari intervenuti nel corso delle plurime visite e nel corso del parto aveva violato le più elementari regole di prudenza, diligenza e perizia, comportando una ritardata diagnosi di patologia tumorale che aveva grandemente ridotto le chances di guarigione della paziente e aveva comportato lesioni permanenti causanti lo stravolgimento della vita personale e di relazione, con una invalidità civile riconosciuta nella misura del 70%;

-all’esito delle cure prestate permaneva un’invalidità biologica permanente pari al 60%, avendo il ritardato intervento comportato una isterectomia totale e una salpingectomia bilaterale in età fertile (danno liquidabile in Euro547.532,00); l’attrice aveva altresì subito un’invalidità temporanea: assoluta per 45 giorni (Euro5.400,00); era altresì configurabile un danno da perdita di chances per ritardata diagnosi con aggravamento della patologia neoplasica e aumento del rischio di recidiva in una donna giovane, con tre figli a carico (Euro361.371,00); nella liquidazione complessiva doveva altresì tenersi conto del danno morale da sofferenza d’animo (Euro273.766,00) e del danno esistenziale per lo stravolgimento della vita di relazione (Euro136.883,00);

– il danno biologico permanente e temporaneo, ove non si ritenesse di accedere ad una autonoma liquidazione del danno morale ed esistenziale, avrebbe dovuto essere personalizzato nella misura massima secondo quanto previsto dalle note Tabelle Milanesi.

Tutto quanto premesso, l’attrice chiedeva l’accertamento dei profili di responsabilità professionale di parti convenute e la condanna di esse al risarcimento di tutti i danni subiti, da liquidarsi nella misura sopra indicata, con vittoria delle spese di lite.

Si costituiva ritualmente in giudizio l’Azienda O.F., ora A.F.S., eccependo e deducendo il difetto di allegazione di controparte in ordine sia all’efficienza eziologica delle prestazioni fomite, non sussistendo correlazione tra esse e i postumi dedotti, derivanti dalla natura dell’originaria patologia, sia in ordine ai danni di cui la paziente chiedeva la liquidazione. L’Ente chiedeva in via preliminare l’autorizzazione ex art. 269 c.p.c. alla chiamata in causa a garanzia di X.I. Company PLC; nel merito, chiedeva il rigetto delle avverse domande, con rifusione delle spese di giudizio.

Si costituiva ritualmente in giudizio l’Azienda O.I., ora A.M.N., eccependo e deducendo il proprio difetto di responsabilità sia in ordine sia alla causazione del danno, non sussistendo correlazione tra le prestazioni eseguite e i postumi dedotti, sia in ordine alle voci di danno di cui chiedeva la liquidazione. Chiedeva nel merito il rigetto delle avverse domande, con rifusione delle spese di giudizio.

Il dott. G.E., costituitosi in termini in giudizio, allegava e deduceva che:

-la paziente, all’atto del primo contatto, presentava una anamnesi ed i segni clinici della minaccia di parto prematuro;

-in ogni caso le condizioni della gravidanza e dei tessuti presentanti la lesione non avrebbero consentito un differente approccio terapeutico, dovendosi rimandare ogni approfondimento diagnostico ed eventuali interventi successivamente al parto;

-l’intervento di taglio cesareo era programmato a distanza di sole tre settimane dalla visita in contestazione; un lasso di tempo così contenuto non aveva comportato alcuna alterazione delle possibilità di intervento e cura in favore della paziente e doveva considerarsi ininfluente nella evoluzione della patologia;

-la paziente era stata informata di dover differire successivamente al parto ogni ulteriore attività clinica; ciò nonostante, lasciava trascorrere ben sei mesi dal parto prima di ripresentarsi in ospedale, saltando anche la visita di routine a distanza di 40 giorni dal parto;

-la condotta colposa dell’attrice aveva inciso sulla causazione del danno, da attribuirsi esclusivamente alla colpevole negligenza dalla medesima dimostrata;

-vi era un evidente difetto di allegazioni di controparte sia in ordine al danno biologico, permanente e temporaneo dedotto, sia alla perdita di possibilità di sopravvivenza.

Chiedeva dunque il rigetto della domanda in quanto infondata; in subordine, chiedeva la graduazione della colpa tra tutti i convenuti in ragione della rispettiva quota di responsabilità, con condanna a manleva dell’O.F. e con il favore delle spese di lite.

La dott.ssa R.M.B., costituitasi ritualmente, eccepiva e deduceva che:

-aveva visitato la paziente solo tre volte nell’arco di 35 giorni, in un ambulatorio esterno alla struttura ospedaliera, pur appartenendo agli I., indirizzando la paziente per i necessari approfondimenti diagnostici presso centri più attrezzati, prendendo contatti diretti con il prof. G. in occasione del secondo e del terzo accesso ospedaliero affinchè venissero svolti con urgenza gli esami del caso in ordine alla lesione della cervice refertata;

-non vi era dunque stata da parte propria alcuna sottovalutazione delle condizioni cliniche della paziente, cui aveva tempestivamente diagnosticato la lesione uterina, segnalandola ai sanitari dell’Ospedale cui la paziente era stata inviata;

-quanto ai danni richiesti, doveva tenersi presente che trattasi di tumore ad evoluzione lentissima, con conseguente irrilevanza per le possibilità di guarigione di un ritardo di pochi mesi;

-peraltro, emergeva dalla storia clinica della paziente che le era stato prescritto per ben tre volte un pap test, sin dal 2006, dalla medesima mai effettuato, circostanza sottaciuta dall’interessata e che aveva impedito una precoce diagnosi del tumore;

-in ogni caso, dovendosi inquadrare la responsabilità del sanitario dipendente ospedaliero nel paradigma di cui all’art. 2043 c.c., si evidenziava vieppiù il difetto di allegazioni e prova di controparte in ordine alla responsabilità della convenuta. Chiedeva pertanto il rigetto della domanda attorea, con il favore delle spese di lite.

Il Tribunale autorizzava la chiamata in giudizio ex art. 269 c.p.c. di X.A. PLC, come da decreto in atti.

La Compagnia assicuratrice, costituitasi, deduceva ed eccepiva l’assenza di responsabilità dell’ente assicurato nella causazione dei fatti per cui è causa; in via preliminare eccepiva la sussistenza di una franchigia contrattuale di Euro 250.000,00, ampiamente superiore rispetto alle potenziali poste risarcitorie liquidabili in giudizio. Chiedeva, dunque, il rigetto della domanda atto rea, in quanto infondata; in subordine, la limitazione di quanto dovuto dall’assicurato a titolo di risarcimento nei limiti della propria responsabilità, con il riconoscimento della franchigia contrattuale, con rifusione delle spese di lite.

All’esito della trattazione – con espletamento di CTU medico legale sulla persona di parte attrice – la causa era rimessa in decisione sulla precisazione delle conclusioni formulate dalle parti come in epigrafe.

II

Ritiene il Tribunale che le domande dell’attrice R.B.K.A. debbano essere accolte per le ragioni e nei soli limiti che seguono.

E’ necessario sinteticamente ripercorrere il contenuto della CTU medico legale svolta sulla persona di parte attrice.

Le valutazioni peritali possono essere condivise e devono pertanto intendersi qui integralmente richiamate, stante la logicità, coerenza e completezza dell’elaborato.

La CTU, rispondendo ai quesiti formulati dal Tribunale, evidenziava che:

-la dott.ssa R. aveva correttamente individuato la lesione alla cervice ed aveva indirizzato la paziente ad un presidio ospedaliero dove avrebbero potuto praticare gli approfondimenti diagnostici impossibili da eseguire in un semplice ambulatorio esterno;

-nessuna violazione dei doveri di diligenza professionale era dunque ravvisabile a carico di questo sanitario;

-i sanitari del F.-M.M. che ebbero in cura l’attrice nei giorni del 7-12/9/2012 non effettuarono alcuna doverosa diagnosi differenziale, trattando la paziente solo per minaccia di parto prematuro, benchè la lesione alla cervice uterina sia sintomo noto di possibile neoplasia;

-in seguito, il dott. G. non solo non diede corso a approfondimenti diagnostici congruenti con le indicazioni della specialista di riferimento, omettendo persino di procedere al pap test, ma omise persino di allertare adeguatamente la paziente, non prescrivendole di procedere con urgenza ai necessari esami appena concluso il parto;

-doveva peraltro considerarsi che una tempestiva e corretta diagnosi di neoplasia non avrebbe comunque consentito di sottoporre la paziente alle cure necessitate, essendo incompatibili con l’avanzato stato di gravidanza della signora;

– gli studi clinici eseguiti proprio nel periodo di riferimento (2009-2013) dimostravano che il posticipare le cure successivamente al parto non provocava in realtà cadute significative sulla sopravvivenza, presentando tassi simili a quelli osservati nella popolazione complessiva ed evidenziavano che l’esito non mutava tra donne con diagnosi in gravidanza e donne con diagnosi successiva al parto;

-dal parto (6/11/2012, alla 37a settimana) alla data della diagnosi (14/5/2013) erano passati sei mesi, avendo la paziente omesso di presentarsi all’ordinario controllo post partum a distanza di un mese;

-il tumore era classificato con stadiazione IIb e la paziente veniva sottoposta a tre cicli di chemioterapia e a un successivo intervento chirurgico; era estremamente difficile, in assenza delle dovute analisi, risalire alla stadiazione del tumore al settembre 2012, da considerarsi comunque non inferiore a Ib; era altrettanto difficoltoso risalire ad una stadiazione al dicembre 2012, prima data utile per l’inizio del trattamento chemioterapico;

-in ogni caso, l’approccio terapeutico a contrasto della patologia non avrebbe potuto che essere iniziato nel dicembre 2012, successivamente al parto, e sarebbe comunque consistito in una chemioterapia adiuvante e in un intervento chirurgico, analogamente a quanto effettuato nei mesi successivi;

-la radicalità dell’intervento sarebbe stata in ogni caso la medesima, dal che conseguiva l’impossibilità di configurare un danno biologico permanente riconducibile al ritardo diagnostico;

-questo ultimo aveva comportato il permanere di sintomi, quali il sanguinamento ed il malessere, che avrebbero potuto essere più tempestivamente eradicati in presenza di una provvidenziale diagnosi; ne conseguiva una inabilità parziale del 25% per cinque mesi;

– il periodo di tempo trascorso tra il primo momento utile per procedere alle cure e il trattamento infine applicato, valutabile, come detto, in soli cinque mesi, poteva aver comportato, ipotizzando una stadiazione iniziale a Ib, una diminuzione di possibilità di guarigione inferiore del 22% rispetto all’ipotizzabile 89,1%;

-tuttavia, doveva tenersi conto della negatività oncologica a distanza di oltre tre anni dall’evento (l’espletamento della CTU si concludeva al gennaio 2017), dato positivo per le previsioni di sopravvivenza, manifestandosi le recidive statisticamente nei primi due ani, elemento che deponeva per una prognosi di sopravvivenza favorevole, nei fatti sovrapponibile a quella applicabile ad un più +tempestivo contrasto della malattia;

-le osservazioni svolte non consentivano di affermare che il ritardo diagnostico avesse ridotto in misura significativa le chances di guarigione della signora R.B.K.A., residuando “un valore da perdita di chance del tutto esiguo” (pag. 23, CTU).

Le determinazioni peritali illustrate appaiono analitiche, approfondite, logicamente concatenate, fondate su, protocolli e boreme medico legali non contestati e devono pertanto essere condivise.

A fronte delle lucide affermazioni rese dal Collegio peritale nessuna dirimente osservazione critica veniva dispiegata dalle Difese degli odierni contraddittori.

In particolare, la Difesa attorea ometteva di considerare nelle proprie valutazione la preesistenza della grave malattia e l’impossibilità di procedere ad un adeguato trattamento se non successivamente al parto, insuperabile circostanza che rende nulla più che mera illazione la critica di scarsa serenità rivolta dalla Difesa attorea ai periti incaricati.

Deve dunque affermarsi che il dott. G., ed i sanitari della M.M., questi ultimi intervenuti nel corso dei primi ricoveri, ma non convenuti in giudizio, avevano affrontato reperti in cui erano presenti chiari indici di malignità che avrebbero dovuto condurre ad una tempestiva diagnosi di neoplasia, specie ove fossero stati eseguiti accertamenti adeguati, in grado di portare i clinici ad una corretta diagnosi anche ex ante.

L’omessa diagnosi dei sanitari dell’O.M.M., ivi incluso il dott. G., era quindi frutto della violazione delle regole dell’arte medica.

Parimenti condivisibili risultano essere la quantificazione del danno biologico temporaneo riportato, posto che l’invalidità temporanea derivante dalla somministrazione di chemioterapici e dall’intervento chirurgico era identificabile con quella che sarebbe comunque derivata in caso di più tempestivo trattamento; residuavano dunque solo i malesseri conseguenti alla inutile protrazione della patologia in atto (sanguinamenti e dolorabilità) valutati al 25% pro die per cinque mesi.

Corretta appare la valutazione di assenza di nesso eziologico tra la accertata ritardata diagnosi e l’assenza di danno biologico permanente presentato dalla paziente, posto che la patologia, ancorchè tempestivamente trattata, avrebbe comportato in ogni caso un intervento chirurgico di eradicazione della stessa ampiezza di quello infine praticato.

Quanto alla dedotta minor probabilità di guarigione della paziente, si condividono le valutazioni peritali, svolte al gennaio 2017, data delle conclusioni assunte dai consulenti dell’Ufficio, sulla presenza di una perdita scarsamente apprezzabile di chances di guarigione.

L’indicata valutazione deve essere arricchita con la considerazione che, per fortuna dell’interessata, ad oggi, a distanza di cinque anni, la malattia è silente (non avendo la Difesa dell’attrice rilevato in sede di memorie conclusive alcuna nuova evenienza in proposito), ponendo così la paziente nel più favorevole range di guarigione della categoria di pazienti di riferimento, come se fosse stata operata non solo nel primo momento utile (cinque mesi prima), ma persino ad una stadiazione inferiore.

III

Quanto alla corretta qualificazione della responsabilità dell’ente ospedaliero a seguito della c.d. Legge Balduzzi (L. n. 189 del 2012) e della successiva L. n. 24 del 2017, cd. Gelli, si osserva che i recenti interventi legislativi non hanno in alcun modo inciso sulla qualificazione come contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria e rimane quindi fermo il consolidato orientamento della Suprema Corte che individua il fondamento della responsabilità dell’ente ospedaliero nel contratto atipico di spedalità che viene concluso con il paziente una volta che quest’ultimo viene preso in carico dalla struttura. L’ente ospedaliero convenuto dal danneggiato può essere, quindi, responsabile per fatto proprio, ai sensi dell’art. 1218 c.c., ove i danni siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura, ovvero per fatto altrui, ex art. 1228 cod. civ., ove tali danni siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui l’ospedale si avvale (Cass. Civ. sez. III, n. 1620/2012).

Nel caso in esame la allegazioni attoree in ordine alla colpa dei medici operanti presso la struttura convenuta hanno trovato conferma nelle risultanze della CTU sopra illustrate.

Si ricorda che, specie in materia di responsabilità sanitaria, la perizia dell’Ufficio può divenire essa stessa fonte oggettiva di prova quando, “attesa l’innegabilità delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie non solo alla comprensione dei fatti, ma alla loro stessa rilevabilità, la consulenza tecnica presenta carattere “percipiente”, sicché il giudice può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati, ma anche quello di accertare i fatti medesimi, ponendosi pertanto la consulenza, in relazione a tale aspetto, come fonte oggettiva dì prova” (Cass. Civ. Sez. III, sent. n. 4792/2013; Cass. Civ. Sez III, sent. n. 6155/2009).

Gli accertamenti peritali offrono infatti al giudice il quadro dei fattori causali necessari alla ricostruzione del nesso causale secondo la regola del “più probabile che non”, ossia della c.d. “preponderanza dell’evidenza”; in base a tale regola, può essere affermato il nesso tra l’operato dei sanitari e le conseguenze dannose riportate da un paziente ove appaia più probabile che determinate conseguenze pregiudizievoli non si sarebbero verificate, in tutto o in parte, in mancanza di determinate condizioni coinvolgenti la condotta colposa del medico (Cass. civile, sez. III, 28/07/2015, n. 15857).

Ora, nel caso in esame, la perizia ha evidenziato che, alla luce di tutte le circostanze del caso (circostanze sintetizzate nei vari criteri utilizzati dai consulenti per affermare la sussistenza del nesso di causa: criterio cronologico, topografico, di idoneità quali-quantitativa, di continuità fenomenica, di esclusione di altre cause), la maggior entità del danno biologico temporaneo deve per certo ritenersi causata dalla omessa tempestiva diagnosi effettuata dal dott. G. del F., ora A.F.S., con conseguente ritardo di intervento e cura appropriate della patologia presentata dalla paziente.

All’esito dell’istruttoria svolta risulta, dunque, provato che l’ente ospedaliero convenuto a mezzo dei propri ausiliari si era reso inadempiente, non avendo eseguito la prestazione secondo la qualificata diligenza propria della professione sanitaria esercitata ex art. 1176, comma secondo, c.c. (Cass. civile, sez. III, 28/07/2015, n. 15857).

Tali conclusioni che, come anticipato, devono ritenersi in questa sede richiamate, consentono di ritenere provato il nesso di causa tra la condotta del dott. G. e la maggior lesione all’integrità fisica e alla salute subita dalla paziente.

Ritenuta quindi provata la violazione delle regole dell’arte medica da parte dei sanitari, sussiste come conseguenza della stessa, in virtù dell’art. 1228 c.c., la responsabilità della struttura ospedaliera (cfr. ex multis Cass. civile, sez. III, 22/09/2015, n. 18610; Corte appello Milano sez. II 10 febbraio 2016 n. 492).

Quanto al dott. G., corre l’obbligo di richiamare l’indirizzo giurisprudenziale seguito dalla Sezione I di questo Tribunale (cfr. sent. 26.6.2014 dott. M.; sent. n.17.7.2014, dott. G., con motivazioni sul punto da intendersi qui integralmente trascritte) che, richiamando le previsioni di cui all’art. 3, c.1, D.L. n. 158 del 2012, conv. con L. n. 189 del 2012, riconduce all’alveo dell’art. 2043 c.c. , oggi espressamente riconosciuto dalla successiva L. n. 24 del 2017, cd. Gelli, la responsabilità del sanitario prestante la propria opera all’interno di una struttura pubblica (o convenzionata), non intercorrendo in tal caso alcun rapporto di natura contrattuale tra il medico e il paziente.

La pacifica acquisizione per il caso che qui occupa di prova esaustiva in ordine alla presenza di profili di colpa nella condotta mantenuta dal sanitario impone di ritenere pienamente provata la sussistenza di profili responsabilità di tale convenuto, sia pure sotto il diverso profilo extracontrattuale.

A quanto argomentato consegue l’accoglimento della domanda dispiegata dall’attrice al risarcimento del danno non patrimoniale alla salute allegato quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento ai sensi dell’artt. 1223 c.c. e 2043 c.c. nei limiti sopra illustrati.

I menzionati convenuti debbono dunque essere condannati in solido al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore di controparte.

I convenuti G. e F. svolgevano una domanda di manleva e regresso reciproca, oltre che di graduazione della colpa.

Non può ritenersi che l’ente sanitario abbia diritto di rivalersi integralmente nei confronti del medico, la cui scelta, formazione ed aggiornamento costituiscono obblighi specifici, unitamente al dovere di vigilanza, gravanti sull’ente in esecuzione del contratto di spedalità concluso con il paziente; considerato poi che la prestazione principale del contratto di spedalità che si conclude tra paziente e struttura è sicuramente quella che viene svolta necessariamente ed esclusivamente attraverso l’operato dei sanitari, escludere qualsivoglia responsabilità della struttura quando il danno è conseguenza della condotta del medico significherebbe addossare al sanitario il rischio di impresa tipico dell’attività svolta dall’ente ospedaliero. E’ altrettanto vero che la condotta illecita eventualmente tenuta dal medico operante presso la struttura, fonda un’autonoma obbligazione risarcitoria in capo al medico stesso ex art. 2043 c.c.

La responsabilità per l’evento occorso deve dunque essere attribuita in pari grado a ciascuna parte convenuta, valutata l’impossibilità di distinguere, in termini scientifici, una apprezzabile differente gravità del contributo causale di ciascuna parte; ne consegue, visti anche gli artt. 1298 e 1299 c.c., che nei rapporti interni tra i due condebitori solidali l’obbligazione risarcitoria deve essere divisa in misura del 50% della somma dovuta al danneggiato, con conseguente diritto di regresso di ciascun convenuto nella percentuale indicata.

Le univoche indicazioni peritali sopra riportate impongono, infine, di escludere profili di responsabilità a carico della dott.ssa R. e degli I..

Prive di pregio appaiono anche le argomentazioni volte a fondare una limitazione della responsabilità di parti convenute sul presupposto di un concorso colposo della creditrice ex art. 1227 c.c. , a ragione che la paziente si fosse, in tesi, volontariamente sottratta ai controlli da eseguirsi successivamente al parto.

Osserva il Tribunale che un conto è prescrivere una visita routinaria di controllo post partum a distanza di circa un mese dalla nascita del bambino; altra cosa è prescrivere una visita e controlli deputati ad un approfondimento diagnostico per sospetta lesione neoplasica. Nella documentazione clinica versata in atti non vi è alcun riferimento documentale della pretesa prescrizione a R. di sottoporsi a visita di controllo finalizzata a nuove indagini.

Non pare inutile ricordare che una disposizione intanto può assurgere al ruolo di “prescrizione medica” in quanto sia impartita in modo chiaro e, soprattutto, risulti definita nelle ragioni che la fondano, nei contenuti del trattamento e nei tempi in cui deve essere praticata; in altri termini, deve presentare linee di definizione tale da poter costituire un preciso “compito” posto a tutela del diritto alla salute del paziente all’interno dell’alleanza terapeutica che deve caratterizzare il rapporto di questi con il sanitario interpellato.

Applicando il principio invocato ne deriva che l’affermazione del dott. G. di aver “consigliato” alla paziente di sottoporsi a nuovi controlli per un sospetto polipo alla cervice uterina, oltre a non superare lo stadio della mera allegazione, risulta privo dei caratteri propri della prestazione medica.

Osserva ancora il Tribunale -ancorchè non evidenziato da alcuna delle parti- che lo specialista dott. G. anche in presenza della sola diagnosi di “lesione” alla cervice avrebbe dovuto prescrivere una successiva visita di controllo presso di sé, o quanto meno inserire la paziente nei protocolli di indagine e controllo non appena si fosse svolto il parto.

In altri termini, ciò che si vuole dire è che il medico non può affrontare un caso clinico prescindendo dall’anamnesi e dalle previsioni della possibile evoluzione, abbandonando il paziente a sé stesso e poi pretendere di evocare, a elisione totale o parziale della propria colpa, il concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 c.c. per non essersi lo stesso attivato autonomamente.

Non può quindi trovare accoglimento la domanda di riduzione del danno liquidabile dispiegata da parti convenute, risultando infondata l’eccezione del concorso colposo della creditrice nella causazione del danno.

IV

Con riferimento alla quantificazione del danno non patrimoniale, deve farsi riferimento alle determinazioni assunte dalla CTU medico legale in atti che, basandosi su valutazioni tecniche che risultano logiche ed adeguatamente motivate, si condividono integralmente nei termini sopra riportati.

Come anticipato, i Consulenti Tecnici hanno riconosciuto la presenza di un danno biologico temporaneo ascrivibile alla erronea condotta sanitaria, quale danno iatrogeno.

Per quanto riguarda l’invalidità temporanea, parziale, calcolata dai consulenti in mesi 5 al 25%, debbono essere liquidati a titolo di danno biologico temporaneo complessivi Euro 5.475,00 (con valore base pro die di Euro 146,00 in ragione dell’estrema sofferenza psicologica causata e del conseguente protrarsi dei disturbi propri della patologia per cinque mesi).

Non pare inutile ricordare altresì che “Il grado di invalidità … espresso da un “baréme” medico legale esprime la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gli aspetti della vita quotidiana della vittima, restando preclusa la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona, quali il danno alla vita di relazione e alla vita sessuale, il danno estetico e il danno esistenziale. Soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione” (Cass. nn. 23778/2014; 20630/2016; Cass. Sez. Un. 11/11/2008 n. 26972).

Fatta applicazione del principio enunciato, ritiene il Tribunale che nel caso in esame debba trovare adeguato ed autonomo ristoro il danno morale, identificabile, come allegato dall’attrice, nella sofferenza psicologica derivante dalla consapevolezza non tanto di essere affetta da una patologia grave, ma del maggior rischio di recidiva correlato alla ritardata diagnosi (con un tempo di attesa dipanatosi, secondo le valutazioni AIOM, nelle frazioni di due/cinque anni, costituenti notoriamente parametri di riferimento temporale per escludere con alta percentuale il rischio di recidive); la fortunata circostanza che il tempo trascorso abbia eliso il maggior rischio in origine esistente (valutabile ab origine in una perdita di chance del 22%) e che la sofferenza debba oggi dirsi superata per la positiva evoluzione del decorso post terapia, non vale ad escludere che il danno morale patito, per intensità e per sua natura, non possa ritenersi assorbito nelle ordinarie componenti di sofferenza psicologica conseguenti alle lesioni riportate all’integrità fisica, compendiate nel caso in esame nella sola invalidità temporanea parziale. La liquidazione non può che avvenire in via puramente equitativa, non rinvenendosi parametri utili all’interno delle note Tabelle milanesi; valutati i criteri indicati, stimasi equo riconoscere un risarcimento pari al valore riconosciuto per danno biologico temporaneo.

L’ammontare complessivo dovuto a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale è dunque pari ad Euro 10.950,00, tenuto conto degli aspetti non solo contingenti in quanto legati alla sofferenza acuta conseguente alla condotta lesiva, ma anche del più ampio pregiudizio determinatosi in tutti gli aspetti della vita della paziente in relazione al più ampio contesto affettivo relazionale del soggetto leso, in ciò ricomprendendosi ogni vulnus direttamente derivante dall’evento lesivo in esame, in una valutazione unitaria del danno non patrimoniale derivante dalla lesione dell’integrità psicofisica.

Va, altresì, riconosciuto il danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente pecuniario che, in difetto di contrastanti elementi probatori, si ritiene di compensare adottando quale parametro quello degli interessi da calcolarsi, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (n.1712/95), sulla somma via via rivalutata dalla produzione dell’evento di danno sino ad oggi, tempo della liquidazione. Così, tenuto conto di questo criterio – previa devalutazione alla data del fatto della somma espressa in moneta attuale – vanno aggiunti alla somma via via rivalutata annualmente gli interessi compensativi nella misura legale dall’evento fino alla data odierna.

Da oggi, giorno della liquidazione, all’effettivo saldo decorrono gli interessi legali sulla somma sopra liquidata complessivamente.

Concludendo, in sintesi, accertato l’inadempimento per violazione degli obblighi di diligenza professionale da parte del dott. G. e del F., questi ultimi devono essere condannati al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore di parte attrice nella misura indicata.

VI

Il danno come liquidato rientra ampiamente nella franchigia prevista nella polizza stipulata dal F.; non vi sono dunque le condizioni per accogliere la domanda di manleva dispiegata dall’ente ospedaliero assicurato.

Risulta assorbita ogni ulteriore questione dedotta.

Le spese di lite seguono dunque la soccombenza a mente dell’art. 91 c.p.c. e sono liquidate in favore di parte attrice ed a carico di parti convenute ex D.M. 10 marzo 2014, n. 55 e D.M. n. 37 del 2018 nella misura direttamente determinata in dispositivo, avuto riguardo al valore della causa come ritenuto in sentenza, all’attività difensiva effettivamente prestata e all’articolazione delle questioni di fatto e di diritto affrontate.

La somma liquidata ai CTU e posta provvisoriamente a carico di tutti i contraddittori deve essere integralmente posta a carico dei convenuti G. e A.F.S. (tenuti a rimborsare a parte attrice quanto dalla stessa eventualmente già corrisposto ai periti).

Letta e applicata la recentissima sentenza n.77/2018 emessa dalla Corte Costituzionale in tema di spese di giustizia, si ritiene che nel caso in esame sussistano gravi ragioni, individuate nella complessità del caso trattato, che impongono la compensazione delle spese di lite tra tutte le altre parti in causa.

P.Q.M.

Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda, istanza od eccezione disattesa, così provvede:

a) accertato l’inadempimento da colpa professionale dell’Azienda O.F.- ora A.F.S., e del dott. G.E., li condanna al risarcimento in favore di R.B.K.A. del danno non patrimoniale, liquidato in Euro 10.950,00, oltre interessi e rivalutazione come da motivazione;

b) condanna l’Azienda O.F.- ora A.F.S., e il dott. G.E. al pagamento in solido tra loro in favore di parte attrice delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 4.725,00, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a. come per legge;

c) pone definitivamente a carico dei convenuti soccombenti, in parti uguali, le spese di C.T.U., liquidate come da decreto in atti;

d) dichiara che ciascuna delle parti convenute Azienda O.F.- ora A.F.S., e il dott. G.E. ha diritto di regresso al 50% nei confronti dell’altra in caso di pagamento dell’intero;

e) rigetta ogni ulteriore domanda dispiegata in atti;

f) spese compensate tra tutte le altre parti di causa.

Così deciso in Milano, il 20 giugno 2018.

Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2018.